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POVERA MENICA!
Io la vidi quella vergine |
La via che da Lecco mette a Bergamo, da una città nascente ad un’antichissima, dalla creatura del nuovo commercio a quella dell’antica potenza, costeggia dapprima la sinistra dell’Adda, che stagna nei laghi di Pescarenico, d’Olginate, di Brivio; e quando è giunta quasi rimpetto a quest’ultima borgata, s’interna nella valle di San Martino, donde per Pontida, resa celebre dalla Lega Lombarda ivi giurata, e pel ponte sul Brembo, mette capo all’orobia città. Chi dalla strada postale si diparta poco dopo che s’è scostata dall’Adda, e appunto là dove accavalcia il torrente Sonna, può a mancina ascendere a Caprino, terra viva d’industria e di buone case; poi seguitando al disopra di esso e del collegio di Celana, per lungo ed erto sentiero si poggia ad un monte, dal quale estesissima spazia la vista, da una banda sovra greppi e lande, sterili e ingrate come la vecchiaja di chi passò nell’ozio e nel vizio la gioventù, dall’altra fra il limpido aere che s’innazzurra sulle ubertose colline della Brianza, poi lungo la ridente pianura bergamasca, popolosa di ricchi villaggi, indi nella Geradadda, e tra i pioppi e i gelsi delle campagne del basso milanese e del lodigiano fin dove si confondono coll’orizzonte.
Vago sempre di godere lo spettacolo delle naturali bellezze, in un lieto giorno del passato autunno io m’arrampicava su per quell’erta, fermandomi tratta tratto a riguardare una scena che, ad ogni svoltare di angolo, mi si mutava dinanzi, tanto bella quanto variata. Il sole chinava, e gli obliqui suoi raggi dardeggiavano intorno a me qualche rovere, qualche macchione di castani, e l’erbe che vestivano i dossi, e le vallette pascolate da branchi di pecore e di giovenche; poi, dove la montagna muore ondeggiando nel piano, illuminavano le vigne, festanti della matura vendemmia; più in là il fiume che, lento come i giorni del prigioniero, svolgeva le onde argentine fra poggi dirotti e clivi erbosi; poi di balza in balza, di campo in campo, sulla bassa pianura lombarda gli faceano velo le nebbie, a prezzo delle quali il cittadino si compra lautezza di cibi e di cocchi.
Non ero gran che lontano dal sommo, ove io divisava trovare qualche abituro da passare la notte, quando scôrsi un camposanto, recinto cui niun altro segno distingueva fuorchè una croce e un teschio, rozzamente effigiati colla cerussa su’ muro, ed un’altra crocetta di due regoli appena digrossati, eretta nel mezzo. Ma dinanzi a quest’ultima stava una donna ginocchione; e pregava con atto così pio, che riempì me pure di devota compunzione.
Ho visto i pomposi cimiteri che le città preparano per fare men luttuoso il luogo dove gli stancati mortali depongono finalmente la grave catena delle speranze, trascinatasi dietro dalla culla alla bara. Quivi colonne, archi, cippi, sonore iscrizioni, ambiziosi stemmi e pitture, simmetria d’alberi funerei, vago disordine di cespi fioriti, e lumicini alimentati dalla quotidiana premura di chi viene a dar un sospiro, un suffragio al caro defunto, sinchè il volgere degli anni e il succedersi de’ casi indebolisce, poi spegne o volge altrove quella pietà; e il lumicino s’ammorza, e i fiori, appassiti coll’ottobre, più non rinverdiscono coll’aprile, ed alla fine il nome dipinto o scolpito è cancellato da quell’ala del tempo, il cui lento ma costante battere distruggerà i mausolei di Santa Croce, e le piramidi dell’Egitto. Queste cose ho io vedute, e mi toccarono sempre l’anima; non però mai quanto un cimitero campestre nella sua semplicità. Quivi l’uomo riposa in mezzo a gente che tutta conosce: chi lo visita, sa dirvi, quand’anche una croce od un sasso non lo ricordi, — Qui dorme il tale; e chi gli è a fianco è il tale; e il tal altro è al capo loro».
