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HAARLEM.
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La strada ferrata da Leida ad Haarlem corre sur una lista di terra compresa fra il mare e il fondo del gran lago che copriva trent’anni fa tutta la campagna che si stende fra Haarlem, Leida ed Amsterdam. Lo straniero che percorre quella via con una vecchia carta stampata prima del 1850, guarda, cerca, confronta, e non trova più il lago d’Haarlem. Questo accadde a me; e la cosa parendomi un po’ strana, mi rivolsi a un vicino e gli domandai conto del lago sparito. Tutti i viaggiatori risero, e l’interrogato mi diede questa bizzarra risposta: — Ce lo siamo bevuto.
La storia di questo meraviglioso lavoro sarebbe un soggetto degno d’un poema.
Il grande lago d’Haarlem, formato dalla riunione di quattro piccolissimi laghi, e cresciuto per effetto delle innondazioni, aveva già sulla fine del secolo decimosettimo un circuito di quarantaquattro chilometri, e si chiamava mare, ed era infatti un mare tempestoso, sul quale avevan combattuto flotte di settanta navi, e fatto naufragio molti bastimenti. Grazie alle alte dune che si stendono sulla costa, questa grande massa d’acqua non aveva ancora potuto congiungersi al Mare del Nord, e convertir così in un’isola l’Olanda Settentrionale; ma dalla parte opposta, minacciava le campagne, le città, i villaggi, e costringeva gli abitanti a una continua difesa. Già nel 1640 un ingegnere Olandese di nome Leeghwater aveva pubblicato un libro diretto a dimostrare la possibilità e l’utilità di prosciugare questo lago pericoloso; ma in parte per le difficoltà che presentava il metodo di prosciugamento da lui proposto, e più perchè il paese era allora occupato nella guerra contro la Spagna, l’impresa non aveva trovato promotori. Gli avvenimenti politici che seguirono la pace del 1648, e le guerre disastrose colla Francia e coll’Inghilterra, fecero dimenticare ancora il progetto del Leeghwater sino al principio del presente secolo. Finalmente, verso il 1819, la quistione fu ripresa, e si fecero nuovi studi e nuove proposte; ma l’esecuzione fu rimandata ad altro tempo; e forse non sarebbe ancora condotta a termine al dì d’oggi, se non fosse stato un avvenimento impreveduto che diede l’ultima spinta alle volontà. Il giorno 9 di novembre del 1836, le acque del mare d’Haarlem, sollevate da un vento furioso, superarono le dighe, e si slanciarono sino alle porte d’Amsterdam; e nel mese seguente invasero Leida e tutta la sua campagna. Fu l’ultima provocazione. L’Olanda raccolse il guanto, e nel 1839 gli Stati Generali condannarono il mare temerario a sparire dalla faccia dello Stato. I lavori ebbero principio nel 1840. Si cominciò col circondare il lago d’una doppia diga e d’un largo canale, destinato a raccogliere le acque che poi, per altri canali, sarebbero state condotte al mare. Il lago conteneva settecento ventiquattro milioni di metri cubi d’acqua; senza contare la piovana e la filtrante che durante il prosciugamento fu trovata essere di trentasei milioni di metri cubi all’anno. Gl’ingegneri avevano fatto il conto che si sarebbe dovuto far passare mese per mese, dal lago nel canale di scolo, trentasei milioni e duecentomila metri cubi d’acqua. Tre enormi macchine a vapore bastarono a questo lavoro. Una fu innalzata presso Haarlem, l’altra fra Haarlem ed Amsterdam, la terza presso Leida. Quest’ultima fu chiamata la Leeghwater, in onore dell’ingegnere che aveva fatto la prima proposta del prosciugamento. Io la vidi, poichè non solo fu conservata, ma funziona ancora, a riprese, per assorbire e versare nel canale di scolo le acque piovute e filtrate. E così le altre due che sono uguali alla prima. Le macchine son chiuse in grosse torri rotonde e merlate, ciascuna delle quali ha un giro di finestre ad arco acuto, da cui escono undici grandi braccia che alzandosi e abbassandosi con lentezza maestosa, mettono in moto altrettante pompe, capaci di sollevare, volta per volta, il peso enorme di sessantasei metri cubi d’acqua. Tali sono all’aspetto questi tre smisurati vampiri di ferro che hanno succhiato un mare. La prima a mettersi all’opera fu la Leeghwater, il dì 7 giugno del 1849. Poco dopo cominciarono le altre due. Da quel momento il livello del lago si abbassò d’un centimetro al giorno. Dopo trentanove mesi di lavoro la gigantesca impresa fu compiuta; le macchine avevano assorbito 924,266,112 metri cubi d’acqua; il mare d’Haarlem era sparito. Questo lavoro che costò 7,240,368 fiorini, diede all’Olanda una nuova provincia di 18,500 ettari di terreno. Da tutte le parti dell’Olanda vi accorsero coltivatori. Vi si cominciò a seminar colza che diede un meraviglioso raccolto; poi ogni sorta di prodotti che vi fecero ottima prova. E come la popolazione proviene da differenti provincie, così vi si trovano tutti i sistemi di coltivazione in gara gli uni cogli altri; vi si vedon fattorie della Zelanda, del Brabante, della Frisia, della Groninga, della Nord-Olanda; vi si sentono tutti i dialetti delle Provincie unite; è una piccola Olanda dentro l'Olanda.
