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Novella LXVII - Il soldano dell’Egitto uso gran gratitudine verso Enrico, duca de’ Vandali, suo prigioniero
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IL BANDELLO

al vertuoso ed illustre signore

il signor

CESARE FREGOSO

salute


Tra tutte le vertú che ogni uomo rendono commendabile, o sia privato o sia in degnitá di magistrati costituto o padrone e signore di popoli, io porto ferma openione che la gratitudine sia una di quelle che di modo informi ed ammaestri le menti nostre, che di leggero faccia la via a tutte l'altre vertú morali; perché impossibile mi pare d'esser grato dei benefici ricevuti, se l’uomo anco non ha quell'altre parti che ad esser da bene se gli convengono. E secondo che Tesser grato è cosa onorata e lodevole, cosí per Io contrario Tesser ingrato è vizio abominevole e grandemente vituperoso. Onde santamente lasciò scritto un dotto e santo dottore, dicendo che il peccato de l’ingratitudine è un vento che abbrucia e secca il fonte de la divina pietá. Colui che è grato riconosce tanti benefici quanti la divina bontá ci ha fatti e tutto il di fa, e non potendo egli equivalente beneficio renderle, perché dal finito a l’infinito non è proporzione alcuna, almeno si sforza con animo grato e ricordevole degli avuti e non meritati beni renderle tutte le grazie che può le maggiori, ed ogni di se le confessa debitore. Il medesimo fa verso i parenti e verso gli amici, e insomma verso tutti quelli a cui si sente ubligato. Né solamente rende loro le debite grazie di parole, ma con gli effetti ed opere de l’animo grato si mostra loro e gli fa conoscere che di se stesso prima sará possibile obliarsi, che porre in oblio gli avuti piaceri e benefici da l'amico. Di questa vertú ragionandosi, giá molti 6o PARTE TERZA anni sono, in Milano a la presenza del signor Prospero Colonna, messer Francesco Peto, uomo dottissimo, narrò una bella istoria a questo proposito, la quale io alora scrissi. Ora, facendo la scelta de le mie novelle, questa narrata dal Peto m’è venuta a le mani, onde al nome vostro 1’ ho intitolata, si per esservi io quello che vi sono, che dal sacro fonte v’ ho levato, ed altresì per la buona creanza che in tutte l'azioni vostre mostrate, e massimamente negli studi de le lettere, nei quali, non avendo ancora compito l’undecimo anno, fate tutto '1 di mirabil profitto. Io vi ricordo che avete il nome del vostro padre, che fu segnalato cavaliero e ne la milizia a1 tempi suoi ebbe pochi pari e nessuno superiore. Egli per proprio valor suo, ché da fanciullo si nudri ne l’arme, e non per ¡straordinari favori, con la spada e lancia, con la sagacità, prudenza, fortezza e scienza militare s’acquistò il nome di valente soldato e di sapientissimo capitano, come l’imprese da lui per l’Italia fatte ne rendono testimonio. Sforzatevi adunque d’imitar il padre, che ne l’opere de la magnificenza, liberalità e de la gratitudine fu singolarissimo. State sano. NOVELLA LXVII Il soldano de l'Egitto usò gran gratitudine verso Enrico duca de gli vandali suo prigionero. Fu già la città di Magnopoli capo di molti domini ne le parti settentrionali, di modo che negli anni di nostra salute mille cento settanta e nove fu re di quella Pribislao, sepolto in un monastero d’essa città detto Dobran, su la cui sepoltura è intagliato questo epitafio: « Pribislaus, Dei gratia erulorum, va- griorum, circipaenorum, polamborum, obotritarum, kissinorum vandalorumque rex ». Fu costui l’ultimo re di quei popoli settentrionali, i quali di già nel trecento quaranta, insieme con i goti, in Austria, Croazia, Dalmazia e ne l’Italia fecero grandissime battaglie, e nel quattrocento dodici espugnarono Roma e dopoi, passati in Affrica, presero Cartagine ed occuparono la Spagna. Ora, morto che fu Pribislao, si cangiò il nome del re NOVELLA LXVII 6l in duca, e i suoi figliuoli divisero le provincie tra loro, di cui gli eredi sino al giorno d'oggi regnano; e sono signori a’ nostri tempi dui fratelli, cioè Enrico ed Alberto. Negli avi di questi dui, del mille dugento sessanta, pocQ più e poco meno, fu il duca di Magnopoli un Enrico, uomo molto catolico, il quale, nel generai passaggio che i cristiani fecero in Soria, andò col re Lodovico di Francia che poi fu santo. E volendo esso duca Enrico passare in Gierusalem, fu preso dai soldati de la Cili- cia infedeli e mandato a Damasco e poi al Cairo del soldano, ove stette schiavo presso a trenta anni, di modo che nel tempo de la sua prigionia morirono dui soldani e fu eletto il terzo. La moglie d’Enrico, figliuola del re di Svezia, insieme con il picciolo figliuolo, che pure anco egli aveva nome