Qualvolta poi, dopo i vespri festivi, m’incontra di vedere pie schiere di rustici e di villane, ripetendo una preghiera che non capiscono ma sentono, trarre a visitar i poveri morti, e quivi inginocchiate innanzi al cancello, dove una volta devono tutti entrare per non uscire più, pregare da Dio requie eterna e luce perpetua a quelli che la fede congiunge con noi anche al di là dalla tomba, rimango compreso nel più vivo del cuore da una religione, fondata sopra una carità così salda, che nè tampoco colla morte s’infrange; da una pietà così pura, così superiore ad ogni interesse umano, che non aspetta un ricambio — o almeno non lo aspetta in terra.
Superba sapienza! tu sogghigni dispettosa, e col compasso alla mano, e coi calcoli gelati, alzi il capo, e m’intuoni — Illusione!
E foss’anche; perchè rapirmela se essa consola?
Comunque volgano i casi che la fortuna e gli uomini mi apprestano nella tempestosa mia carriera, deh possa io gli ultimi giorni trarre, pacifico e senza rimorsi, in grembo ai campi, e riposare il capo mio sotto l’umile gleba, ove dormono gli umili miei avi. Colà, compianto dai pii, dimenticato dai tristi almeno allora, perisca pure il nome mio colla croce su cui verrà scritto; possa però, chi mi conobbe, qualche volta nominarmi, e dire, — Egli era buono».
Quando adunque vidi l’atto pietoso della pregante, trassi anch’io il berretto, e postomelo a lato, la richiesi che alternasse con me la preghiera. Dopo la quale alzatasi, ella prese la via del villaggio, ed io con essa.
— Buona donna, m’indichereste ove trovare alloggio per questa notte colassù?
— Oh, se ella cerca dove alloggiar bene, nol troverà certo fra queste povere casipole: ma se s’accontenta di stare come si può, ognuno si farà premura di darle posto.
— Voi stessa forse avreste ove collocarmi? oltre il pagamento, ve ne avrei molta obbligazione.
— Se ella se ne soddisfa, io posso darle un letto, che qui forse non troverà altrove, e una scodella di latte.
— È fin troppo, buona amica; e già ve ne ringrazio.
Giunti lassù, poichè m’ebbe insegnata la casa sua, casetta a uscio e tetto, io temporeggiai quel po’ che il giorno aveva ancora di vivo spasseggiando così alquanto fra gli sparsi casolari; visitando, sul declive orientale, la Madonna della Corna Bugia, santuario posto entro una grotta naturale; guardando gli armenti che riducevansi al pecorile, ed ascoltando quella buona gente, che faceva sera intenta a mungere, a sfiorar il latte, a rappigliarlo nella zangola.
I fanciulli mi si facevano intorno, come a cosa rara che quivi è un viandante; i loro parenti, colla sommessa e non vile umiltà del montanaro, m’offrivano se volessi restar servito della polenta, de’ giunchi di latte e di un saccone ove dormire sul fieno.
A bujo, tornai dalla ospite mia. Non poteva ella passare i quarant’anni, o doveva essere stata bella; ma sul volto avea diffusa una benigna melanconia che attraeva. Cortesissima la mi accolse al ritorno, e poichè, in quell’altezza, la sera aveva non poco raffreddato l’aria, m’accostò un trespolo al fuoco, sul quale scaldava il ramajuolo. Io sedetti, e ponevo mente alle masseriziuole, poche ma ben ravviate; quanto a cristiani però, non vidi altro per casa che uno zitello di dodici anni, se pur v’arrivava, ma non dubitai che capiterebbe quando che fosse il marito; che la cosa di restar celibi, nè per vizio nè per calcolo, non è conosciuta sulle montagne. Voglioso però di metterla sul discorso, essendomi corso alla vista un fucile, posato attraverso ai regoletti della rastrelliera sopra il camino, — Dov’è (chies’io), colui che adopera quell’arma?»
— Oh!» fece ella con un sospiro. «È là, donde non si torna più. Oh s’egli fosse vivo! Ma che serve? lasciamo le disgrazie da banda. Già a lor signori non può rincrescere dei casi di noi povera gente. E poi, le sono cose vecchie, vecchie».