Via via che ci s’avvicina ad Haarlem, spesseggiano le ville e i giardini; ma la città rimane nascosta dagli alberi, di sopra dei quali non appare che il campanile altissimo della cattedrale, sormontato da una gran corona di ferro, della forma d’un bulbo di torre moscovita. Entrando in città, si vedono da ogni parte canali, mulini a vento, ponti levatoi, barchette di pescatori, case che si specchian nell’acqua; e fatto appena qualche centinaio di passi si riesce in una vasta piazza che fa esclamare con piacevole meraviglia: — Oh! eccoci veramente in Olanda! —
In un angolo v’è la cattedrale, edifizio alto e nudo, sormontato da un tetto della forma di prisma acutissimo, che par che fenda il cielo come una scure affilata. In faccia alla cattedrale s’alza l’antico palazzo municipale, coronato di merli, con un tetto simile a un bastimento rovesciato, e un balconcino che pare una gabbia da uccelli appesa sopra la porta, e una parte della facciata nascosta da due piccole case d’una forma bizzarra, tra di teatro, di chiesa e di castello da fuochi artificiali. Dagli altri lati della piazza ci son case di tutte le più capricciose forme dell’architettura olandese, pencolanti di qua e di là, di color nero, rossastro o vermiglio, colle facciate tempestate di bozze bianche, che paion tante scacchiere, e una fila d’alberi piantati quasi contro il muro, che nascondono tutte le finestre del primo piano. Accanto alla cattedrale, un edifizio stravagante, che serve agli incanti pubblici, un monumento d’architettura fantastica, mezzo rosso e mezzo bianco, tutto scalini, frontispizi, obelischi, piramidine, bassorilievi, ornamenti senza nome, della forma di trionfi da tavola, di candellieri e di spegnitoi che paion buttati là a caso, e presentano tutti insieme l’immagine d’un pagode indiano trasformato, con un’abberrazione di gusto spagnuolo, in casa olandese, da un artista esaltato dal ginepro. Ma la cosa più strana è una brutta statua di bronzo che si vede nel mezzo della piazza, con un’iscrizione che dice: Laurentius Johannis filius Costerus Typographiæ litteris mobilibus e metallo fusis inventor. Come! — si domanda lì per lì lo straniero ignaro della cosa; — che novità è codesta? non è Gutenberg l’inventore della stampa? Che cosa pretende costui? Chi è codesto Costerus?
