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LEIDA.
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La campagna tra l’Aja e Leida è come tra Rotterdam e l’Aja, tutta una pianura verdissima, macchiettata dal rosso vivo dei tetti e rigata d’azzurro dai canali, con qua e là gruppi d’alberi, mulini a vento, e armenti sparpagliati ed immobili. Si va innanzi, e par sempre d’essere nel medesimo punto, o di riveder luoghi già mille volte veduti. La campagna è silenziosa, il treno scorre lentamente, quasi senza far rumore; nel vagone nessuno parla; alle stazioni, non si sente una voce; a poco a poco la mente cade in una sorta di assopimento, nel quale si dimentica dove s’è e dove si va. — Eppure si dorme in questo paese! — diceva il Diderot viaggiando in Olanda; e questa esclamazione mi venne più volte sulle labbra in quel breve tragitto, sin che intesi gridar: — Leyden, — e scesi in una stazione solitaria e quieta come un convento. Leida, l’antica Atene del Nord, la Saragozza dei Paesi Bassi, la più vecchia e più gloriosa figliuola dell’Olanda, è una di quelle città in cui, appena entrati, si diventa pensierosi; e non si possono rammentare, anche molto tempo dopo esserci stati, senza ripensarci lungamente; e non ci si può pensare senza tristezza.
Appena entrati, si sente il freddo della città morta. Il vecchio Reno, che l’attraversa dividendola in molte isole congiunte da centocinquanta ponti di pietra, forma dei grandi canali e dei bacini che coprono intere piazze, dove non si vede né un bastimento né una barca, così che la città sembra piuttosto che percorsa, allagata dalle acque. Le principali strade sono larghissime e fiancheggiate da case vecchie e nere, colle solite facciate a punta e a scalini; e in quelle grandi strade, nelle piazze, nei crocicchi, non si vede nessuno o poca gente sparpagliata sur un vasto spazio, come i superstiti d’una città spopolata dalla moría. Nelle piccole strade si cammina per lunghi tratti sull’erba, in mezzo a porte e finestre chiuse, in un silenzio profondo come nelle città delle favole, dove tutti gli abitanti sono immersi in un sonno soprannaturale. Si passa sopra ponti erbosi, lungo canaletti coperti d’un tappeto verde, per piazzette che paiono cortili di convento; e poi, a un tratto, si riesce all’aperto, in una strada larga come un viale di Parigi; e da questa daccapo nel labirinto delle strade strette. Di ponte in ponte, di canale in canale, di isola in isola, si gira per ore ed ore cercando sempre la vita e lo strepito dell’antica Leida, e non si trova che la solitudine, il silenzio e l’acqua, che riflette la tetra maestà della città decaduta.
Dopo un lungo giro riuscii in una vasta piazza, dove faceva gli esercizi uno squadrone di cavalleria. Un vecchio cicerone che m’accompagnava, mi fermò, all’ombra d’un albero, e mi disse che quella piazza, chiamata in olandese La Rovina, ricordava una grande sventura per la città di Leida. “Prima del 1807 — brontolò in un francese stentato, e con un tuono di maestro di scuola, tutto proprio dei ciceroni olandesi; — questo grande spazio era tutto coperto di case, e il canale che ora attraversa la piazza passava allora nel mezzo della strada. Il giorno 12 gennaio del 1807 un bastimento carico di polvere ch’era qui di stazione, scoppiò; e ottocento case, con parecchie centinaia di abitanti, saltarono in aria, e così si formò la piazza. E tra quegli abitanti c’era l’illustre storico Giovanni Luzac che fu poi seppellito nella chiesa di san Pietro, con una bella iscrizione; e tra le case che saltarono in aria v’era quella della famiglia Elzevirs, la gloria della tipografia olandese.” — La casa degli Elzevirs! — dissi tra me con grata sorpresa; e pensai a certi bibliofili che conoscevo in Italia, i quali sarebbero stati felici di premere col piede la terra che aveva sorretto quella casa illustre, da cui uscirono i piccoli capolavori tipografici che essi cercano, sognano e accarezzano con tanto amore; quei libricciuoli che paiono stampati con caratteri adamantini; quei modelli di finezza e di precisione, nei quali un errore tipografico è un portento che ne duplica il pregio e il valore; quelle meraviglie di politipi, di contorni, di baffi, di fioroni, di fondi di lampada, di cui essi parlano con voce commossa, e cogli occhi luccicanti!
