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XVI
L’AVARIZIA PUNITA
A istanza di Ferrante Porta Puglia
O de le umane brame
la piú cieca e piú ria, brama de l’oro,
sacra, esecrabil fame,
che un fango vile usi chiamar tesoro;
che non fai? che non puoi?
qual non cede uman petto agli urti tuoi?
La vergine Atalanta,
non men ch’agil di piè, stabil di voglia,
di libertá si vanta,
ma un pomo d’òr di libertá la spoglia;
avida d’aureo nembo,
porge la bella Danae a Giove il grembo.
Per mercé d’auree armille
Tarpeia offre a’ sabini il gran Tarpeo,
e con mill’arti e mille
scossa da Brenno invano, al fin cadeo
per la mercede istessa
da l’òr piú che da l’armi Efeso oppressa.
Né sol cura sí vile
molle femineo seno abbatte e atterra,
ma con palma virile
vince i togati in pace, i duci in guerra,
e quasi dir potrei
che sforzano anco i doni uomini e dèi.
Ove l’òr folgoreggia,
ogni altro lume, ogni fulgor s’oscura;
virtú piú non lampeggia,
non piú splendor di nobiltá si cura.
Ben l’etá d’oro è questa,
se in pregio altro che l’oro oggi non resta.
Tu, di virtute amico,
che da vizio sí reo l’anima hai sciolta,
Puglia, di ciò ch’io dico
nuovo esempio verace in prova ascolta:
vedrai ch’a l’oro cede
nobiltade ed amor, virtude e fede.
Fiamma d’amor s’apprese
nel casto sen di duo leggiadri amanti;
una bella, un cortese,
ambo di sangue, ambo d’onor prestanti;
di pregi alti e gentili,
di costumi e d’etate ambo simili.
Alme piú belle e fide
non legò, non accese Amore unquanco,
né spogliato ei si vide
per piú bella cagion di strali il fianco:
giá con eguali affetti
una sol’alma e un cor tengon due petti.
Imeneo giá s’invita,
che stringa ai degni cor nodi piú degni;
quando serpicrinita
furia flegetontea turba i disegni
e, perché l’òr prevaglia,
quei che dá legge a lei con l’oro abbaglia.
D’oro e di gemme altero,
ei destina a la bella altro consorte,
di nazïon straniero,
di nome ignoto, inferior di sorte,
tale nel cui lignaggio
di chiara nobiltá non splende un raggio.
A lo splendor vetusto
d’alta stirpe gentil l’oro prevale;
per l’oro, oh cambio ingiusto!
amor, fede, valor ponsi in non cale;
di lei, ch’invan contende,
la libertate a prezzo d’òr si vende.
Stupido e mesto insieme
restò il fedele a la ria nuova acerba;
pianse sua verde speme
da l’altrui falce d’òr troncata in erba,
e con sospiri atroci
cosí fra sdegno e duol sparse le voci:
— Dunque, o bella e crudele,
cosí in fumo svanisce il nostro foco?
Dunque, del tuo fedele
la costanza e l’amor curi sí poco,
che perfida, incostante,
lasciar puoi me per vil straniero amante?
Perché di biondo peso
ei gravi ha l'arche e via piú grave il core,
fia da te vilipeso
un tesoro di fé che t’offre Amore?
Deh, per lo spregio indegno
ver’ te lo stesso Amor s’armi di sdegno!
Che tu d’amor non goda
col nuovo amante i frutti Amor permetta;
fame eterna vi roda
fra le mense d’amor per mia vendetta,
né i maritali cibi
a me dovuti il mio rival delibi.
Presso oggetto sí bello
si strugga in van, né il suo desio s’acchete;
ei, Tantalo novello,
in mezzo a sí bell’acque arda di sete
e tu, qual Mida avara,
non men qual Mida a star digiuna impara. —
Del buon fedel deluso
l'alte querele al terzo ciel saliro,
né fu il suo voto escluso,
ma il fin bramato i prieghi suoi sortîro;
ché al talamo disdetto
fu da Ciprigna avara ogni diletto.
Di gemme alti tesori
fan de la bella ’l portamento, adorno;
di sposerecci onori
tutta risplende alteramente intorno,
ma senza cibo alcuno
disperato Imeneo langue digiuno.
Tale al fin, qual partío,
lo sposo al patrio suol si riconduce,
e col primier desio
seco la bella invïolata adduce,
a cui dal fianco avvinto
Venere ancor non ha disciolto il cinto!