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IL BANDELLO
al signor
don pietro cardona
conte di Collisano
ammirante e gran contestabile del reame de la Sicilia
Se fin ora ho tardato a mandarvi la novella o vero istoria che a Milano, in casa del signor vostro cognato, il gentile signor Alfonso Vesconte, cavaliero splendidissimo, vi narrò monsignor Lodovico Landreano preposito di Vicobaldone, ¡scusimi appo voi che il giorno che tanto umanamente me la richiedeste, da’ miei superiori imposto mi fu che il di seguente mi partissi da Milano e mi trasferissi in Monferrato per alcuni affari di non picciolo momento, ove, come avete visto, m’è convenuto circa tre settimane soggiornare. Ora che, dato buon fine a quanto ho negoziato, ritornato sono e che tuttavia mi sovviene del vostro comandamento, perciò che le preghiere vostre e cenni voglio io che sempre a me siano in luogo di precetti, messo da banda ogn’altra cosa, presa ho la penna in mano e la raccontata novella ho, a la meglio che m’è stato possibile, scritta. La quale a questa mia allegata vi mando e voglio che al nome vostro resti scritta, a ciò che appo quelli che dopo noi verranno, se tanto gli scritti miei si terran vivi, sia testimonio de la cortese vostra benevoglienza verso di me e de la osservanza mia verso voi. State sano. 238 PARTE TERZA NOVELLA XVIII Rositnonda fa ammazzare il marito e poi se stessa c il secondo marito avvelena, accecala da disordinato appetito. I.a bellissima e veneranda antica scrittura in autentica forma compilata che qui ha il signor Gian Lodovico di Cortemaggiore marchese Pallavicino fatta leggere, ove chiaramente si comprende la sua nobilissima schiatta dei marchesi Pallavicini esser dai longobardi discesa — che non solamente in Lombardia le più onorate famiglie hanno generate, come sono i nostri Vesconti, noi Landriani, Vicedomini, Valvassori, Cattani e altre assai, e in Toscana i marchesi Malaspini e in Friuli i Savorgnani e medesimamente i conti da Canossa, dei quali fu la gloriosa contessa Matelda, in Toscana e in Lombardia e nel Patrimonio potentissima, ed altresi la casa da Este; ma per tutta Italia sparsero in molte schiatte i semi de la loro nobiltà, — e Tessersi parlato d'Alboino loro re, m’invita a narrarvi l’immatura sua morte e la vendetta che in breve tempo ne seguitò. • Devete adunque sapere che dopo cacciati i goti de la possessione de l’Italia, Nar- sete, patrizio ed uomo di grandissima stima, che molto vi s'era con mano e col conseglio affaticato, reggeva con prudenza e gran sodisfazione dei popoli essa Italia. Ma da Sofia moglie di Giustino imperadore con vituperose minacce sdegnato, scrisse al re dei longobardi Alboino, col quale ne la guerra dei goti aveva contratta domestichezza grandissima — e alora esso Alboino regnava in Pannonia, — che venisse ad insignorirsi de l’Italia. Avevano prima i longobardi, venuti da Scandinavia, isola de l’Oceano, occupato il paese vicino al Danubio, che era dagli eruli e dai turingi abbandonato, quando Odoacre loro re gli condusse in Italia ed occupò Roma. Quivi regnarono i longobardi fin che il regno loro pervenne a le mani del detto Alboino, uomo crudele, audace, di costumi efferati e barbari pieno, e ne le cose de la guerra molto ¡sperimentato. Egli, passato il Danubio perché Comondo re dei gepidi aveva rotte le convenzioni che erano tra Turisindo suo padre e i longobardi, fece con loro fatto d’arme NOVELLA XVIII 239 e gli vinse, di modo che pochissimi de' gepidi restarono vivi e Comondo anco, loro re, fu morto. Alboino, fatto pigliare l’or- ribil teschio di Comondo, del cranio di quello ne fece far una coppa, ne la quale, essendo d'oro guarnita, beveva ai conviti solenni. Si trovò ne la preda