Questo Costerus aveva nome Lorenzo Jauszoon, e fu chiamato Coster perchè fece il sagrestano, che si dice coster in lingua olandese. La tradizione racconta che questo Coster, nato in Haarlem verso la fine del secolo XIV, passeggiando un giorno nel bel bosco che si stende a mezzogiorno della città, staccò un ramo da un albero, e per divertire i suoi figliuoli v’intagliò con un coltello alcune lettere, le quali gli fecero nascere la prima idea della stampa. Infatti, tornato a casa, intinse quei tipi grossolani nell’inchiostro, li impresse sulla carta, fece nuove prove, perfezionò le lettere, stampò pagine intere, e finalmente, dopo una lunga vicenda di studi, di fatiche, di disinganni, di persecuzioni, delle quali fu fatto segno dai copisti e dai lucidatori; riuscì a produrre il suo capolavoro che fu lo Speculum humanæ salvationis, stampato in lingua tedesca, a colonne doppie e in caratteri gotici. Questo Speculum humanæ salvationis, che si può vedere nel palazzo municipale, è in parte stampato con tavole di legno incise, e in parte con caratteri mobili; e porta la data del 1440; la data più remota che si possa ammettere per l’invenzione di caratteri mobili; nei quali consiste veramente l’invenzione della stampa. Stando dunque a questo Speculum il Gutenberg l’avrebbe tra capo e collo. Ma le prove? Qui comincia il busilli per l’inventore olandese. Fra gli oggetti appartenenti a lui, che si conservano nel palazzo municipale, caratteri mobili non ve ne sono; e manca pure ogni altro strumento, o documento scritto, o testimonianza qualsiasi, che provi indubitabilmente che codesto Speculum, o almeno la parte stampata con caratteri mobili, sia stata stampata dal Coster. Come suppliscono a questa mancanza i fautori dell’inventore olandese? Qui salta fuori un’altra leggenda. La notte di Natale del 1440, mentre il Coster, vecchio e malato, assisteva alla Messa di mezzanotte, pregando Iddio che gli desse forza a sopportare le persecuzioni e a lottare contro l’invidia dei suoi nemici, un suo operaio, uno di quelli ch’egli s’era associato con giuramento di non tradire il segreto della sua invenzione, gli avrebbe portato via gli strumenti, i caratteri, i libri; del che accorgendosi il povero Coster appena rientrato in casa, sarebbe morto di dolore. Secondo la leggenda, questo sacrilego ladro sarebbe stato Fausto di Magonza o il fratello primogenito del Gutenberg; con che si spiegherebbe, e come la gloria dell’invenzione sia passata dall’Olanda alla Germania, e come la statua del povero Coster abbia il diritto di rizzarsi in mezzo alla piazza di Haarlem come uno spettro vendicatore. Su questa quistione, che durò per secoli, si scrisse in Olanda e in Germania un’intera biblioteca; fino a pochi anni sono, rimaneva ancora incerto dinanzi a quale delle due statue, quella di Magonza o quella di Haarlem, il viaggiatore dovesse levarsi il cappello: la Germania respingeva con supremo disdegno le pretensioni olandesi; l’Olanda, benchè con voce di meno in meno sicura, respingeva ostinatamente le pretensioni germaniche. Ma pare ora che il nodo della quistione sia stato sciolto per sempre. Il dottore Van der Linde, olandese, ha pubblicato un libro intitolato: La leggenda del Coster, letto il quale, a detta degli stessi Olandesi, non si dà maggior fede al Coster inventore della stampa che non se ne dia al Tubalcain inventore dell’uso del ferro od al Prometeo rapitore del fuoco. Per conseguenza la statua del povero Coster potrà esser fusa quando che sia in un bel cannone da spedirsi a dar consigli ai pirati di Sumatra. Ma all’Olanda rimarrà pur sempre, nel campo della tipografia, la gloria incontestata degli Elzevirs, e l’onore invidiabile d’aver stampato quasi tutti i grandi scrittori del secolo di Luigi XIV, d’avere diffuso in Europa la filosofia francese del XVIII, d’aver accolto, difeso, propagato il pensiero umano proscritto dal dispotismo e rinnegato dalla paura.