Uscendo da quella piazza entrai nella Breedestraat, la più grande strada di Leida, che attraversa la città da un capo all’altro in forma d’un’esse; e arrivai dinanzi al Palazzo Municipale, che è uno dei più curiosi edifizi olandesi del secolo decimosesto. A prima vista pare una decorazione da palco scenico, e contrasta spiacevolmente coll’aspetto grave della città. È un palazzo basso e lungo, color cinerino, con una facciata nuda, sull’alto della quale corre una balaustrata di pietra, e su questa s’innalzano obelischi, piramidine, frontispizii aerei ornati di statue grottesche, che formano una sorta di merlatura fantastica intorno a un tetto ripidissimo. In dirittura dell’entrata principale, s’alza un campanile composto di parecchi piani rientranti l’un nell’altro, che gli danno l’aspetto d’un altissimo chiosco, con sulla cima una enorme corona di ferro, della forma d’un pallon volante rovesciato, sormontata da un’asta. Sopra la porta, alla quale si giunge per due scale, v’è un’iscrizione olandese che rammenta la fame patita dalla città nel 1574, con centotrent’una lettera, che corrispondono ai giorni della durata dell’assedio.
Entrai nel palazzo, girai per varie sale e corridoi senza vedere anima viva e senz’udire un rumore il quale desse indizio ch’era abitato, sin che incontrai un usciere che mi si mise ai fianchi, e fattomi attraversare uno stanzone dov’erano parecchi impiegati immobili come automi, mi condusse nella sala delle curiosità. Il primo oggetto che mi diede nell’occhio, fu una tavola sconnessa, sulla quale lavorò, se è vera la tradizione, quel famoso sarto Giovanni di Leida, che mise sottosopra il paese, sul principio del secolo decimosesto, come aveva fatto, cinque secoli prima, il Tanchelyn, di oscena memoria; quel Giovanni di Leida, capo degli anabattisti, il quale difese contro il vescovo conte di Waldeck, la città di Munster, dove lo avevano eletto re i suoi partigiani fanatici; quel pio profeta, che ebbe un serraglio di donne, e ne fece decapitar una, perchè s’era lamentata della carestia; quel Giovanni di Leida, infine, che morì all’età di 26 anni straziato colle tanaglie roventi, e il suo cadavere, posto in una gabbia di ferro sulla cima d’una torre, fu divorato dai corvi. Egli non era però giunto a destare il fanatismo che aveva destato il Tanchelyn, al quale le donne, persuase di far cosa grata a Dio, si prostituivano al cospetto dei loro mariti e delle loro madri; e gli uomini libavano come una bevanda purificatrice l’acqua nella quale egli aveva lavato la sua sconcia persona. In altre sale vi sono dipinti dell’Hinck, di Francesco Mieris, del Cornelis Engelbrechtsen, e un Giudizio universale di Luca di Leida, il patriarca della pittura olandese, il primo che afferrò le leggi della prospettiva aerea, valente colorista e incisore di grandissima fama, al quale è a sperarsi che siano state perdonate nel mondo di là le Marie e le Maddalene ignobilmente brutte, i santi burleschi e gli angeli stravolti, di cui popolò i suoi quadri. Anch’egli come quasi tutti i pittori olandesi, ebbe una vita piena di avventure. Viaggiò per l’Olanda in una barca propria; in ogni città riuniva a banchetto i pittori; fu, o credette d’essere stato avvelenato con un lento veleno dai suoi rivali; stette per anni a letto; dipinse da letto il suo capolavoro: Il Cieco di Gerico guarito da Cristo, e morì due anni dopo, in un giorno memorabile per un caldo prodigioso che spense molte vite e cagionò infiniti malanni.
Uscito dal Palazzo Municipale, mi feci condurre in un castello posto sur una piccola collina che si alza nel mezzo della città, fra le due braccia principali del Reno; ed è la parte più antica di Leida. Questo castello, chiamato dagli Olandesi il Burg, non è altro che una gran torre rotonda e vuota, costruita, secondo alcuni, dai Romani; secondo altri, da un Hengist, duca degli Anglo-Sassoni; e recentemente ristaurata e coronata di merli. La collina è tutta coperta di altissime quercie, che nascondono la torre e impediscono la vista della campagna; soltanto qua e là, guardando a traverso i rami, si vedono i tetti rossi di Leida, la pianura rigata di canali, le dune, i campanili delle città lontane.
