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IL BANDELLO

a la molto vertuosa e gentile eroina

la signora

margarita pelletta e tizzona

contessa di Deciana


I vostri bellissimi madrigali che mandati m’avete per mano del signor conte Ercole Roscone, fatti da voi in lode de la meravigliosa ed incredibile bellezza e de l’altre divine doti de la non mai a pieno lodata eroina, la signora Giulia Gonzaga e Colonna, ho io cosí volentieri ricevuti e letti, come cosa che mi fosse potuta venir a le mani in questi giorni. Gli ho, dico, con mio inestimabil piacere letti e riletti piú e piú volte, si perché sono parti del vostro sublime ingegno, ch’io onoro, riverisco ed insiememente ammiro come cosa rara del secolo nostro, per le rare doti che in voi come fiammeggianti stelle risplendono in ogni azione vostra, e si anco perché sono belli, candidi, dolci, eleganti e molto tersi e pieni d’una soave facondia nativa e pura, senza veruna affettazione. Mi sono oltra ciò stati non mezzanamente cari, perché parlano di quella eccellente signora, che oggidí con l’ali de la chiara fama tanto in alto vola e si famosa per ogni clima si dimostra, che tutti gli elevati ingegni de la nostra etá, che alquanto abbiano poste e bagnate le labra nel fonte pegaseo, vi s’affaticano a celebrarla, non per accrescerle alcuna loda o agumentar i veri onori di lei, i quali non possono per gli altrui scritti, quantunque dotti ed artificiosissimi, piú crescere di quello che sono, né per biasimo de’ malevoli sminuirsi; ma perché gli scritti loro e poemi dal nome di quella, che sempre è glorioso, ricevano pregio e gloria. Io ho essi madrigali, si come per vostre lettere m’imponeste, mandati a Fondi, e gli ho dati ad un fidato messo del signor Cesare 224 PARTE TERZA Fieramosca, che egli mandò questi di a Capoa al signor Federico suo fratello. Esso signor Cesare in mia presenza comandò al suo uomo che come fosse a Fondi, subito presentasse le vostre lettere e madrigali a la signora Giulia, a la quale anco egli ha scritto di sua mano una lunga lettera in commendazione vostra con quel suo dire militare, lo mi fo a credere e porto ferma openione che quando essa signora Giulia vederà i vostri madrigali — né può molto tardare che il messo non arrivi a Fondi, — essendo quella gentilissima e giudiciosa eroina che è e da tutto il mondo è tenuta, che li leggerà con infinito piacere e gli riceverà tanto onorevolmente quanto cosa che gli potesse esser presentata, e forse più aggradirà ed averà care queste vostre bellissime composizioni che di nessun altro che la celebri. Quegli altri, che di lei tutto il di scrivono e la cantano e che si sforzano tale dimostrarla qual è, sono uomini il cui debito naturalmente è d'amare, onorare, riverire e celebrar tutte le donne, e massimamente quelle che lo vagliono, come ella è, che può dar materia amplissima a tutti gli scrittori de’ tempi nostri. Ma per dir il vero, sempre le lodi che gli uomini cantano de le donne portano di continovo con loro un poco di sospetto, che per troppo amore che loro si porta o per acquistare la loro grazia non si passi alquanto il termine de la verità. Ma se una giudiciosa donna come voi séte, loda un'altra donna, che sospetto si può avere che ella non dica la nuda e aperta verità? Voi — siami lecito cosi dire, parlando il vero e ciò che tutto il mondo vede, — nata bella e nobilissimamente e altamente maritata, di buone lettere ornata, che leggiadramente ne la lingua volgare componete e su le vostre rime fate i canti, e quelli, maestrevolmente composti, con ¡snodata e velocissima mano sonate e col suono accompagnate la soavità de la vostra voce; voi, dico, che séte tale, lodate la signora Giulia. Questa sarà ben vera e sincera lode, ove punto di sospetto non si può da Momo stesso trovare, conoscendosi che solamente la verità v’ha mossa a cosi di lei cantare. Felice adunque la signora Giulia che si nobile cantatrice de le sue vertù ha ritrovato! Ora, perché mi scrivete che io alcuna cosa de le mie vi mandi, NOVELLA XVII vi. dico che in questi ardentissimi caldi che fuor di misura in questi