Nel palazzo municipale v’è un Museo di Pittura che si potrebbe chiamare il Museo di Franz Hals, poichè i capolavori di questo grande artista ne sono il principale ornamento. Nato, come tutti sanno, a Malines, sulla fine del secolo decimosesto, egli visse molti anni in Haarlem, quando vi fioriva la pittura di paesaggio, e vi soggiornavano, fra gli altri illustri artisti olandesi, il Ruysdaël, il Winants, il Brouwer, il Cornelio Bega. La sala principale del Museo, che è vastissima, è quasi tutta occupata dai suoi grandi quadri. Entrando, si ha per un momento un’illusione singolarissima. Par d’essere entrati nella sala d’un banchetto, diviso, come sogliono essere i grandi banchetti, in varie mense; e che al rumore dei nostri passi, tutti i commensali si siano voltati per vederci. Son tutti gruppi d’uffiziali degli arcieri e d’amministratori d’ospedali, di grandezza naturale, quali seduti, quali in piedi, intorno a tavole splendidamente apparecchiate; e tutti coi visi rivolti verso chi guarda, come gente atteggiata davanti a una macchina fotografica. Da qualunque parte uno si volga, non vede che faccioni pieni di bonomia e di salute, e occhi fissi nei suoi che par che dicano: — Mi riconoscete? — E v’è tanta verità d’espressione in quei visi, che par davvero di riconoscerli tutti, di saper chi sono, d’averli incontrati parecchie volte per le vie di Leida e dell’Aja. Questa verità d’espressione, la giovialità della scena, il vestiario ampio e ricco del secolo decimosettimo, le armi, le mense, e il non esservi intorno altri quadri che chiamino il pensiero ad altri tempi, fa sì che paia veramente di veder l’Olanda di duecent’anni fa, di sentir l’aura del suo gran secolo, di vivere in mezzo a quella gente forte, schietta e cordiale. Non s’è in una sala di Museo; si assiste alla rappresentazione d’una commedia storica; e non si sarebbe punto meravigliati di veder capitare tutt’a un tratto Maurizio d’Orange o Federico-Enrico. Il più magistrale di questi quadri rappresenta diciannove arcieri aggruppati intorno al loro colonnello, ed è uno dei capolavori dell’alta scuola olandese, d’un disegno grandioso e libero, d’un colorito caldo e brillante, degno di stare accanto al famoso Banchetto della guardia civica di Van der Helst. Fra gli altri quadri d’altri artisti, mi ricordo d’uno di Pietro Breugel il giovane, che è un’illustrazione comica di più di ottanta proverbi fiamminghi, a cui non posso pensare senza dare in uno scoppio di risa. Ma è un quadro che non si può descrivere per molte oneste ragioni.
In una sala del Museo di Pittura si conserva la bandiera che appartenne alla famosa eroina Kanau Hasselaer, la Giovanna d’Arco di Haarlem, la quale combattè nel 1572 alla testa di trecento amazzoni armate, contro gli Spagnuoli che assediavano la città. La difesa di Haarlem, benchè non coronata dalla vittoria, non fu meno gloriosa che quella di Leida. La città era circondata di vecchie mura e di torri cadenti, e non aveva, oltre la legione delle donne, più di quattromila difensori armati. Gli Spagnuoli, dopo aver cannoneggiato le mura per tre giorni, andarono con grande fiducia all’assalto; ma respinti da una pioggia di palle, di sassi, d’olio bollente, di pece infiammata, dovettero risolversi a porre un assedio regolare. La città era soccorsa dalla gente della campagna, uomini, donne e bambini, che scivolando sui ghiacci col favore della nebbia del decembre, le portavano sulle slitte provvigioni da bocca e da guerra. Guglielmo d’Orange, dal canto suo, faceva quant’era in lui per costringer gli Spagnuoli a levar l’assedio. Ma la fortuna non gli arrideva. Tremila soldati olandesi, mandati innanzi pei primi, furono sconfitti, i prigionieri impiccati, e un ufficiale fatto morire appeso a una forca colla testa in giù. Un altro tentativo di soccorso ebbe la stessa sorte: gli Spagnuoli tagliaron la testa a un ufficiale prigioniero e la gettarono nella città con un’iscrizione oltraggiosa. I cittadini, alla loro volta, gettarono nel campo nemico una botte con dentro undici teste di prigionieri spagnuoli e un biglietto che diceva: — «Le dieci teste sono mandate al duca d’Alba in pagamento della sua tassa dei decimi, con una testa d’interesse.» — I combattimenti si succedevano di più in più feroci, fra lo scoppio delle mine e delle contrammine, nel seno della terra. Il 28 gennaio arrivarono in città, per la via del lago di Haarlem, centosettanta slitte cariche di pane e di polvere. Don Federico, capitano degli Spagnuoli, cominciava a disperare e voleva levar l’assedio; ma il duca d’Alba, suo padre, gli ordinò di persistere. Venne finalmente il tempo dello sgelo, diventò difficile recar provvigioni alla città, gli assediati cominciarono a patir la carestia. Il 25 marzo fecero una sortita, nella quale arsero trecento tende e presero sette cannoni; ma questa vittoria fa resa vana da una sconfitta toccata alla flotta del principe d’Orange venuta a battaglia nel lago d’Haarlem colla flotta spagnuola. Questa sconfitta gettò gli assediati nella disperazione. Nel mese di giugno erano già ridotti agli ultimi orrori della fame. Nei primi di luglio tentarono inutilmente di venire ad accordi coi nemici. Il giorno otto, cinquemila volontari olandesi mandati da Guglielmo d’Orange per soccorrere la città, furono sbaragliati; e un prigioniero fu inviato in Haarlem col naso e le orecchie tagliate a portare la notizia. Allora gli assediati risolvettero di formare una legione serrata, colle donne e i bambini nel mezzo, e di slanciarsi fuori della città per aprirsi un varco in mezzo al campo nemico. Ciò saputo, don Federico promise ipocritamente il perdono, purchè la città si rendesse senza indugio. La città si arrese, gli Spagnuoli entrarono, trucidarono tutti i soldati del presidio, fecero decapitare mille cittadini, e legatine duecento a due a due li precipitarono gli uni dopo gli altri nel lago. L’esercito spagnuolo aveva pagato con dodicimila morti questa vittoria di Pirro strappata col tradimento e contaminata col boia.