Sulla cima di quella torre, all’ombra delle quercie, si sogliono raccogliere gli stranieri per evocare le memorie di quell’assedio che fu «la più lugubre tragedia dei tempi moderni,» e che sembra abbia lasciato nell’aspetto di Leida una traccia incancellabile di tristezza.
Nel 1573 gli Spagnuoli, condotti dal Valdez, posero l’assedio a Leida. Nella città non si trovavano che pochi soldati volontari. Il comando militare era stato affidato al Van der Voes, uomo valoroso e poeta latino di bella fama; il Van der Werf era borgomastro. In breve tempo, gli assedianti costrussero più di sessanta forti in tutti i passi dove si potesse penetrare per acqua o per terra nella città, e Leida si trovò completamente circondata. Ma i Leidesi non si perdettero d’animo. Guglielmo d’Orange aveva fatto dir loro che resistessero almeno per tre mesi, che in questo tempo egli si sarebbe posto in grado di soccorrerli, che la sorte dell’Olanda dipendeva da quella di Leida; e i Leidesi gli avevan promesso di resistere fino agli estremi. Il Valdez mandò ad offrir loro il perdono del re di Spagna, purché gli aprissero le porte; essi gli risposero con un verso latino: Fistula dulce canit, volucrem dum decipit anceps, e cominciarono a far sortite e ad attaccare combattimenti. Intanto nella città andavano scemando i viveri e il cerchio dell’assedio si restringeva di giorno in giorno. Guglielmo d’Orange che occupava la fortezza di Polderwaert, posta fra Delft e Rotterdam, non vedendo altra via di soccorrere la città, concepì, e ottenne che fosse approvato dai deputati, il disegno di allagare la campagna di Leida, rompendo le dighe dell’Issel e della Mosa, e scacciando così gli Spagnuoli colle acque, poiché non li poteva scacciare colle armi. Questa disperata risoluzione fu subito messa in atto. Le dighe vennero rotte in sessanta luoghi, le cateratte di Rotterdam e di Gouda furono aperte, il mare cominciò a invadere le terre, e duecento barconi si tennero pronti a Rotterdam, a Delftshaven e in altri luoghi per portare provvigioni alla città, appena cominciassero le grandi cresciute delle acque, che avvengono nell’equinozio d’autunno. Gli Spagnuoli, atterriti sulle prime dall’inondazione, si rassicurarono quando ebbero compreso il disegno degli Olandesi, tenendo per certo che la città si sarebbe arresa prima che le acque giungessero ai forti principali; e a tal fine strinsero l’assedio con maggior vigore. In questo tempo i Leidesi, che cominciavano a sentire le strette della carestia, e a disperare che il soccorso promesso giungesse in tempo, mandavano lettere, per mezzo di piccioni, a Guglielmo d’Orange, malato di febbre ad Amsterdam, per esporgli il triste stato della città; e Guglielmo rispondeva incoraggiandoli a protrarre ancora la resistenza, che, appena rimesso in salute, sarebbe volato a soccorrerli. Le acque s’avanzavano, l’esercito spagnuolo cominciava ad abbandonare i forti più bassi, gli abitanti di Leida salivano continuamente sulla torre ad osservare il mare ora sperando ora disperando; senza cessare di lavorare alle mura, di far sortite, di respingere assalti. Finalmente il principe d’Orange guarì, e gli apparecchi per la liberazione di Leida, che durante la sua malattia erano andati a rilento, furono ripresi con vigore. Il primo di settembre i Leidesi videro dall’alto della torre apparire sulle acque lontane i primi battelli olandesi. Era una piccola flotta, capitanata dall’ammiraglio Boisot, la quale portava ottocento zelandesi, uomini selvaggi, coperti di ferite, avvezzi al mare, spregiatori della vita, ferocissimi nelle battaglie, che avevano tutti una mezzaluna sopra il cappello coll’iscrizione: « Piuttosto turchi che papisti, » e formavano una falange d’aspetto strano e terribile, risoluta a salvar Leida o a morire nelle acque. I bastimenti s’avanzarono a cinque miglia dalla città, contro l’estrema diga, ch’era difesa dagli Spagnuoli. Si attaccò il combattimento, la diga fu assalita, conquistata, spezzata, il mare irruppe e