giorni canicolari qui in Milano regnano, io ho messo da canto tutti i miei più gravi studi ; e se pur leggo o scrivo cosa alcuna, ciò che faccio è studio di poca cura, ove non mi bisogni silogizzando farneticare e straccare la 'mia debole e di gran cose mal capace fantasia. Onde sovvenutomi dei molti piacevoli e cari ragionamenti che questo aprile e maggio passati avemmo a le vostre castella di Deciana e nel Monferrato a Ponzano e altri vostri luoghi, ove assai volte si disse de le beffe che le donne agli uomini fanno, mi ricordai de la novella che il nostro dotto messer Giacinto Arpino ci narrò, volendo mostrare che ancora talvolta gli uomini rendono a le donne pane per ¡schiacciata. E parendomi assai bella e tale che a molti poteva esser di profitto, l’ho in questi caldi scritta e ve la mando e al nome vostro consacro. Quando adunque non vi rincrescerà, potrete leggerla e prenderla per alleggiamento dei vostri studi. Oh, veramente felice questa nostra età! Ché se l’antica ebbe una Saffo, questa nostra si può gloriare averne due, cioè la dotta, copiosa e leggiadra vostra zia, la signora Camilla Scarampa, e voi sua onorata nipote. Ma di più sarà lodata l’età nostra, perciò che l’antica Saffo non è più dotta di voi due, e voi due séte più oneste e caste di lei pur assai. State sana. NOVELLA XVII 11 signor Filiberto s’innamora di madonna Zilia che per un bacio Io fa star lungo tempo mutolo, e la vendetta ch’egli altamente ne prese. In Moncalieri, castello non molto lontano da Turino, fu una vedova chiamata madonna Zilia Duca, a cui poco innanzi era morto il marito, ed ella era giovane di ventiquattro anni, assai bella, ma di costumi ruvidi e che più tosto tenevano del contadinesco che del civile. Onde avendo deliberato di più non maritarsi, attendeva a far de la roba ad un figliuoletto che aveva, senza più, che era di tre in quattro anni. Viveva in casa non da gentildonna par sua ma da povera femina, e faceva tutti gli uffici vili di casa per risparmiare e tener meno fantesche che M. Bandello, Novelle. ■5 226 PARTE TERZA poteva. Ella di rado si lasciava vedere, e le feste la matina a buon’ora andava a la prima messa ad una chiesetta a la casa sua vicina, e subito ritornava a la sua stanza. General costume è di tutte le donne del paese di basciare tutti i forastieri che in casa loro vengono o da chi sono visitate, e domesticamente con ciascuno intertenersi; ma ella tutte queste pratiche fuggiva e sola se ne viveva. Ora avvenne che essendo venuto in Mon- caliero messer Filiberto da Virle, gentiluomo del paese, ch’era soldato molto valente e prode de la sua persona, egli, volendo ritornar a Virle, andò a messa a la chiesa ove era madonna Zilia, la quale veduta e parutagli bella e molto avvenente, domandò chi ella fosse, sentendosi di dentro tutto acceso del suo amore. Ed intendendo i modi che ella teneva, ancora che gli dispiacessero, non poteva perciò fare che non l’amasse. Egli andò quel giorno a Virle, ove ordinate alcune sue cose, deliberò di tornarsene a Moncalieri che molto non era distante, ed ivi più che poteva dimorarsi e tentar con ogni industria se poteva acquistar l’ainor de la donna. Onde, trovate alcune sue occasioni, condusse una casa in Moncalieri e quivi abitava, usando ogni diligenza per veder spesse volte la donna. Ma egli le feste a pena la poteva vedere, e volendo con lei parlare ed entrar in lunghi ragionamenti, ella a le due parole prendeva congedo e a casa se n'andava; del che egli viveva molto mal contento e non si poteva in modo veruno da questo suo amore ritrarre. Ebbe mezzo d’altre donne che le parlarono, le scrisse ed usò il tutto che possibile fosse; ma il tutto era indarno, imperciò che ella stava più dura che uno scoglio in mare, né mai degnò di fargli buona risposta. Il misero amante, non ritrovando compenso alcuno in questo suo amore, né sapendosi da questa impresa levare, e di già perdutone il sonno e appresso il mangiare, infermò assai gravemente. E non conoscendo i medici il suo male, non gli sapevano che rimedio dare; di maniera che il povero giovine correva a lunghi passi a