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IL BANDELLO
al molto illustre signore
gianlodovico pallavicino
marchese
Andando io questo settembre prossimamente passato a Bargone, castello del signor Manfredo vostro fratello, per alcuni affari che m’occorrevano negoziare con la signora Ginevra Bentivoglia vostra cognata, capitai non so come a Cortemaggiore, passando di lungo, non sapendo ancora ove io mi fossi. E volendo ad uno paesano domandar il nome del luogo, voi in quello arrivaste venendo da la caccia, né voleste che piú innanzi io cavalcassi. E non bastandovi tenermi quel giorno vosco in ròcca, mi vi teneste cinque di continovi, facendomi quelle carezze che non ad un par mio, vostro antico domestico e servidore, ma che sarebbero state assai ad ogni gentiluomo gran signore. Né io ora voglio raccontar le sorti dei piaceri, dei trastulli e dei giuochi che si fecero con sodisfazione e piacer di tutti. E perché ne le case e corti dei signori ci sono sempre diversi ingegni d’uomini e tutti non ponno esser sagaci e avveduti, il vostro che altri Polito e altri chiamano Mosca — che mi pare che si deverebbe chiamar piú tosto « ragno », perché ha le gambe sottili e lunghe e va sempre in punta di piedi — ci diede piú volte materia di ridere, perché, non si volendo veder un minimo peluzzo su le vesti e tuttavia essendogli a dosso gettato qualche cosa, entrava in tanta còlerá, con si estrema e fiera bravura, che chi conosciuto non l’avesse s’averebbe creduto d’esser ne le mani del furibondo Rodomonte. Nondimeno con tante sue minacce egli non saria stato oso di batter una mosca, anzi se ogni picciolo figliuoletto contra lui rivolto si fosse, sarebbe come 192 PARTE TERZA un vii coniglio fuggito via. Era quivi messer Giacomo da San Secondo, il quale con sonare e cantare, essendo musico eccellentissimo, ci teneva spesso allegri. Egli, veggendo il contegno del Polito, narrò una novelletta a proposito di questi che tutto lo studio loro mettono in polirsi. Voi alora mi diceste che tal novella sarebbe buona da metter con l’altre mie. Il perché, avendola io scritta, ho voluto che sia vostra e che vada a torno, se mai uscirà di casa, col nome vostro in fronte; il che sarà appo quelli che dopo noi verranno evidentissimo segno de la mia osservanza verso voi. State sano. NOVELLA XI Dui giovi ni vestiti di bianco sono con una burla da un altro giovine beffati. L'aver veduto questo vostro servidore che in parole cosi brusco ed acerbo si mostra e che non può patire di vedere sui suoi panni una minima festuca, m’ha fatto sovvenire una novella che non è ancor molto in una città di Lombardia avvenne. E poi che mi pregate ch’io ve la dica, io molto volentieri vi ubidirò. Erano dui giovini assai di buon sangue, i quali tenevano del simpliciotto anzi che no, perché il prete dando loro il battesimo pose pochissimo sale in bocca a l’uno e a l’altro. E per essere, come si costuma dire a Milano, parrocchiani de la parrocchia di San Simpliciano, avevano contratto per la somiglianza de le nature una gran familiarità insieme, e sempre di brigata andavano e vestivano per l’ordinario d'una medesima foggia. Se poi si trovavano con altri giovini, dicevano le maggior pappolate del mondo, e non potevano sofferire che altri che essi parlasse, e spesso senza rispetto veruno rompevano i ragionari degli altri. E trovandosi aver cattivi vicini, tutti i ragionamenti che facevano erano per la più parte in lodarsi e commendar tutte le cose proprie, di modo che fastidivano qualunque persona che gli ascoltasse e mal volentieri erano ricevuti in compagnia. Ora avvenne che essendo di state essi si vestirono di zendado bianco, cioè il giuppone e il robone; le NOVELLA XI 193 calze erano di panno bianco e le scarpe e la berretta pur bianche, di velluto, con pennacchini bianchi ne le berrette. Con questo abito comparsero in publico, e come pavoni andavano facendo la ruota e a passo a passo riguardandosi e contemplandosi da ogni banda, e tuttavia con la coda de l’occhiolino sotto vista mirando s’altri