i battelli olandesi passarono trionfalmente per le breccie. Era un gran passo; ma non era che il primo. Dietro quella diga, se ne stendeva un’altra. Si ricominciò la battaglia; anche la seconda diga fu conquistata e rotta, e la flotta andò innanzi. Tutt’a un tratto il vento si volge contrario, i battelli sono costretti a fermarsi; torna a soffiare in favore, e i battelli si avanzano; si volge contrario un’altra volta, e daccapo la flotta s’arresta. Mentre questo succede, nella città cominciano a mancare anche gli animali schifosi di cui i cittadini sono costretti a cibarsi; la gente si butta in terra a leccare il sangue dei cavalli uccisi; le donne e i fanciulli frugano nelle immondizie della strada; scoppia l’epidemia; le case si riempiono di cadaveri; più di seimila cittadini son morti; ogni speranza di salvamento è perduta. Una turba di affamati corre dal borgomastro Van der Werff e gli domanda la resa con grida strazianti. Il Van der Werff rifiuta. La plebe lo minaccia. Allora egli fa cenno col cappello che vuol parlare, e in mezzo al silenzio generale, grida: — Cittadini! Ho giurato di difendere la città fino alla morte, e coll’aiuto di Dio manterrò il mio giuramento. È meglio morir di fame che morir di vergogna. Le vostre minaccie non mi atterriscono. Io non posso morire che una volta. Uccidetemi, se volete, e saziate la vostra fame colle mie carni; ma fin che vivo non mi chiedete la resa di Leida! — La folla, commossa da queste parole, si disperde in silenzio, rassegnata a morire; e la città continua a difendersi. Finalmente, nella notte del primo ottobre, si scatena un violentissimo vento equinoziale; il mare si solleva, soverchia le dighe rovinate e invade furiosamente la terraferma. A mezzanotte, nel forte della tempesta, in mezzo a un’oscurità profonda, la flotta olandese si muove. Alcuni vascelli spagnuoli le vanno incontro. Scoppia un’orribile battaglia fra le cime degli alberi e i tetti delle case sommerse, al chiarore dei lampi delle cannonate. I bastimenti spagnuoli sono sopraffatti, invasi, affondati; gli Zelandesi saltano nei bassi fondi e spingono innanzi i loro battelli a forza di spalle; i soldati spagnuoli, presi dal terrore, abbandonano i forti, cadono a centinaia nel mare, sono uccisi a colpi di pugnale e d’uncino, precipitati dai tetti e dalle dighe, fulminati, dispersi. Rimane un’ultima fortezza in potere del Valdez; gli assediati ondeggiano ancora una volta fra la disperazione e la speranza; anche quella fortezza è abbandonata; la flotta olandese entra in città.
Qui l’aspettava uno spettacolo orrendo. Un popolo scarno, trasfigurato, sfinito dalla fame, s’affollava lungo i canali, strascinandosi per le terre, barcollando, tendendo le braccia. I marinai si misero a gettar pani dai battelli sulle strade, e allora cominciarono fra quei moribondi delle lotte disperate; molti morirono soffocati; altri spirarono divorando quel primo nutrimento; altri caddero nei canali. Quietata finalmente quella prima furia, saziati i più rifiniti, provveduto ai più stringenti bisogni della città, si confusero festosamente cittadini, zelandesi, marinai, guardie civiche, soldati, donne, ragazzi, e quella turba gloriosa e consunta corse alla cattedrale, dove cantò, con voce rotta dai singhiozzi, un inno di grazie al Signore.
Il principe d’Orange ricevette la notizia del salvamento a Delft, in una chiesa, mentre assisteva agli uffizi divini. Trasmise subito il messaggio al predicatore, e questi l’annunziò all’uditorio, che gli rispose con un grido di gioia. Benché tuttavia convalescente, e quantunque l’epidemia infierisse ancora a Leida, Guglielmo volle riveder subito la sua cara e valorosa città; vi accorse: la sua entrata fu un trionfo; il suo aspetto maestoso e sereno rincorò il popolo; le sue parole gli fecero dimenticare tutti i dolori sofferti. Per premiare la città della sua eroica difesa, le lasciò la scelta fra l’esenzione da certe imposte e la fondazione d’una Università. Leida scelse l’Università.