Enrico, veggendo tanti altri signori ritornare di Soria ed il marito non rivenire, non sapendo ciò che di lui fosse, se ne stava con grandissimo dolore. Tuttavia governava essa duchessa i suoi popoli con tanta moderazione che da tutti generalmente era amata e riverita. Faceva poi allevare il figliuolo con grandissima cura, a ciò che apparasse ottimi costumi e col tempo potesse moderatamente il suo ducato governare. Né solo a le lettere e buoni costumi lo fece attendere, ma volle anco che a la essercitazione d’ogni sorte d’arme ed al cavalcare desse opera; il che faceva molto diligentemente il giovinetto. Ora devete sapere che, avendo il padre del duca Enrico, che era in Soria, grandissima guerra con i signori de la Livonia, andò a trovarlo un tartaro, il quale era eccellentissimo maestro di macchine per ispugnare una fortezza ed anco per difenderla con i ripari che sapeva maestrevolmente fare. Fu costui molto accarezzato dal padre d’Enrico, si per l’eccellenza del magisterio suo, come anco perché era de la persona sua molto prode e ottimo soldato. Gli statuì adunque buon salario, ed al figliuolo, che in campo era, molto lo raccomandò, ché lo accarezzasse e seco lo tenesse; il che il giovine diligentemente fece, di modo che il tartaro gli mise grandissimo amore. Questo tartaro, di cui ora v’ho parlato, era colui che poco innanzi v' ho detto che fu eletto soldano. Essendo adunque il duca Enrico suo schiavo e tutto il di 62 PARTE TERZA veggendolo, non perciò lo conosceva, e medesimamente il sol- dano non riconosceva lui. Ora avvenne che un di, ridendo, il duca Enrico fece con le labbra un certo movimento il quale altre volte il soldano, quando militava con lui, aveva molte fiate notato; il perché tenne per fermo che quello fosse il duca Enrico già suo padrone. Ed ancor che fosse stato circa trenta anni schiavo e sopportati mille disagi e divenuto forte vecchio, nondimeno non era mica tanto disfatto che a le native fattezze il soldano non lo riconoscesse. Onde, ringraziato Dio che gli dava occasione di potersi mostrar grato dei piaceri da Enrico ricevuti, lo domandò di che paese egli fosse. Al quale rispose che era di Ponente; né ardiva apertamente dirli chi fosse. Del che accortosi il soldano, gli disse: — A ciò tu conosca che io so più di te e de lo stato tuo che tu forse non credi, mirami per minuto e guarda se mi conosci. — Il duca, poi che buona pezza l’ebbe considerato, gli rispose dicendo che non per altro lo conosceva che per lo soldano suo signore. Alora soggiunse il soldano e disse: — Sowienti, cristiano, quando tuo padre guerreggiava in Livonia, che ci capitò un tartaro fabricatore di macchine, e ti fu raccomandato e tu gli facesti tanti piaceri ? Non ti sovviene come per sua industria si diede grandissimo danno ai nemici? lo sono quello, o duca Enrico a me carissimo, il quale, partito da te, me ne tornai in Tartaria, ove feci molte prove. Poi, che sarebbe troppo lungo dire, preso da’ corsari e in questo paese tre volte per ischiavo venduto, sono asceso a la grandezza che tu vedi. E sia lodato Iddio che ti potrò mostrare di non esser ingrato dei benefici da te ricevuti. — Fattogli adunque carezze grandissime, molto bene messolo in ordine e donatogli grandissimi e preziosi doni, dopo gli abbracciali amorevoli fatti insieme, il soldano lo licenziò, e datogli una galea ottimamente corredata, io mandò in Cipri a la reina de l’isola, che era sorella del padre d’Enrico, da la quale egli fu lietissimamente visto e per alcuni di accarezzato. Poi con buon vento navigò a Marsiglia, ove un’altra sua zia era contessa di Provenza. Quivi medesimamente con gran piacere veduto e festeggiato, del mille ducento novantotto a casa NOVELLA LXVII 63 ritornò, dove con inaudito piacere fu da la moglie, figliuolo e piccioli nipoti ricevuto, i quali lungo tempo l’avevano per morto pianto. E cosi il buon duca Enrico quel poco tempo che gli restava de la vita in grandissima qjiiete visse, non cessando mai di far cortesia e piacer a tutti. Morto poi, fu nel moni- stero di Dobren sepellito. Onde, signori miei, io vi conchiudo che ciascuno secondo la possibilità sua deve sforzarsi di far piacere ad ogni persona, perché si vede, per l'istoria che io v’ho narrata e per infiniti altri essempi, che la liberalità e la cortesia a molti usata, se ben da tutti non è riconosciuta, non è possibile che a la fine non si ritrovi alcuno che d’animo grato e generoso non si dimostri. E quando mai non ci fosse chi grato si dimostrasse, l’uomo almeno, che magnifica e liberalmente opera, fa officio di vero gentiluomo e vertuoso e fa ciò che deve. ■ « ..I

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