guardava loro, parendogli pure che ciascuno di questo loro abbigliamento devesse tener proposito. Quando poi erano in compagnia d’altri, fuor d’ogni proposito entravano sul pecoreccio di questo lor abito, di modo che ciascuno fuggiva la pratica loro più che si poteva, parendo a tutti aver sempre negli orecchi : — Mirate questo passamano come profilatamente sta su questo giubbone ! vedete queste penne finissime come ad ogni picciolo soffiare di poco vento si moveno e fanno un tremolare il più bello del mondo ! che dite voi di questi puntali e di questa maestrevolmente fatta impresa? Certo che il tutto campeggia per eccellenza. E vi so dire che pochi, eccetto noi, averebbero si bene accompagnato il tutto. — Con queste e altre simili ciancie erano a noia a tutti. Eravi un giovine molto galante, accorto e avveduto, al quale questi fecciosi modi di questi dui gani- medi meravigliosamente dispiacevano. Questi andava pur tuttavia imaginandosi come potesse lor far una berta e levar quella seccaggine de le orecchie di tutti. E cadutogli ne la mente ciò che far intendeva e al tutto messo buon ordine, aspettava l’occasione di poter mandar ad effetto ciò che imaginato s’aveva. Era, come di già v’ho detto, di state; onde avendo egli avvertito che quasi ogni sera questi pavoni bianchi passavano per la contrada ove egli aveva la sua casa, perciò che colà vicino erano due belle giovanette con le quali eglino facevano l’amore, si mise un giorno dopo cena a star in porta a prender del fresco. E non essendo guari dimorato, ecco che i dui innamorati pavoneggiandosi arrivarono, ai quali fattosi incontra e presogli ambidui per le mani, disse loro: — Voi séte miei prigioni, e quindi non partirete senza ber un tratto. — Accettato l’invito dai dui, entrarono in casa; ove volendo i servidori lavar i bicchieri, disse il galante giovine: — Io vo’ che noi andiamo giù nel rivolto a bere, perché averemo più fresco. — E fatto accender M. Bandkllo, Novelle. 13 194 PARTE TERZA un torchio, essendo l'ora tarda e la cava scura, scesero a basso. Mentre che i bicchieri si lavavano, si posero tutti tre i giovini a passeggiar per la cava, che era assai grande e spaziosa. Era quivi un gran vaso pieno d’acqua, che il giovine v’aveva fatto metter a posta. E perché pareva di grandezza tale che un uomo noi potrebbe levare, egli ai convitati disse: — Io ho un mio uomo che si mette questo vaso su le spalle e lo porta di sopra. — Uno dei ganimedi, che si pensava esser molto gagliardo, noi potendo a pena movere: — Io non credo — disse — che un uomo possa portar tanto peso. — Che si, che no, disputandosi tra loro, giocarono sei para di pernicioni. In questo bebbero, e venne uno che a questo effetto aveva il giovine fatto venire, e cominciò a mover il vaso e porselo in collo. Il giovine senza dir altro s’avviò su per le scale per montar in alto. Dopo lui andò il servidore che portava il torchio, e lui appresso quello ch’aveva il vaso in su le spalle. Seguivano i cavalieri bianchi ridendo. Le scale erano alte, e colui che portava il peso andava assai piano, fingendo esser molto gravato. Come egli fu quasi in cima de le scale, mostrò di intoppare in non so che e lasciò andar il vaso con tal modo che, percotendolo al muro, ciò che dentro il vaso era spruzzò di sorte che stranamente dipinse gli abiti dei dui giovini. Ma di tanto fu avveduto il portatore che ritenne sempre il vaso, ché se l’avesse lasciato andar in giù, faceva altro che imbrattar i panni. L’acqua che dentro v’era stata posta era stemperata con inchiostro e fango, di tal sorte che quelli, che erano prima bianchi come armellini, alora parevano pantere, cosi erano zaccherosi dagli schizzi de la percossa acqua e de le mesture che dentro v’erano. Mostrò il padrone de la casa di fieramente adirarsi con quello che il vaso portava e volerlo stranamente battere, ma egli adoperò le calcagna. E i dui giovini rimasero con il danno e le beffe, e fu necessario che d’altri vestimenti si provedessero, perché quelli che indosso avevano erano tutti guasti.