la morte senza ritrovar aita. Venne, mentre era in letto, a vederlo un uomo d'arme, che seco aveva gran domestichezza, ed era da Spoleto. A costui narrò messer Filiberto tutto il suo amore e la fiera rigidezza de la sua dura NOVKI.I.A XVII 227 e crudelissima donna, conchiudendogli che non ritrovando altro rimedio egli di doglia e soverchia pena se ne moriva. Lo spo- letino, udendo la cagione del male di messer Filiberto, a cui egli voleva un grandissimo bene, gli disse: — Filiberto, lascia far a me, ch’io troverò modo che tu parlerai a costei a tuo agio. — Io non vo’ altro — rispose l’infermo, — che se io ho questo, e' mi dà l’animo d’indurla che di me ella averà pietà. Ma come farai? ch’io ci ho speso gran fatica, l’ho mandati messi, ricchi doni, promesse grandissime, e nulla mai ho potuto ottenere. —Attendi pur — soggiunse lo spoletino — a guarire, e del rimanente a me la cura lascierai. — Con questa promessa Filiberto se ne rimase tanto contento che in breve si senti meravigliosamente megliorare e indi a pochi giorni se n’usci del letto. Sono tutti gli spoletini, come sapete, grandissimi cicalatoli, e vanno per tutta Italia quasi ordinariamente cogliendo l'elemosine del barone messer santo Antonio, ché sono onnipotenti nel favellare, audaci e pronti, e mai non si lasciano mancar soggetto di ragionare, e sono mirabilissimi persuasori di tutto quello che loro entra in capo di voler suadere. La maggior parte anco di quelli che vanno ciurmando i semplici uomini, dando loro la grazia di san Paolo e portando bisce, serpentelli ed aspidi sordi e facendo simil mestiero e cantando su per le piazze, sono spoletini. Era adunque l’amico di messer Filiberto di questa nazione, e forse a’ giorni suoi s’era trovato su tre paia di piazze a vender polve di fava per unguento da rogna. Egli veggendo messer Filiberto guarito, non si scordando la promessa che fatta gli aveva, ebbe modo di trovar uno di quelli che, con una cesta legata al collo e pendente sotto il braccio sinistro, vanno per la contrada gridando e vendendo nastri, ditali, spilletti, cordoni, bindelli, corone di paternostri e altre simili cosette da donne. Convenutosi adunque con costui e fattolo restar contento, prese i panni di lui ed il canestro, e vestitosi in abito di tal venditore se n’andò ne la contrada ove era la casa di madonna Zilia, e quivi cominciò, passeggiando, a gridare come si suole. Madonna Zilia, udendo la voce e bisognandole alcuni veli, lo fece chiamar in casa. Egli, veggendo che il suo avviso gli riusciva, entrò 228 PARTE TERZA in casa animosamente e salutò la donna con amorevoli e belle parole, come se egli fosse stato gran domestico. Ella, mettendo la mano dentro la cesta, cominciò a pigliar in mano questa e quella cosa; ed egli, del tutto compiacendole, dispiegava ora nastri ora veli. Onde ella, veggendo certi veli di che aveva bisogno e che gli parevano molto belli, disse: — Buon uomo, che vendete voi il braccio di cotesti veli? Se me ne fate buon mercato, io ne piglierò fin a trentacinque braccia. — Madonna — rispose lo spoletino, — se i veli vi piacenò, pigliateli e non ricercate ciò che si vendano, perché il pagamento è fatto. E non solo i veli ma tutto ciò che ho qui è vostro senz’altro pagamento, pur che degnate pigliarlo. — Oh, io non vo’ questo — disse la donna, — ché non è onesto. Io vi ringrazio de le vostre offerte. Ditemi pur ciò che volete dei veli e io vi sodisfarò, ché non istà bene che voi, che guadagnate in queste fatiche il viver vostro, ci perdiate cosi grossamente. Fatemi onesto mercato e vi darò i vostri danari. — lo non perdo, anzi acquisto assai quando qui ci sia cosa che vi aggradi — rispose lo spoletino; — e se voi avete l'animo cosi gentile come l’aspetto vostro ci dimostra, voi accettarete in dono questi veli e anco de l'altre cose, quando vi piacciano, con ciò sia cosa che uno ve gli dona che per voi non solo la roba ma la vita per compiacervi spenderebbe. — La donna, udendo questo, divenne colorita come una vermiglia rosa quando di maggio ne l'apparir del sole comincia a spiegar le sue novelle foglie; e guardato