E si voltava di là, quasi per celarmi che gli occhi le si gonfiavano di pianto, Ond’io: — Deh buona donna, se sapeste! ben altro son io, quantunque mi scambiate da un signore a questo poco di vestire civile. Ma se l’esser ricco importasse esser duro di cuore, ringrazierei le mille volte Iddio d’avermi fatto nascere o conservato in laboriosa povertà. Quanto a disgrazie, buona Menica, a quest’ora (e lo vedete, son giovane) già n’ebbi la parte mia e un buon dato; ho avuto amici e gli ho perduti; ho invocato giustizia e ho trovato scherni; ho capito come la compassione de’ buoni compensi delle torture de’ ribaldi. Non vi rincresca, dunque rivelarmi i vostri affanni, se credete possa venirvi alcun sollievo dal palesarli a chi, se non potrà altro, vi compassionerà.»
Con queste ed altre parole la indussi, dopo alquanto armeggiato, ad espormi i suoi dolori; racconto interrotto, non senza lacrime, di casi semplici, quali sogliono nella semplice vita d’una montanara, ma dove ella mise tanto di pietà, che l’ho pure voluto scrivere così alla buona, e solo per quelli che abbiano dalla sventura appreso a compatire gli sventurati.
— Ella ha dunque a sapere (cominciò la Menica) che, quando c’era ancora Napoleone, qui per queste valli si erano attruppati molti giovinotti che non volevano andar soldato, e preferivano di stare su per su e stentare la vita, piuttosto che marciare in paesi lontani a morire certamente, per ammazzare povera gente che non conoscevamo nemmanco. Li chiamavamo i Briganti; li chiamavano così noi, ma guai chi l’avesse detto loro in faccia! Erano chi sa quanti, e del male non si può dire ne facessero; ma, si sa, dovevano vivere: onde andavano qua e là da chi n’aveva, a buscare o cibi o denari; alloggio ne trovavano sempre, che tutti, o compassione o timore, si facevano premura di tenerseli buoni».
Non m’erano cose nuove quelle che la Menica mi raccontava, avendo ben io presente, quasi fosse jeri, come questi giovinotti contumaci, sottrattisi alla dura legge della coscrizione, si fossero congregati nella valle San Martino e nelle vicine, a vita di insidie e di pericolo, protetti dalla posizione e dalla debolezza d’un Governo, il cui gigantesco potere, artifiziale tutto perchè non fondato sull’amore, andava sfasciandosi di fronte ai sagrifizj del patriotismo spagnuolo e del despotismo russo. Mi ricordava assai d’aver veduto quelle bande venire sulle sponde del patrio mio lago, e rispondere da scherno alle fucilate che, da senno, alcuni de’ miei terrieri, credendo farsi buon merito e nome di coraggio, sparavano lor contro, di stando nelle case rimpiattati e col lago di mezzo.
— Timore però (continuava la Menica) noi non n’avevamo quassù: chè, se vi capitarono qualche volta, non fecero prepotenze, spartirono con noi il poco mangiare e le stanze, e se ne tornarono tranquilli, non disturbando le opere e la pace nostra, e solo intimandoci di non dar ricetto a soldati, o sarebbero guaj. Onde io, giovinetta allora sui sedici anni, uscivo sicura ogni giorno a pascolar le mie vaccherelle, senza un pensiero del mondo.
Un giorno, mentre le ravviavo dal prato, allo svolto del sentiero mi corre alla vista un giovinotto, riposato a gomitello sull’erba... Che bel giovinotto, s’ell’avesse visto! grande, complesso, ben formato: due occhi che parlavano; certi ricciolini, che, scappandogli fuori di una berretta colorata e infiocchettata, gli contornavano il viso rubicondo: una fusciaca rossa a cintola; in quella un paja di pistole, e lì a fianco un fucile. — Buona! diss’io tra me. Son capitata in un Brigante»; ma che monta? non mi sgomentii. Tanto più ch’egli, levatosi a sedere, mi salutò, ed io lui. Dopo alcune parole tutte grazia, mi chiese a bere, ed io subito, munta una capra, lo contentai; del che mi ringraziò tanto cortesemente che mai: e di picchio tirai innanzi, intonando la mia canzone. Vero è che, come fui al piegare della via, mi guardai indietro, e lo vidi che s’era ritto in piedi, mi stava fissando, mi salutò colla mano, ed io colla mano gli risposi.
