Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Il giurato | Giornali e giornalisti | ► |
Gl’inconsolabili
È il giorno dei morti: giorno, come vuole il calendario romano, di pubblico lutto e di mestizia universale.
Il sole, invece, svegliatosi di buon umore, si diverte a illuminare di una luce gaia e bianchissima i comignoli dei tetti, le pergamene delle cupole e le punte dei campanili, che toccheggiano a funerale.
Ma chi bada più in oggi ai capricci del sole? Questo splendido egoista che, a dispetto di Galileo, si leva e si corica tutti i giorni con la monotona regolarità d’un impiegato in riposo, non ha mai voluto saper nulla nè dei nostri dolori, nè delle nostre allegrezze. E fa bene: lui sta lassù, noi quaggiù, e ognun per sè e Dio per tutti, come dice il proverbio, quel sapientissimo proverbio sul quale riposa la mirabile armonia di tutto il creato.
Fin dai primi albóri comincia per le vie della città un fremito di vita, un movimento insolito, un rumore confuso di finestre che si aprono e si richiudono con fracasso, di carrozze che corrono all’indiavolata, di fruste che schioccano allegramente, e un fruscìo di sottane strascicate e chiaccherine, è uno scalpiccìo di passi frettolosi, e un bisbigliare pettegolo di voci adulte e infantili, tramezzato di tanto in tanto da qualche sonoro sbadiglio, inelegante protesta di sonni non soddisfatti, o da qualche nota gutturale e inarmonica, indizio sicuro di vino mal bevuto e mal digerito.
Questo rumore cresce a poco a poco, finchè diventa un frastuono festivo. Allora la folla dimenticandosi lì per lì di essere uscita di casa vestita a lutto, s’incammina ciarlando, ridendo e masticando verso l’ultima dimora de’ suoi poveri morti. E, cosa singolare! framezzo a quella moltitudine di spensierati e di filosofi si vedono balenare qua e là dei visi consunti dal dolore, dei labbri contratti da uno spasimo senza fine, degli occhi rifiniti, che non hanno più lagrime per piangere. Ma questi originali, se Dio Vuole, si contano sulle dita, e nessuno li bada. Intanto, strada facendo, la gente si sofferma dinanzi ai banchi dei fiori, e chi compra un mazzo di viole e crisantemi, chi una ghirlanda di margherite e trofeoli, e chi una corona di zolfini, ossia una di quelle corone di fiorellini gialli, adorne d’iscrizioni in fiorellini neri, che dicono su per giù così: A mia moglie — A mio marito — A mio nipote — Al mio fidanzato — Alla mia fidanzata, e via di seguito. E lì, davanti a quelle paniere di fiori, accadono dialoghi, che parrebbero inventati, se non fossero veri e ricopiati sul posto. Ecco farsi largo una donnina ancora giovine e abbrunata con molta civetteria, la quale dice al fioraio:
— Vorrei una corona di zolfini, con l’iscrizione: A mio marito.
— Terminati i mariti! — risponde il fioraio nel suo laconismo mercantile — l’ultimo marito l’ho venduto in questo momento. Non mi restano che poche mogli e qualche fidanzato. Vuole invece una corona per mio figlio?
— Dei figli, graziaddio, non ne ho mai fatti e spero bene.
— Pazienza!... sarà per un’altra volta — replica il fioraio, continuando tutto affaccendato a servire i suoi numerosi avventori.
Eppure è così. I grandi dolori di famiglia, tolti alla discreta penombra delle pareti domestiche e portati a spasso sulla pubblica via, perdono la mesta solennità del loro carattere e diventano tante feste profane, e qualche volta, Dio ci liberi tutti, anche carnevalesche.
Il giorno dei morti è là per farne fede!
In quel giorno, per il solito, i cimiteri sono invasi e quasi presi d’assalto da un volgo anonimo, che non ha parenti.... perchè i parenti vivi forse gli son morti, e quelli morti l’ha già dimenticati da un pezzo. Questo volgo, che non soffre nè di malinconia nè di stivali stretti, corre sempre dappertutto, dove c’è folla: e si diverte a tutto. Chiamatelo a scegliere fra due spettacoli: o lo sfilare di un reggimento di corazzieri in grande uniforme di gala, o il passaggio di una dimostrazione politica in qualsivoglia senso (escluso sempre, s’intende, il senso comune) e probabilmente egli preferirà un corteo funebre, con molti torcetti, tanto per levarsi il gusto di durare un’ora a contarli.
Ah! lasciatemelo dire: dopo aver veduto nel camposanto pubblico il poco rispetto che abbiamo per la religione dei sepolcri, m’è venuto voglia qualche volta di esclamare, scrollando il capo: Poveri morti!... poveri morti!... Ma poi mi son ripreso in tempo e ho pensato fra me:
— Perchè compiangerli? La morte, a conti fatti, è una cosa molto seria per noi, che dobbiamo morire: ma per i morti, forse non è altro che un pensiero di meno. —