ostile, 'tra le donne, Rosimonda figliuola di Comondo, fanciulla oltra ogni credenza bellissima, la quale, veduta da Alboino, fu da lui per moglie sposata, essendogli poco avanti morta Clodsuinda, sua prima consorte e figliuola di Clotario re di Francia. Essendo adunque chiamato Alboino in Italia, come s’è detto, da Narsete, deliberò di venirvi; e chiamati in sua aita i sassoni, negli anni di nostra salute cinquecento sessanta otto, ai dui d’aprile, parti di Pannonia, che quarantadui anni avevano i longobardi posseduta, e quella agli unni Alboino concesse, con patto che se i longobardi tornavano indietro, riavessero i loro campi. Onde la Pannonia fu chiamata poi Ungaria. Passò Alboino l’Alpi ed entrò in Italia per il paese del Friuli, avendo seco i longobardi le mogli e figliuoli. In quei tempi era la misera Italia disprovista d’arme e di capitani, perché Narsete s’era ritirato a Napoli, privato de l’amministrazione, e in suo luogo era successo Longino, molto a quello ne l’arte militare e nel governo dei popoli inferiore. Il perché Alboino in un tratto s’impadroni del Friuli e di quello fece duca Gisulfo suo nipote, al quale diede molte nobili famiglie longobarde per abitare quei luoghi. Dopoi soggiogò tutto il paese che ora si dice la Marca Trivigiana, eccetto Padova e Monselice; Mantova non puoté prendere. Prese lo stato di Milano e tutta la Liguria, e da Roma e Ravenna in fuori, ove dimorava Longino, e alcune castella nel lito del mare edificate, quasi di tutto il resto si fece signore; di modo che a l’imperadore greco restò solamente una parte del reame di Napoli e alcuni altri pochi luoghi. Era il barbaro re, come s’è detto, crudelissimo e fuor di misura superbo, presumendo tanto di se stesso che gli pareva, per l’acquisto si subito di tanto paese fatto, che il dominio non che de l’Italia, ma di tutta Europa non gli devesse poter mancare; onde lasciata la cura de la guerra, si diede a l’ozio e a celebrar conviti. Ritrovandosi adunque tra l’altre volte un giorno in 240 PARTE TERZA Verona, che per lo sito suo molto gli piaceva, ordinò un grandissimo convito, al quale per sua commessione furono invitati i primi uomini e donne dei longobardi. Attendeva il re Alboino a mangiar bene e ber meglio, invitando questo e quello a far il medesimo, di maniera che per lo superfluo vino divenuto più del solito allegro, per non dire ebro, si fece recare la tazza fatta del capo di Comondo suo suocero; il che subito fu fatto. La fece il barbaro re empire di buon vino, e poi che in mano l’ebbe, comandò ad uno suo scudiero, che di coppa lo serviva, che a la reina la portasse, dicendo: — To'qui: prendi questa coppa e dàlia a Rosimonda mia moglie e dille che allegramente beva con suo padre. — Sedeva Rosimonda ad un'altra tavola con le donne per ¡scontro al marito, e senti la voce di quello, perciò che assai forte aveva gridato, e d¡ dentro grandemente si conturbò. 11 perché piena d'ira e di mal animo contra il re, ascoltò di quello l'ambasciata. Prese nondimeno la coppa in mano e con nausea e sdegno a la bocca se la pose mostrando di bere, e a lo scudiero, celando quanto più le era possibile la sua mala contentezza, poi la restituì. Non poteva la reina sofferire che il re a la presenza di tutta la nobiltà longobarda le avesse non solamente ricordata la morte del padre, ma per più disprezzarla avesse voluto che bevesse ne la tazza fatta de la testa di quello; onde restò dopo questo, non potendo vincere l'ira, piena cosi di mal animo contra Alboino, che a lei non pareva di poter vivere né mai aver contentezza in questo mondo se di si grande ingiuria altamente non si vendicava, sensibilmente ognora sentendo che le parole del re di continovo dolore la trafiggevano