Il domani, all’ora stessa, egli è allo stesso posto: ed ancora saluti, e ancora gli do a bere, e le parole sono un poco più, e un po’ più il terzo giorno. Che serve? torna oggi, torna domani, presi a lui un bene che passava il segno, ed egli a me. Era così bello, ed io così giovane, e non avevo mai saputo che fosse amore! D’altra parte, povero Mommolo, era tanto buono; tanto più buono quanto che, chi lo vedesse in quella compagnia ed armato come un san Giorgio, era d’avviso di trovare in lui il più bizzarro bravaccio.
Secondo quel che mi contò, venuto in età di soldato, aveva egli sortito un punto così alto, che se ne teneva sicuro. Ma un signore del suo paese, uno di quelli che, fin dal tempo della Serenissima, eransi avezzi a fare alto e basso nel contorno, e dare il malanno a chi fiatasse, aveva da molto tempo tolto a urto la famiglia di Mommolo. Pezzo grosso e grand’amico del prefetto, colui raggirò la cosa in modo che, scartandosi gli altri, era stato chiamato Mommolo al servizio. — Io come io, (diceva Mommolo) se mi fosse toccato in buona giustizia di fare il soldato, andavano tanti altri, sarei andato anch’io. Alle fatiche ho fatto l’osso; la paura non so dove stia di casa; chi sa che non potessi farmi onore, e tornar in patria, come n’ho veduti tanti, con un bel grado e la decorazione? Ma dare il gusto a colui d’averla spuntata, non ho proprio voluto; e preferii di farmi uomo di macchia con costoro. Ma del male non ne fo, sapete, Menica. Procuro anche tenermi lontano dagli altri il più che posso, perchè alla fine c’è dentro d’ogni razza paglia. Quando il nostro capitano mi comanda, non me lo lascio dire due volte, e se verrà il caso di menar le mani davvero, mi troveranno nella prima fila ma sin tanto che non c’è se non da appostare i viandanti e cercar la carità cogli schioppi sul braccio, per poi sciuparla giocacchiando, io amo meglio ripararmi su pei monti. E qui principalmente io salgo volentieri, perchè di qua scorgo i dintorni del mio paese.
E me gli insegnava col dito, lungo quella collina che si alza poco oltre Bergamo fra la pianura ed il lago d’Iseo; e quando li fissava, gli si gonfiavano gli occhi e piangeva. Potevo io non volergli bene?
Non vorrei però ch’ella sospetasse in male. Lo amavo siccome un fratello; gli prometteva d’amarlo sempre; io gli contava i miei dispiaceri, egli a me i suoi, e ci consolavamo a vicenda. Esso aveva padre e madre colà lontano, inquieti di sua sorte, senza poterne aver notizie, nè mandare le sue. Io aveva perduta la madre sin da ragazzina; e mio padre, sebbene non vecchio, era malaticcio, sicchè stentavamo la vita. Mommolo mi compativa, ed avrebbe voluto ajutarmi. Anzi un giorno mi si fece incontro con quattro monete d’oro, e disse: — Te, Menica: con queste campa tuo padre.
— Dove le avete tolte?» gli chiesi io.
A tale domanda rimase mortificato, parve entrare in sè, e — Le ho tolte dalla nostra cassa, con buona licenza de’ miei camerata. Potevo spenderli all’osteria, e invece eccoli per te.
— Ma i vostri comerata (soggiunsi io) le hanno di buon acquisto.
— Menica», rispose egli esitando; «ben sai....
— Dunque (replicai io) Dio mi guardi dall’accettarle. Togliete; e riportatele dove le avete prese. Che abbiate da viver voi, pazienza; ma mio padre si caverà di pan duro in qualche modo, non in codesto».
Era il mio parlar chiaro? Ma crederebb’ella che Mommolo ne sia montato in collera? Signor no: veda se era buono! capì che avevo ragione; e il giorno di poi tornò al consueto.
L’unico rimorso che mi resta è di non aver mai detto nulla di tutto ciò a mio padre. Tante volte fui lì lì per confessargli ogni cosa, e moriva la parola sulle labbra; io temeva mi rabbuffasse: capivo che avrebbe disapprovato questa corrispondenza con uno sconosciuto, con un fuoruscito; se non glielo dissi a principio, e peggio di poi: quanto più tiravasi innanzi, meno mi dava il cuore di confessargli quello che per tanto tempo aveva dissimulato, e che pareva aver maggiore allettamente appunto perchè furtivo. Onde, allorchè tornavo a casa alquanto più tardo, o volevo uscire non ostante il mal tempo, io aveva sempre lesta qualche bugia, — il signore me ne castigò.