Dal Museo andai alla cattedrale colla speranza di sentirvi suonare l’organo famoso di Cristiano Müller, che si dice essere il più grande del mondo, e conta fra le sue glorie quella d’essere stato suonato dal celebre Händel e da un ragazzo di dieci anni che aveva nome Mozart. La chiesa, fondata verso la fine del quindicesimo secolo, è bianca e nuda come una moschea; e coperta da una vôlta altissima rivestita di legno di cedro, la quale s’appoggia sopra ventotto leggere colonne. In un muro si vede una palla da cannone dell’assedio del 1573. Nel mezzo della chiesa v’è un monumento consacrato alla memoria dell’ingegnere Conrad, costruttore delle cateratte di Katwijk, e del suo collega Brunings «protettore dell’Olanda contro il furore del mare e la potenza delle tempeste.» Dietro il coro è sepolto il grande poeta Bilderdijk. A un arco sono sospesi alcuni piccoli modelli di bastimenti da guerra che rammentano la quinta crociata, condotta dal conte Guglielmo I d’Olanda. Vicino al pulpito v’è la tomba del Coster. L’organo, sostenuto da colonne di porfido, copre tutta una parete dal pavimento al tetto, e ha quattro tastiere, sessantaquattro registri e cinquemila canne, alcune delle quali sono alte due volte una casa olandese. In quel momento v’eran parecchi forestieri: l’organista non si fece attendere, e io potei sentire, come dice Vittor Ugo, cantare i cannoni di Dio. Profanissimo all’arte, non saprei dire in che cosa l’organo della chiesa di Haarlem differisca da quello del San Paolo di Londra o della cattedrale di Friburgo o della basilica di Siviglia. Ho sentito il solito squillo che annunzia la battaglia, a cui tien dietro un tumulto formidabile di colpi di cannone, di grida di feriti e di fanfare vittoriose che s’allontanano di valle in valle fin che si perdono di là dai monti; e allora s’alza un’armonia tranquilla di flauti, di chiavine e di canti pastorali, che infondono nel cuore tutta la dolcezza della vita dei campi; quando tutt’a un tratto scoppia la folgore, si scatena l’uragano, treman le fondamenta della chiesa; e poi la tempesta s’acqueta a poco a poco al suono d’un canto tremolo e solenne d’una legione d’angeli che arriva lentamente da una sterminata lontananza, e si sparpaglia nelle nuvole bestemmiata da un esercito di demoni muggenti nelle profondità della terra. E infine un’arietta della Fille de madame Angot, la quale dice che tutto è stato uno scherzo e che l’organista si raccomanda alla cortesia degli stranieri.
Dalla sommità del campanile si abbraccia collo sguardo tutta la bella campagna di Haarlem, sparsa di boschetti, di mulini a vento e di villaggi; si vedono i due grandi canali che vanno a Leida e ad Amsterdam, solcati da lunghe file di barconi a vela; si scorgono i campanili d’Amsterdam, le praterie dell’antico lago d’Haarlem, il villaggio di Bloemendaal, circondato di villette e di giardini; le dune brulle che difendono dalle tempeste questo piccolo paradiso terrestre; e di là dalle dune, il Mare del Nord che appare come una striscia livida e luminosa a traverso i vapori dell’orizzonte. Uscito dalla chiesa, infilai una strada e girai per la città alla ventura.