e come un mordace e rodente verme le radici del core miseramente le rodevano. Ma che! ella, vinta da l'acerbità de la penace e assidua passione che requie alcuna non le concedeva già mai, deliberò tra sé, se bene fosse stata sicura di morire, di far per ogni modo che il marito morisse. Così fermatasi in questo proponimento ed altro tutto il di non facendo che farneticare e chimerizzare come si potesse contra il re vendicare, non sapeva imaginarsi modo che le sodisfacesse. E mentre che d’uno in altro pensiero tutto '1 dì con mille ghiribizzi e castella ne l'aria NOVELLA XVIII 241 si raggirava, non si smovendo mai dal suo fiero proposito, avvenne che la fortuna le mise innanzi agli occhi il modo che molto a proposito le parve e sicuro per essequire l’intento suo e far al re ciò che egli a Comondo fatto, aveva. Era tra i cortegiani d’Alboino un giovine longobardo, figliuolo de la donna che lattato esso re aveva e nodrito, e ne le battaglie dava l’elmo al re, il quale Elmige da alcuni si chiama ed altri Almachilde lo dicono. Ed ancora che fosse giovine, era nondimeno molto stimato, avendo sempre dimostro ingegno e valore. Con questo tanto seppe la reina operare e si lo persuase, che egli consenti ne la morte d’Alboino suo re. Ma perché dubitava che solo non potrebbe a tanta e si perigliosa impresa dar fine, essortò la reina che inducesse Perideo, uomo di tutti i longobardi fortissimo, che a cotal effetto volesse per compagno ritrovarsi. Ma non volendo Perideo a tanta sceleraggine acconsentire e dubitando Rosimonda che egli il tradimento non discoprisse, sapendo che con la donna che le vestimenta sue governava spesso si giaceva, la indusse che per la vegnente notte desse l’ordine a Perideo di giacersi seco. La reina in luogo de la sua donna con Perideo si giacque. Dopo il commesso adulterio Rosimonda a l'adultero si diede a conoscere, e a lui, che spaventato era, rivolta disse: — Tu vedi, Perideo, ciò che contra l'onore d’Alboino hai commesso, e che pena ti si deve. Perciò disponti o d'ammazzar lui o vero esser da lui crudelmente anciso. — Perideo, conosciuto l'inganno, ciò che volontariamente non aveva voluto promettere, sforzato da la paura promise. Non contenta adunque la reina d'ammazzar il marito, prima che morir lo facesse, volle mandarlo in Cornovaglia. Soleva Alboino da merigge corcarsi in letto e dormire. 11 che un giorno facendo, comandò Rosimonda che ciascuno si ritirasse e non si facesse in palagio strepito, perché il re si sentiva indisposto e voleva riposare. Levò destramente fuor de la camera tutte Tarmi del re, eccetto la spada, la quale, a ciò che il marito non se ne potesse prevalere, stretta- mente con il fodro collegò e al capo del letto lasciò. Poi intromise la scelerata donna dentro la camera Elmige e Perideo armati. Destatosi Alboino e conosciuto il manifestissimo periglio, diede M. Bandkllo, Novelle. 16 242 PARTE TERZA di mano a la spada, ma trovandola in guisa legata che sfoderare non la poteva, prese uno scanno e per un pezzo si diffese. Ma che poteva egli disarmato contra dui armati e gagliardi, dei quali uno non aveva pari di fortezza? Cosi Alboino, uomo bellicosissimo e di somma audacia, fu morto, e per trama d’una donna mori colui che ne le battaglie contra i nemici sempre era stato fortunatissimo. Il suo corpo in Verona con pianto grandissimo dei longobardi fu sotto una scala del palagio sepolto. Elmige, a cui Rosimonda aveva promesso farlo re e pigliarlo per marito, veggendo che occupare il reame non poteva per la resistenza dei baroni che alora erano in Verona, e dubitando non esser morto come gli altri prencipi fossero venuti per eleggere il re, si trovò mollo di mala voglia. E non s'essendo ancora potuto