fisamente nel viso a lo spoletino, gli disse: — Voi mi fate molto meravigliare di tal vostro ragionamento, onde saperei volentieri chi voi séte e a che fine m'avete detto queste parole, perciò che penso che m’abbiate presa in fallo, non essendo io tale quale voi forse v’imaginate. — Egli alora, punto non si sgómentando, con accomodate parole, ché era, come ho detto, da Spoleto, le narrò e in quanta pena per amor di lei messer Filiberto vivesse e quanto l'era fedel servidore, e che non aveva persona al mondo de la quale più potesse disporre che di lui e di quanto al mondo possedeva; che era pur ricco e dei signori di Virle, e galantissimo compagno. Ed insomma egli seppe si ben dire e tanto persuaderla, NOVELLA XVII 229 che ella fu contenta che il suo amante segretamente le venisse a parlare, e gli assegnò il tempo e il luogo. Messer Filiberto, avuta questa buona nuova, si tenne ottimamente sodisfatto da lo spoletino. E secondo l’ordine posto, §i condusse a parlare con madonna Zilia in una camera terrena de la casa di lei. Quivi giunto, ritrovò la donna che l’attendeva e aveva seco una sua fantesca. La camera era assai grande e potevano agiatamente tutti dui ragionare, che la fante niente averebbe sentito. Onde messer Filiberto cominciò con più accomodate parole che seppe a narrar a la donna le sue amorose passioni e quanto per amor di lei aveva sofferto, pregandola affezionatissimamente che di lui le calesse e ne volesse aver compassione, assicurandola che in eterno le saria servidore. Ma per quanto egli mai le sapesse dire, non puoté altro cavarne se non ch’ella era vedova e che a lei non istava bene andar dietro a queste cosi fatte cose, e che voleva attender a governare suo figliuolo, e che a lui non mancherebbero de l’altre donne più belle di lei. Ora, dopo molti ragionamenti, veggendo il povero amante che s’affaticava indarno e ch'ella non era disposta in modo alcuno di contentarlo, e sentendosi di gran doglia morire, con le lagrime sugli occhi pietosamente le disse: — Poi che, signora mia, in tutto mi levate la speranza di volermi per servidore e da voi mi convien partire con tanto mio dispiacere, né forse avverrà più mai ch’io abbia occasione di vosco ragionare, almeno in questa ultima mia partenza datemi in guiderdone di quanto amore v’ho portato, porto e porterò tanto ch'io viva, un solo bacio, che quando venni qui volli da voi secondo la costuma de là patria prendere, e voi contra il lodevole nostro uso mi negaste. E sapete pure che basciarsi ne la via publica non è vergogna, quando gli uomini incontrano le donne. — La donna stette un pochetto sovra sé; poi rispose: — Io vo’, monsignor Filiberto, vedere se il vostro amore è cosi fervente come predicate. Voi da me al presente averete il bacio che mi richiedete, se giurate di far una cosa che vi chiederò, e servando il giuramento vostro, io potrò assicurarmi esser tanto da voi amata quanto detto m’avete. — Giurò l’incauto amante che farebbe ogni PAKTE TERZA cosa a lui possibile di fare. E dicendole che comandasse quanto voleva, stava attendendo il comandamento de la donna. Ella alora, avvinchiategli al collo le braccia, in bocca lo basciò e, basciato che l'ebbe, gli disse: — Monsignor Filiberto, io vi ho dato un bacio che chiesto m'avete, con speranza che farete quanto vi commetterò. Onde vi dico che io voglio in essecu- zione de la fede vostra che voi, da questa ora fin che siano passati tre anni intieri, non parliate mai con persona del mondo, uomo né femina, sia chi si voglia, di modo che per tre anni continovi restiate mutolo. — Stette non molto messer Filiberto tutto ammirativo, e quantunque questo comandamento gli paresse indiscreto, senza ragione e difficiliimo da esser integralmente osservato, nondimeno egli con mano le accennò che faria quanto ella gli comandava. E dinanzi a lei inchinatosi, se ne parti e al suo albergo ritornò. Quivi pensando a’ casi suoi e per la mente ravvolgendo l’aspro giuramento che fatto aveva, deliberò, se leggeramente s’era con fede di sagramento ubligato, di volerlo con saldo proponimento e intera osservanza