Benchè per molti aspetti somigli a tutte le altre città olandesi, Haarlem ha un carattere suo proprio, per il quale si stampa assai distintamente nella memoria. È una città gentile e raccolta, nella quale il viaggiatore sente più vivo che in tutte le altre il desiderio d’avere sotto il suo braccio il braccìno d’una sposa o d’un’amica. È una città da donne. Un largo corso d’acqua, chiamato la Spaarne, che serve di canale di scolo tra le acque dell’antico lago d’Haarlem e il golfo di Zuiderzee, l’attraversa dividendosi in parecchi rami, e formandole tutt’intorno un canale che la circonda come una fortezza. I canali interni sono fiancheggiati da grandi alberi che vi formano sopra quasi una vôlta di verzura, in modo che ogni canale pare un laghetto di giardino, e i barconi e le barche scorrono all'ombra coll’aria di andare a diporto piuttosto che per le proprie faccende. Tutte le strade sono ammattonate, e tutte le case del colore dei mattoni, così che a destra, a sinistra, in terra, in alto, da qualunque parte si guardi, non si vede che rosso, e poi rosso, ed eternamente rosso, come se la città fosse stata scavata in una montagna di diaspro sanguigno. Un grandissimo numero di case hanno la facciata con otto, con dieci, e persino con sedici scalini, come quelle chiesuole di carta che fanno i ragazzi colle forbici; e non vi si vedono che pochissimi specchi, rare insegne di botteghe e nessun oggetto appeso alle finestre. Le strade sono pulite al segno da peritarsi a lasciarvi cadere la cenere del sigaro. Per lunghi tratti non s’incontra anima viva, o soltanto qualche ragazzina di dodici o quattordici anni, che va tutta sola alla scuola, coi capelli giù per le spalle e il libro sotto il braccio. Non si sente strepito d’officine, non rumore di carri, non grida di venditori. Tutta la città ha non so che apparenza di riserbo aristocratico e di pudica civetteria che desta in singolar modo la curiosità, e fa sì che si gira e si rigira senza mai stancarsi, come se a furia di girare si dovesse scoprire qualche gentile segreto che la città intera voglia tener celato agli stranieri.
A mezzogiorno si stende un bellissimo bosco di faggi, creduto un resto dell’immensa foresta che copriva anticamente una gran parte dell’Olanda; attraversato da viali, sparso di chioschi, di caffè, di casini di società, e aperto nel mezzo in un grazioso parco popolato di daini e di cervi. In un punto solitario ed ombroso, c’è un piccolo monumento posto, il 1823, in onore di Lorenzo Coster, il quale, giusta la leggenda, avrebbe tagliato là quei famosi rami di faggio, in cui incise le prime lettere. Girai per tutti i recessi oscuri del bosco, incontrai un ragazzo che mi salutò con un gentile Bonjour, voltando il viso dall’altra parte; domandai la strada a una ragazza dalla testa cerchiata d’oro che diventò rossa come un garofano; chiesi del fuoco a un contadino che leggeva la gazzetta; passai accanto a un’amazzone che mi guardò con due occhi chiari come il cielo sereno; e tornai verso l’entrata del bosco, dove c’è un Museo di Pittura olandese moderna, del quale posso tacere senza rimorso.
È però bene di osservare, a proposito di questo Museo, che la pittura olandese degli ultimi tempi ha fatto, sotto varii aspetti, un progresso onorevole. Il genere preferito è sempre il piccolo paesaggio, e in questo nulla è cangiato; ma la pittura intima s’è sollevata in una regione più alta. Ha lasciato la feccia della società per ritrarre la classe media, è uscita dalle taverne per dedicarsi amorosamente a quel sobrio, severo e valoroso popolo di pescatori che lavora e soffre in silenzio sulla costa olandese da Helder alle foci della Mosa; ha dimenticato le orgie e le danze plebee, per rappresentare il marinaio che parte per la pesca dell’aringa, e la moglie che gli dà l’ultimo addio dalla spiaggia, gridando: — Dio t’accompagni! — ; il pescatore che ritorna dopo un lungo viaggio al suo diletto Scheveningue, e i bambini che gli corrono incontro colle braccia aperte; il mare agitato dalla tempesta, e la famigliuola del povero marinaio che dall’alto delle dune cerca ansiosamente cogli occhi pieni di lagrime un punto nero sull’orizzonte oscuro. La minutezza eccessiva è scomparsa; la pittura ha preso un fare più largo e più libero. Pochi artisti vanno a studiar fuori della loro patria, e questi perdono il loro carattere nativo; ma i più rimangono, e la loro pittura, il paesaggio sopratutto, è ancora, come per l’addietro, uno specchio fedele del paese, una pittura originale e modesta, piena di mestizia, di dolcezza e di pace. Vicino al bosco si trova il giardino del signor Kvelage, ch’è il più famoso vivaio di tulipani dell’Olanda.