Queste cose avvenivano nella primavera. Tutt’a un tratto Mommolo mi informa che Napoleone non è più re; che i Francesi son cacciati via; e poco appresso, che fu pubblicato non doverci più essere coscrizione; non più contribuzioni; perdonato ai disertori e ai contumaci; e che i Briganti si sciolgono, e tornano col Te Deum in bocca a casa loro. Egli me lo riferiva tra allegro e melanconico; ma tutta melanconica lo ascoltava io, ben vedendo che lo perdevo, e chi sa? forse per sempre. — Ecco; voi ve ne andate, e appena siete di là della Sonna, addio Menica, addio memoria di questi luoghi, di questi tempi». E piangevo. Ma egli che non faceva, che non diceva per consolarmi? Protestava che, dato sesto a’ negozj suoi di casa, avrebbe subito narrato la cosa a suo padre, e sarebbe tornato a prendermi, menata al suo villaggio; un bel villaggio, una bella casa, e tante felicità, che a solamente udirle mi rideva tutto il cuore.
Venne pure il dì che ci dovemmo lasciare. Signor forastiere, non ha ella amato mai? non s’è mai diviso di chi gli voleva bene? Pensi il mio dolore. Mommolo mi condusse dinanzi al cimitero, là appunto ove lei mi ha incontrata oggi; e volle che quivi, davanti alla croce, giurassimo a vicenda di non isposarci mai a verun altro. Io, lo sa Dio, giurai di cuore sincero; ed egli pure, sventurato! — ma giuravamo l’amore sopra alle fosse. Che sinistri augurj!
E se n’andò. Correva allora il maggio; passa il giugno, passa il luglio e l’agosto; vien l’autunno, torna l’inverno, e Mommolo non torna. Ah come sono lunghi, eterni i giorni di chi aspetta! Quanto io stessi sconsolata, lo pensi. Averne nuove era impossibile, perchè, chi capita mai su queste cime? e fino al suo paese non c’è quattro passi. Qualche volta io m’abbandonava, e dicevo, — Egli non si ricorda nemmen più di me». Allora piangevo come disperata: poi — No (mi diceva il cuore) è troppo buono; non può averti piantata. Chi sa? qualche disgrazia gli sarà occorsa.» E qui colla fantasia andavo figurandomi tutto quel mai di peggio che possa ad alcuno arrivare. Intanto mi struggevo, sospiravo spesso; e mio padre se ne accorgeva, e mi mandava: — Menica, cos’hai? i ed io rispondeva: — Niente, oh niente: e per non farmi scorgere, mostravo allegria. Ma la mia vicina, che era delle fine, mi diceva: — Menica, voi siete innamorata». lo diventava rossa, e protestava di no: e perchè mi pareva che tutti dovessero così indovinarlo, sfuggivo la compagnia, non ero a giocar colle compagne non a veglia nella stalla.
Deh se m’è parsa eterna quell’invernata. Prima d’allora io non aveva mai osservato che l’aria fosse così trista, così squallida la campagna in inferno, così fosco il cielo, così frizzante il vento, così nebbiosi i giorni, così interminabili le notti. Quando Dio volle, arrivò il tempo nuovo; ma con quello rinaquero più vive le immagini, più calde le speranze. Tutto mi faceva ricordare come i giorni stessi erano diversamente passati l’anno precedente: ogni prato che verdeggiasse d’erbe novelle mi richiamava quello su cui avevo una volta veduto Mommolo; le primolette che trovai, non mi son curata di raccoglierle, non avendo a chi presentarle. Su quel sasso dov’egli, salendo tante volte, m’aveva additato il suo paesello, anch’io saliva, e guardava, e pensava, e piangeva. Poi facevo còmputi tra me e me: — Ecco, oggi egli parte da casa sua; domani sarà a Bergamo, doman l’altro a Caprino, e fra tre giorni qui». I tre giorni passavano, egli non veniva, ed io mi rifaceva da capo, e ancora invano. Quante volte, guardando in giù con il palpito, io credeva veder alcuno. — Erano piante: eppure era un uomo sì, ma non così grande come lui, non del suo bel portamento, non di quel passo disinvolto e risoluto: non collo schioppo alla spalla. — Sarà forse, chi lo sa? un suo messo....» mi s’accostava ed era alcuno del villaggio, che tirando via diritto, mi salutava, e dicevami: — Che state a guardare, Menica? pare che aspettiate».