mantenere. Fingendo dunque casualmente aver perduta la favella, partitosi da Moncalieri, andò a Virle e, vivendo da mutolo, con cenni e con iscritti si faceva intendere. La compassione che tutti gli avevano era grande, e meravigliosa cosa pareva a ciascuno che senza accidente d’infermità egli avesse la loquela perduta. Ordinò messer Filiberto tutto il governo de le cose sue, facendo suo procuratore un suo cugino germano; e postosi in assetto di buone cavalcature e dato ordine come danari a certi tempi gli fossero mandati, si parti di Piemonte e passò a Lione di Francia. Egli era bellissimo de la persona, ben membruto e gentile ne lo aspetto, di modo che ovunque andava e sapevasi la sua disaventura, aveva ciascuno di lui pietà. Aveva in quei tempi Carlo settimo re di Francia avuta crudelissima guerra con gli inglesi e tuttavia gli combatteva, ricuperando per forza d’arme quanto eglino per molti anni innanzi agli altri re di Francia avevano occupato. E cacciandogli di Guascogna e d’altre bande, attendeva a finire di levargli la Normandia. Udendo questo, messer Filiberto si deliberò andar a la corte del re Carlo, che alora NOVELLA XVII 231 era in Normandia. Arrivato che ci fu, vi ritrovò alcuni baroni suoi amici dai quali fu benignamente raccolto. Ed inteso il caso suo, che era per accidente incognito fatto mutolo, gli ebbero compassione. Egli a costoro fece cenno che là era venuto per far il mestiero de l’arme in servigio del re. Il che a loro fu molto caro, conoscendolo per innanzi uomo di grandissimo animo e molto prode de la sua persona. Onde messosi in arnese d’arme e di cavalli, avvenne che si deveva dar l’assalto a Roano, città principale di Normandia. In questo assalto messer Filiberto si diportò tanto valorosamente quanto altro che ci fosse, e fu dal re Carlo veduto più volte far opera di fortissimo e prudente soldato, di modo che fu cagione che, rinovato l’assalto, Roano si prese. Avuto che si fu Roano, il re si fece chiamar messer Filiberto e volle saper chi fosse, per darli convenevole guiderdone del suo valore. Ed inteso che era dei signori di Virle in Piemonte e che era poco tempo innanzi restato mutolo non si sapendo in che modo, lo ritenne per gentiluomo de la sua camera con la solita pensione, e gli fece pagare alora duo mila franchi, essortandolo a servire come aveva cominciato e promettendogli far ogni cosa per farlo guarire. Egli con cenni umilissimamente ringraziò del tutto il re e, alzata la mano, accennò che egli non mancheria di servire fedelmente. Occorse un di che al passare di certo ponte s’attaccò una grossa scaramuccia tra i francesi e nemici; e dandosi con le trombe — A l’arme! a l’arme! —e tuttavia il romore tra i soldati crescendo, il re per far animo ai suoi v’andò. Guidava Talabotto, capitano degli inglesi, i suoi, ed egli in persona era sovra il ponte e quasi tutto l’aveva preso. Il re animava i suoi e mandava questi e quelli in soccorso, quando ci sopravvenne il prode e valoroso messer Filiberto armato suso un bravo corsiero. Egli a prima giunta con la lancia in resta animosamente investi Talabotto e lui e il cavallo riversò per terra. Presa poi una forte e poderosa mazza in mano, si cacciò tra gli inglesi e fieramente per- cotendo questi e quelli, mai non dava colpo in fallo e ad ogni bòtta o gettava per terra od ammazzava uno inglese, di modo che i nemici furono sforzati d’abbandonar il ponte e senza ordine 232 PARTE TERZA fuggirsene. Talabotto, aitato dai suoi a montar a cavallo, ebbe carestia di terreno. Questa vittoria fu cagione che quasi tutta la Normandia venne in potere del re Carlo; onde veggendo il buon re di quanto giovamento gli era stato messer Filiberto, molto onoratamente a la presenza di tutti i baroni di corte lo lodò e gli donò alcune castella con la condutta di cento uomini d’arme, e gli accrebbe grossamente la provigione, facendogli ogni giorno maggiori carezze. Finita questa guerra, il re in Roano ordinò una solenne giostra, ove intervennero tutti i valenti e primi di Francia, de la quale messer Filiberto n’ebbe l’onore. Il re, che molto l’amava e desiderava