Questa parola «tulipani» rammenta una delle più strane follie popolari che siano mai state al mondo, la quale si manifestò in Olanda verso la metà del secolo decimosettimo. Il paese, in quel tempo, aveva raggiunto il colmo della prosperità: all’antica parsimonia era succeduto il fasto; le case dei ricchi, ancora modestissime sul principio del secolo, s’erano trasformate in piccole reggie; il velluto, la seta, le perle avevano sbandito la semplicità patriarcale del vestire antico; l’Olanda s’era fatta vana, ambiziosa e dissipatrice. Dopo aver riempito la casa di quadri, di tappeti, di porcellane, di oggetti preziosi di tutti i paesi dell’Europa e dell’Asia, i ricchi negozianti delle grandi città d’Olanda cominciarono a spendere somme considerevoli per ornare i loro giardini di tulipani; il fiore che risponde meglio d’ogni altro a quell’avidità innata di colori vivissimi che il popolo olandese manifesta per tanti segni. Questa ricerca dei tulipani ne promosse rapidamente la coltivazione; da ogni parte s’apriron giardini, si fecero studi, si cercarono nuove varietà del fiore prediletto; in breve tempo fu una gara generale; da ogni parte pullularono tulipani non mai veduti, di forme bizzarre, di sfumature ignote, di combinazioni di colori inaspettate, pieni di contrasti, di capricci e di sorprese; i prezzi crebbero meravigliosamente; una nuova screziatura, una forma nuova ottenuta in quelle foglie benedette, fu un avvenimento, una buona fortuna; migliaia di persone si diedero a quello studio con un furore di maniaci; in tutto il paese non si parlò più che di petali, di colori, di bulbi, di vasi, di semenze. Questa mania giunse fino al segno di far ridere l’Europa intera. I bulbi dei tulipani più rari salirono a un prezzo favoloso; alcuni furono una ricchezza come una casa, un podere, un mulino; un bulbo equivaleva alla dote d’una ragazza di famiglia agiata; per un bulbo furono dati, in non so quale città, due carri di grano, quattro carri d’orzo, quattro buoi, dodici pecore, due botti di vino, quattro botti di birra, mille libbre di formaggio, un vestimento completo e una coppa d’argento. Il bulbo d’un tulipano chiamato l’Ammiraglio Liefkenskoek, fu venduto ottomila ottocento lire. Un altro bulbo, d’un tulipano chiamato Semper Augustus, fu comperato al prezzo di tredicimila fiorini olandesi. Un bulbo Ammiraglio Enkhuizen fu pagato più di duemila scudi. Un giorno, non rimanendo più in tutta l’Olanda che due bulbi del Semper Augustus, uno in Amsterdam, l’altro in Haarlem, furono offerti per uno di essi quattromila seicento fiorini, una splendida carrozza e due cavalli pomellati con la bardatura di gala; e l’offerta fu rifiutata. Un altro compratore offerse dodici jugeri di terreno, e neanch’egli lo potè avere. Nei registri d’Alkmaar, è ricordato che nel 1637 si fece in quella città la vendita pubblica di centoventi tulipani a benefizio della Camera degli orfani, e che questa vendita fruttò cento ottanta mila lire. Poi si cominciò a trafficare sui fiori, e specialmente sui tulipani, come sulle rendite dello Stato e sulle azioni. Si vendevano per somme enormi bulbi che non si possedevano, impegnandosi a provvederli per un giorno determinato; e si trafficava così per un molto maggior numero di tulipani che non ne potesse fornire l’intera Olanda. Si racconta che una sola città olandese ne vendette per venti milioni di lire, e che un negoziante d’Amsterdam guadagnò in questo commercio più di sessantotto mila fiorini nello spazio di quattro mesi. Gli uni vendevano ciò che non avevano, gli altri ciò che non avrebbero mai avuto; il mercato passava di mano in mano; si pagavano le differenze; e i fiori per cui molta gente s’arricchiva o andava in rovina non fiorivano che nella fantasia dei trafficanti. Infine la cosa giunse a segno che, molti compratori rifiutando di pagare le