saper chi fossero stati gli omicidi del re, Rosimonda, Elmige e Perideo, con Albisinda figliuola d’Alboino e de la prima sua moglie Clodsuinda, montati in nave, avendo tutti i tesori longobardi presi, a Ravenna navigarono. Quivi molto onoratamente Elmige, che già sposata aveva Rosimonda per moglie, con lei e tutta la compagnia fu da Longino ricevuto e dentro la città in buono albergo alloggiato. Mentre che in Italia queste cose avvennero, Giustino imperadore in Costantinopoli se ne mori, a cui successe ne l’imperio, da lui adottato, Tiberio, il quale guerreggiava contra persiani — e se la fortuna prospera che ebbe ne le parti orientali avesse avuta in Italia, sarebbe stato imperadore felicissimo; — onde non puoté attendere a la liberazione de l’Italia, che quasi tutta era dai longobardi occupata. Longino, conoscendo che Tiberio non era per curare le cose de l’Italia, cominciò a sperare di potersi impadronire di quella e col mezzo di Rosimonda acquistar la più parte dei longobardi, essendo ella da molti di loro amata e tenuta in estimazione, e tanto più sapendo quella seco tesori infiniti aver portati. Conferì adunque con molte parole l'intento suo con Rosimonda, e si bene la persuase che ella promise d’avvelenare Elmige e prender lui per marito. Eccovi che cervello di donna! Non le era paruto far assai a romper il nodo matrimoniale e sottomettersi in adulterio ad un semplice privato armigero; non le bastava d'avere con NOVELLA XVIII 243 inganno fatto ammazzare Alboino suo marito, rubati tutti i tesori regi e menata via la figliuola del re; se anco il secondo marito, benemerito di lei e che a tanto rischio s’era per quella posto, senza alcuna colpa di lui non avvelenava. Ma io non voglio ora fare l'ufficio del satirico, e tanto meno che io veggio la signora Antonia Gonzaga, moglie del signore cavaliero, e l'altre signore che qui sono guardarmi con mal occhio; ed io non debbo a modo alcuno dispiacerle, essendo sempre stato mio costume d'onorar le donne e far loro ogni piacere. Preparata adunque Rosimonda una coppa di vino avvelenato, aspettò che Elmige un giorno fuor del bagno se n'usci, ed essendo entrato in camera, ella con la coppa in mano quella gli porse e disse: — Rifrancate, marito mio caro, il languido corpo, ché io v’ho preparato questo salubre beveraggio. — Egli, che sete aveva, presa la tazza, gran parte del vino tracannò; ma sentendosi andar sossopra lo stomaco e tutte l’interiore conturbarsi con fierissimi dolori, già presago del tradimento, con turbato viso, presa la spada in mano, a Rosimonda disse: — Rea e malvagia femina, che venga dal cielo fuoco che t’arda! O tu bevi il rimanente di questo vino col quale avvelenato m'hai, od io con questo coltello come meriti t'ancido. — Ella, conoscendo l'inganno suo essere scoperto e non essendo in camera chi aita le porgesse e convenendole ad una via o ad un'altra morire, presa la coppa, il restante del vino inghiotti, ed in breve spazio di tempo amendui se ne morirono. Longino, perduta la speranza di farsi re, presi i tesori, quelli con Albisinda figliuola d’Alboino a Tiberio in Costantinopoli mandò. Affermano gli istorici che anco vi fu portato Perideo, il quale un giorno in presenza de l’imperadore e di tutto il popolo ammazzò un feroce e grandissimo lione. E temendo Tiberio de la fortezza di quello, gli fece cavar gli occhi. E cosi dei tre omicidiari d'Alboino nessuno rimase impunito. I longobardi, per non istare senza re, congregati in Pavia, che poi fecero seggio del regno loro, elessero in re Clefi, uomo nobilissimo tra loro, il quale era ne la milizia di grandissima riputazione; ed anco egli, dopo un anno e sei mesi che regnato ebbe, fu da un suo servidore miseramente scanna