sommamente che egli guarisse per aver a ragionar seco, fece bandire per tutte le sue provincie come egli aveva un gentiluomo che era diventato mutolo in una notte, e che se v'era nessuno che lo volesse sanare, che averebbe subito dieci mila franchi. II bando si publicò per tutta la Francia e anco pervenne in Italia. Onde molti cosi oltramontani come francesi, tratti da la cupidigia del danaio, si misero a la prova; ma effetto nessuno non riusci. E certo era la fatica dei medici gettata via, non volendo il finto mutolo favellare. Onde il re, sdegnatosi che medico non si trovasse che lo sapesse curare, e veggendo che infiniti tutto il di venivano, cosi medici solenni come altri, che con loro ¡sperimenti pensavano sanarlo, e giudicando che fossero più tosto tratti da l’ingordigia del guadagno che da sapere o speranza che avessero di poterlo guarire, fece far un bando: che chi voleva guarire messer Filiberto, pigliasse quel termine che gli pareva atto a far tal cura, e curandolo averebbe i dieci mila franchi con altri doni che a lui donerebbe, noi curando ne perdesse il capo, se modo non aveva di pagare dieci mila franchi. Divolgato questo fiero proclamo, cessò la moltitudine dei medici. E pure ci fu qualcuno che, da vana speranza sostenuto, non dubitò porsi a tanto rischio; di modo che alcuni, non lo potendo curare, erano condannati a pagar i dieci mila franchi o perder la testa, ed alcuni altri furono condannati a perpetua prigione. Era già la fama di questa cosa venuta in Moncalieri, come monsignor Fi- liberto da Virle era in grandissimo stato appo il re di Francia NOVELLA XVII 233 e n’era divenuto ricchissimo. Madonna Zilia, udendo questa cosa e sapendo molto bene la cagione perché messer Filiberto non parlava, e veggendo che già erano passati dui anni, pensò che egli non tanto per la riverenza de lo stretto giuramento che fatto aveva non parlasse, quanto per amore di lei, per non le mancar de la promessa. E giudicando che l’amor di lui fosse in quel fervore che era quando parti da Moncalieri, si deliberò andare a Parigi, ove alora era il re, e far che messer Filiberto parlasse e guadagnare i dieci mila franchi, ché non si poteva persuadere che egli, essendo ad instanzia di lei divenuto mutolo, che come la vedesse e fosse da lei pregato a parlare, che non parlasse. Messo dunque quell’ordine a le cose sue che le parve e divolgate certe favole, s’inviò in Francia e pervenne a Parigi; ove arrivata, senza dar indugio a la cosa, andò a parlar a quei commissari che la cura di monsignor Filiberto circa a farlo sanare avevano, e disse loro: — Signori, io sono venuta per curare monsignor Filiberto, avend’io alcuni segreti in questa arte eccellenti, col mezzo dei quali spero in Dio operare eh’in quindici giorni egli favellerà benissimo. E se io noi riduco nel termine preso a perfetta sanità, io ne vo’ perdere la testa. Ma io non intendo che durando la cura ch’io farò, che persona rimanga in camera con monsignor Filiberto se non io, perché non mi par convenevole che nessuno impari la medicina che io intendo adoperare in questa cura: di modo che la notte e il di io mi rimarrò seco, perciò che anco di notte a certe ore mi converrà i miei rimedi usare. — Udendo i signori commissari questa gentildonna parlare cosi animosamente in tanto periglioso caso e dove i più dotti di Francia e d’altri luoghi erano mancati, fecero intendere a monsignor Filiberto esser venuta una gentildonna del paese del Piemonte che s’offeriva curarlo. Egli se la fece a l’albergo condurre e, come la vide, subito la conobbe. Onde giudicò che ella, non per amor di lui, ma per la gola dei dieci milia franchi avesse preso la fatica di quel viaggio. E pensando a la gran durezza di lei e crudeltà che verso lui aveva ella usato e agli strazi che per lei aveva patito, senti il suo fervente amore, che già quasi era intepidito, cangiarsi in desio di giusta vendetta. Per 234 PARTI-: TERZA questo deliberò di prender di lei quel piacere che la fortuna gli metteva innanzi e de la moneta che meritava pagarla. Perciò essendo restati soli in camera e l’uscio di quella