somme convenute, e seguendone contestazioni e disordini, il Governo decretò che questi debiti fossero considerati come debiti ordinarii, e fatti pagare per via di legge; e allora i prezzi scemarono improvvisamente sino a cinquanta fiorini per il Semper Augustus, e il traffico scandaloso cessò. Ora quella dei fiori non è più una manìa; ma un culto amoroso, del quale la città di Haarlem è il principal tempio. Essa provvede ancora di fiori una gran parte dell’Europa e dell’America settentrionale. La città è circondata di giardini, i quali verso la fine di aprile e il principio di maggio si coprono d’una miriade di tulipani, di giacinti, di garofani, di auricole, d’anemoni, di ranuncoli, di camelie, di primavere, di cacti, di pelargonii, che formano intorno ad Haarlem una immensa corona cui i viaggiatori di tutte le parti del mondo rapiscono un mazzetto passando. Il giacinto, in questi ultimi anni, è salito in grande onore; ma il tulipano è ancora il re delle aiuole e il supremo amore dell’Olanda. Converrebbe poter cangiare la penna col pennello del Van Huysum o del Menendez, per descriver la pompa di quei colori arditi, lussuriosi, sfolgoranti, i quali, se le sensazioni dell’occhio si potessero paragonare a quelle dell’udito, si direbbe che son come grida e risa di gioia e d’amore nel silenzio verde dei giardini; e che danno al capo come la musica fragorosa d’una festa. Vi si vede il tulipano duca di Toll; i tulipani detti precoci semplici, di più di seicento varietà; i doppi precoci; i tardivi, divisi in unicolori, in fini, in sopraffini, in rettificati; i fini, suddivisi ancora in violette, in rose, in bizardi; poi i mostruosi o pappagalli, gl’ibridi, i ladri; classificati in mille ordini di nobiltà e d’eleganza; tinti di tutte le sfumature che può concepire la mente umana; macchiettati, striati, orlati, variegati, colle foglie a onde, a frangie, a festoni; decorati di medaglie d’oro e d’argento; distinti con mille nomi di generali, di pittori, di uccelli, di fiumi, di poeti, di città, di regine, e mille aggettivi amorosi e spavaldi, che rammentano le loro metamorfosi, le loro avventure e i loro trionfi, e lasciano nella mente una dolcissima confusione d’immagini belle e di pensieri gentili.
Dopo questo, mi pare di poter partire per Amsterdam, dove mi spinge una curiosità irresistibile; e già metto il piede sul montatoio del treno, e adocchio un bel posto vicino allo sportello del vagone; quando mi sento afferrare per la falda, mi volto e vedo lo spettro d’un mio cortese critico d’Italia, il quale mi dice in tuono di rimprovero: “Ma, e i commerci, e le industrie, e gli stabilimenti di Haarlem, dove li ha lasciati?” — “Ah! è vero” rispondo io; “lei è uno di quelli che vogliono descrizione, guida, dizionario, trattato, indicatore, quadro statistico, tutto in un libro? Ebbene, la voglio contentare. Sappia dunque che in Haarlem c’è un ricchissimo museo d’istrumenti fisici, chimici, ottici, idraulici, lasciato alla città da un Pietro Teyler van der Hulst, con una somma da destinarsi ogni anno a concorsi scientifici; — che c’è una fonderia celebre di caratteri greci ed ebraici; — che ci sono parecchie belle fabbriche di cotone fondate sotto il patronato di re Guglielmo II; — che ci sono dei lavatoi di biancheria famosi in tutta l’Olanda.” In questo momento si sentì il fischio della partenza: “Un momento!” mi gridò il critico cercando di trattenermi allo sportello, “che dimensioni hanno le macchine elettriche del museo Teyler? Quanto producono anno per anno le fabbriche di cotone? Che sapone s’adopera nei lavatoi?....” — “Eh! mi lasci un po’ in pace!” gli risposi, chiudendo lo sportello mentre il treno era già in movimento; non lo sa il proverbio che non si può cantare e portar la croce?
Ed ora a te, Amsterdam dalle novanta isole, Venezia del nord, regina del Zuiderzee!