Ma un dì, sulla bass’ora, qualcheduno poggia, — Chi sarà?» Il mio cuore lo conobbe mezzo miglio lontano. Era lui. Misi un grido; gli corsi incontro come fuori di me, e quando rinvenni, era fra le sue braccia, ed esso mi guardava e piangeva. Pensi! un uomo di quella fatta piangeva. Capii ben io che c’era del male andare, e non fallai. Tra il crepacuore di vedersi tolto suo figliuolo, e tra le angherie di quel prepotente nemico, suo padre, mentre Mommolo era quassù, morì. Gli destinarono un tutore il quale non aveva altra voglia che di succhiargli il sangue, e di tenerlo più che potesse in sua soggezione; onde, allorchè gli parlò di me, non n’ebbe che delle beffe. Accorato di ciò, e invelenito da tanti guai sofferti, una volta che s’abbattè in quel ricco suo persecutore, se gli fece incontro, e con brave parole gli disse che ormai era tempo di cessar la guerra alla sua famiglia; che bastava assai l’avergli fatto crepare suo padre: si ricordasse che anche lui aveva da morire.
Non l’avesse mai detto! Quel signore andò a portarne querela, come fosse insultato. I Francesi non v’erano più, ma, diceva Mommolo, chi ha ragione sono sempre i denarosi, e per noi poveretti ogni bruscolo diventa una trave. Di fatto, ecco fuori un mandato di cattura, ed ecco il povero Mommolo ancora in ballo. Scappò, ma queste parti erano troppo lontane, e più non avevano la sicurezza di prima: onde dovette star nascosto presso qualche suo conoscente, al quale dava di spalla a lavorare, perchè il lavorare non gli è mai rincresciuto. Finalmente c’entrarono per terzo di brave persone, colla cui intromessa fu parata via la cosa, talchè era potuto rientrare al suo villaggio: e di là il più presto possibile, corse a trovarmi.
Io ascoltava il suo racconto, lo compiangeva: ma poi dimenticava tutto nel pensare che era qui, che l’avevo ancora meco, che ancora mi voleva bene. — Sì (mi diceva) vi amo ancora, e torno a promettervi che v’amerò sempre, che vi sposerò. Ma chi sa quando! Due anni mi mancano ad uscir di minore, e fin a quell’ora è impossibile avere il consenso del mio tutore. Intanto egli si gode il fatto mio, e pare siasi proposto di ridurmi sul lastrico. Ma ciò poco importa, chè ho due buone braccia; ed appena fuori di tutela, vendo quel poco che mi avanza, e più non voglio stare in quel paese, perchè sino il proprio paese viene in uggia quando vi si è perseguitati: vengo qua, vi sposo, e andremo a vivere in pace e in bene».
Oh bei sogni! non doveano verificarsi.
Ronzò un par di giorni qui attorno, poi gli convenne andarsene. Tornò all’autunno, tornò all’altra primavera; ed io non n’aveva mai fatto motto a mio padre; finchè il signor curato mi pose tanti scrupoli, che indussi Mommolo a venire in casa. Mio padre, pover’uomo! non aveva che me, e non m’avrebbe mai scompiaciuta della più piccola cosa. Onde, come intese il fatto, mi rimproverò di non aver avuto in lui confidenza, scosse un tratto il capo, ma poi consentì e ci benedisse; e s’accontentò che, fin quando arrivava quel benedetto tempo, tornasse Mommolo qualche volta a trovarmi. E ci tornava due, tre volte l’anno, e il resto del tempo passava in un modo, che allora mi pareva un inferno, ma adesso, quando ci penso, vedo che era un paradiso, perchè tutto era abbellito dalla certezza di rivederlo, dalla speranza che diventerebbe mio.