di dentro da lei fermato col chiavistello, ella gli disse: — Monsignor mio, non mi conoscete voi? non vedete che io sono la vostra cara Zilia, che già tanto dicevate amare? — Egli accennò che bene la conosceva; ma toccandosi la lingua con il dito, mostrava che non poteva parlare e si stringeva ne le spalle. E dicendoli la donna che l’assolveva dal giuramento e da la promessa fattale e che era venuta a Parigi per far tutto quello che egli le comandasse, egli altro non faceva se non stringersi ne le spalle e toccarsi la lingua col dito. Madonna Zilia, veggendo questi modi che monsignor Filiberto teneva, era in grandissimo dispiacere; e veggendo che preghiere che facesse nulla giovavano, cominciò amorosamente a basciarlo e fargli tutte le carezze che sapeva, di modo che egli, che era giovine e che pure aveva ardentemente la donna amata, che nel vero era molto bella, si senti destare il concupiscibile appetito e moversi chi forse dormiva. Il perché, cosi a la mutola, egli prese quell’amoroso piacere di lei che tanto aveva desiderato. E cosi molte fiate ne lo spazio dei quindici giorni seco si trastullò amorosamente, ove, ancor che tutte le membra si snodassero, la lingua mai snodare non volle, non gli parendo che un bacio che in Moncalieri dato gli aveva meritasse cosi lunga e grave penitenza. Onde chi volesse narrare i ragionamenti che la donna gli fece e i caldi prieghi che ella gli sporse e le lagrime che sparse per ottenere da lui che parlasse, non se ne verrebbe a capo in tutto oggi. Ora, venuto il termine da lei preso e non volendo monsignor Filiberto parlare, ella conobbe la grandissima sua sciocchezza e presunzione ed insie- memente la crudeltà che al suo amante aveva usata, e si tenne per morta; perciò che, passato il termine prefisso, le fu detto che pagasse i dieci milia franchi o che si confessasse, perché il capo il di seguente le saria tagliato. Fu dunque levata da la stanza di monsignor Filiberto e condutta a le prigioni. La sua dote non era tanta che potesse pagar la pena, onde si dispose al morire. Il che intendendo monsignor Filiberto e parendogli averla NOVELLA XVII 235 assai straziata ed essersi di lei a bastanza vendicato, andò a trovare il re; e fattagli la debita riverenza, con meravigliosa festa del re e di tutti cominciò a favellare, e a quello narrò tutta l'istoria di questo suo si lungo silenzio. Poi supplicò umilissimamente al re che a tutti quelli che erano in prigione fosse perdonato e medesimamente a la donna; il che fu dal re fatto essequire. Onde cavata la donna di prigione e a la volta di Piemonte volendo con grandissima vergogna ritornare, monsignor Filiberto volle che al suo albergo ella e la sua compagnia alloggiassero. Chiamata poi a parte, la donna, egli cosi le disse: — Madonna, voi sapete come in Moncalieri io molti mesi vi feci il servidore, ché in vero io ardentissimamente v’amava. Sapete poi che per un bacio mi comandaste che io stessi tre anni mutolo. E vi giuro, se voi alora o dapoi che andai a Virle m’aveste assolto dal giuramento, che io vi sarei restato eternamente servidore. Ma la crudeltà vostra m’ha fatto andare ramingo circa tre anni, nel qual tempo, Dio grazia e non la vostra mercé, mi è si bene avvenuto che io ci sono diventato ricco e mi trovo in buona grazia del mio re. E parendomi aver di voi giusta vendetta presa, voglio esservi di tanto cortese, che, possendovi lasciar troncare il capo, vi pagherò largamente le spese del viaggio che fatto avete ed anco per il ritorno. Imparate mò a governarvi con prudenza e non ¡straziar i gentiluomini, perciò che, come proverbialmente si dice, «gli uomini s'incontrano e non i monti ». —Fecele dunque dar danari a sufficienza e la licenziò. Volle il re che pigliasse moglie e gli diede una ricca giovane che ereditava alcune castella. Mandò poi a chiamar l’amico suo spoletino e lo ritenne seco, dandogli il modo di vivere agiatamente. E cosi con buona grazia del re sempre se ne visse, e dopo la morte del re Carlo settimo restò anco in favore appo il re Lodovico undeci

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