Venne intanto quell’anno bieco della carestia. Cara Madonna, tenete sempre lontano questo flagello! Se ne abbiamo veduta della miseria! Non castagne quell’anno; non mangime per le bestie; un pugno di melgone valeva un occhio. Giù per li prati, su per le pendici s’andava a cercar erbe e radici, che mai nessuno aveva pensato fossero mangerecce, e così scondite si gustavano, e chi avesse una presa di sale da mettervi, era un lachezzo. Tutta questa gente si calò nelle terre piane ad accattare per Dio: alcuni morirono di pura fame, altri commisero delle cattive azioni, e fu quasi il meno male, perchè andarono in prigione, dove almeno il pane non mancava.
Nè io, nè mio padre non so come saremmo vissuti in tempo sì bisognoso, ove non fosse stato Mommolo. Veniva fin qua su, carico di farina e di patate, e ce le portava di notte, diceva esso, per non far troppa gola ai nostri affamati vicini: onde per quel suo soccorso la campammo. Finalmente la stagiono del 17 s’aprì. Ella deve ricordarsene: prometteva essere un bel ristoro di tanti patimenti, quando le brine portarono via tutto, tutto: la primavera andò umida e la fame crebbe: e sa il cielo come finiva, se Domenedio non si fosse tratto a compassione, e non avesse rinnovato la campagna e i frutti, che fu una benedizione. S’è proprio veduto il dito della Provvidenza.
Quella bellezza d’estate che seguì venne carissima a tutti, ma più a me che sapeva come, al fine di quella, Mommolo sarebbe tornato, e non più alla sfuggita come l’altre volte, ma per menar seco me e mio padre, e andare a starci insieme. Questo pensiero me la fece parere un lampo. Nelle ore che restavo in casa, dopo pascolata la mandra, io mi cuciva quelle po’ di camicie pel mio corredo, e qualcuna per lui, che sapevo quanto gli sarebbe cara, perchè la canapa l’aveva coltivata io, io macerata, io macinata, filata io, ordita io la tela, io curatala su quel pratello ch’esso conosceva.
Intanto egli, per rifarsi di quanto aveva scapitato fra i guasti del tutore e fra il mantenimento nostro, era andato a lavorare alla bassa. Come appena i travagli della campagna furono terminati, comparve. Erano i primi giorni dell’ottobre, come adesso; e come adesso, tutto era bello, tutto allegro: egli giocondo che mai non l’avevo veduto tanto: io poi.... se lo figuri. Si andò subitamente a togliere il sì dal signor curato, e che consolazione per me il sentirmi comandare come un obbligo che dovessi per tutta la vita amar il mio Mommolo, amar lui solo!
Fatto tutto quel che si doveva, spuntò finalmente il giorno tanto aspettato dello sposarci.
La sera innanzi, fummo tutt’e due a confessarci. La notte, io non chiusi occhio. Come l’avrei potuto? Quel momento, che da tanti anni avevo vagheggiato, quel che doveva rendermi sua per sempre, che aveva ad esser principio a tanta felicità, quanto me n’immaginavo, era pur venuto; stavo pure per sentirmi dire fortunata, e vedermi invidiata da tutte le compagne.
Alla mattina innanzi l’alba fui in piedi a rimpulizzire la camera; ma non andò molto che udii bussare alla porta. — Chi è?» Era Mommolo, che dormiva sul fenile d’un nostro compare, e che, ansioso anch’esso non meno di me, era venuto così di buona levata a trovarmi.
— Dov’è nostro padre?
— Dorme.
— Sapete che?» diceva egli: «venite fuori: andiamo ad asolare un poco, sinchè si faccia l’ora».
Vado. Egli s’era ribadito tutto in filo: un cappel nuovo di bottega; camicia di bucato con un fior di gala; dalla reticella del capo pendeva un fiocco a molti colori; calze fiorate; pareva un angelo bell’intero: ad armacollo aveva il suo schioppetto, senza del quale non l’ho veduto due volte. Così andammo a visitare i luoghi sacri alle nostre memorie: trovammo il cimitero del giuramento, venimmo al pratello, e da per tutto c’era a domandarci = Vi ricorda questo? — vi ricorda quello?»
A canto al prato era quel sasso, dalla cui altura si distingueva il villaggio di Mommolo. Vi salimmo; egli guardando per la foce del monte, diceva: — Ecco; l’ho abbandonato affatto quel paese: eppure sento che mi è caro. Nel dargli l’ultimo addio, mi si schiantava il cuore: e anche adesso nel mirarlo mi vien di piangere. Noi siamo proprio come uccelli, che amano tanto il proprio nido. Ma anch’essi, se si vedono tolta la covata e replicati i disturbi, s’incapricciano, e se ne divezzano».
Poi si parlava del nostro avvenire: dove s’andrebbe a piantar casa: come lavoreremmo: che bel bambino sarebbe il nostro primo, e come mettergli nome: poi di mio padre: e di quando, vecchi vecchi, anche noi vedremmo i nostri figliuoli andare sposi. Così la si discorreva, poi guardavamo l’alba che spuntava: poi ci fissavamo negli occhi un dell’altro.... Ah! come ho presente tutto — tutto fino ai pensieri di quella mattina!
Allora si ode toccar la campana della Madonna della Corna Bugia, ed era il primo richiamo della messa alla quale dovevamo dirci il sì. — Ohe! presto! (diss’egli) bisogna correre a mettersi in ordine»; mi dà la mano per discendere dal sasso, poi egli com’era solito fare, appoggia lo schioppo, e appoggiandosi su quello, spicca un salto.... Gesù Maria! in quella il fucile spara; tra i pallini, tra l’avere, cascando a capofitto, percosso il cranio, rimase lì morto, stecchito a’ miei piedi, senza potere dir altro che Menica».
....cascando a capofitto, percosso il cranio, rimase lì morto, stecchito a’ miei piedi, senza poter dir altro che Menica».
Un dirotto pianto in che scoppiò la meschina a questo punto, mi lasciò tempo di figurarmi quello che essa ha dovuto patire in un simile disastro, meglio che non avrebbero potuto le più eloquenti parole, e stetti meditando sopra un dolore così diverso da quell’ipocrito che cerca gli occhi del mondo per iscapigliarsi e singhiozzare: un dolore che non fugge le memorie, anzi le cerca con una melanconia, spaventosa soltanto per chi non sente: un dolore che non chiede consolazione se non da quel paradiso a cui la mesta alzava la pupilla, con una soave certezza di rivedere colà il suo compianto amico.
Ed io, cui un’anima benedetta e sventurata ha fatto conoscere tutta la pia dolcezza di certe lagrime, tacqui, partecipando alla sua commozione, unico conforto ne’ dolori profondamente sentiti. Per quasi mezz’ora la Menica non riebbe la voce: poi come prima potè articolare le parole, tendendo il dito sopra il camino.
— Ecco là» disse, «Quello è il fucile, innocente occasione di sua morte. Come era sempre con lui. finchè visse, così lo voglio io continuo sotto gli occhi».
E proseguì raccontandomi come anche suo padre fosse infebbrilito, poi morto poco dopo; ed ella, volendo tenere la promessa al suo Mommolo, si fosso deliberata di vivere sempre sola. — Col denaro che m’ha lasciato feci dire del bene per l’anima sua, e poi, come posso, ajuto quelli che hanno maggiori bisogni di me. Quando nacque d’una mia cugina germana questo figliuolo ch’ella vede, io lo levai al battesimo, e gli posi nome Mommolo. È la mia compagnia, la mia distrazione; e quando potrò andare in paradiso a trovar mio padre ed il mio sposo, lascerò a lui questa casuccia e la memoria mia e del mio Mommolo».
Povera Menica! io t’ho compatita di cuore, e quando, dopo la parca cena, recitando il rosario, dicesti un De profundis per quella buon’anima, una dolce tristezza mi compunse, ben altrimenti che alle lambiccate orazioni funerali.
Povera Menica! e quando coll’alba seguente mi partii da te, passando innanzi alla sepoltura del tuo amico, intrecciai una ghirlanda di margheritine, di garofanetti e di campanule silvestri, e la collocai su quella croce, ove tu certo l’avrai vista ed aggradita, come testimonio di spontanea condoglianza.
Povera Menica! e quando, impedito d’ogni azione, io non viveva che di meste memorie e di languide speranze, mi tornava a mente quel non so che di solenne, ravvisato allora nel tuo dolore. Ma lassù ne’ monti ove tu stai (è disgrazia o ventura?) non arrivano libri, nè ti sarà noto che quell’avveniticcio, che togliesti una notte a sì cortese albergo, serbò memoria di te, del tuo fedele; e che più di una cittadina, udendo per bocca di lui l’ingenuo e appassionato tuo racconto, esclamerà, — Povera Menica!»
1835 |