La festa d’inaugurazione dell’Università fu celebrata il 5 febbraio dell’anno 1575 con una processione solenne. Andavano innanzi un drappello di milizia borghese e cinque compagnie di fanteria della guarnigione di Leida, alle quali teneva dietro un carro tirato da quattro cavalli, con su una donna vestita di bianco, che rappresentava l’Evangelo; e intorno al carro i quattro Evangelisti. Seguiva la Giustizia cogli occhi bendati, la bilancia e la clava, montata sur un liocorno, e circondata da Giuliano, Papiniano, Ulpiano e Tribuniano. Alla Giustizia, succedeva la Medicina, a cavallo, con un trattato in una mano e nell’altra una ghirlanda di piante medicinali, e l’accompagnavano i quattro grandi dottori Ippocrate, Galeno, Dioscoride e Teofrasto. Dopo la Medicina, veniva Minerva armata di lancia e di scudo, scortata da quattro cavalieri che rappresentavano Platone, Aristotile, Cicerone e Virgilio. Negli intermezzi camminavano guerrieri vestiti ed armati all’antica. In coda v’erano alabardieri, mazzieri, musici, ufficiali, i nuovi professori, i magistrati, una folla infinita. La processione passò lentamente per parecchie strade cosparse di fiori, sotto archi trionfali, in mezzo agli arazzi e alle bandiere, fino a un piccolo porto sul Reno, dove le venne incontro una gran barca splendidamente decorata, sulla quale, all’ombra d’un baldacchino coperto di alloro e d’aranci, sedeva Apollo suonando il liuto, circondato dalle nove Muse che cantavano, e Nettuno, salvatore della città, governava il timone. La barca s’avvicinò alla sponda, il biondo nume e le nove sorelle discesero, baciarono l’un dopo l’altro i nuovi professori, salutandoli con gentili versi latini; dopo di che la processione si recò all’edifizio destinato all’Università, dove un professore di teologia, il molto reverendo Gaspare Kolhas pronunziò un eloquente discorso inaugurale, preceduto dalla musica, e seguito da uno splendido banchetto.
Come quest’Università abbia corrisposto alle speranze di Leida, è superfluo il dire. Tutti sanno come gli Stati d’Olanda v’abbiano attirato con larghissime offerte dotti di ogni paese; come la filosofia, scacciata di Francia, vi si sia rifugiata; come sia stata per molto tempo la cittadella più sicura di tutti gli uomini che lottarono per il trionfo della ragione umana; come sia diventata, in fine, la più famosa scuola d’Europa. L’Università attuale è in un antico convento. Non si può, senza un sentimento di profondo rispetto, entrare nella gran sala del Senato accademico dove si vedono i ritratti di tutti i professori che si succedettero dalla fondazione dell’Università fino ai nostri giorni: fra i quali Giusto Lipse, il Vossius, l’Heinsius, il Gronovius, l’Hemsterhuys, il Ruhneken, il Valckenaer, il grande Scaligero, che gli Stati d’Olanda fecero invitare a Leida per mezzo di Enrico IV; i due famosi Gomarius e Arminius, che provocarono la gran lotta religiosa definita dal sinodo di Dordrecht; il celeberrimo medico leidese Boerhaave, alle lezioni del quale assisteva Pietro il Grande, e accorrevano a lui malati da tutti i paesi del mondo, e gli era recapitata una lettera d’un mandarino chinese senz’altro indirizzo che all’illustre Boerhaave, medico in Europa.
Ora, questa gloriosa Università, benché abbia ancora dei professori illustri, è decaduta; i suoi studenti, che furono in altri tempi più di duemila, son ridotti a poche centinaia; l’insegnamento che vi si dà non può più rivaleggiare con quello delle università di Berlino, di Monaco, di Weimar. Principalissima cagione di questa decadenza è il numero soverchio delle università olandesi (che, oltre quella di Leida, ve n’ha una a Utrecht e una a Groninga e un ateneo ad Amsterdam); donde segue che i musei, le biblioteche, i professori eminenti, i quali raccolti in una sola città potrebbero formare una Università eccellente, sparpagliati come sono, non bastano ai bisogni. E non è da dirsi che l’Olanda non sia persuasa che una sola università eccellente le gioverebbe assai più che quattro mediocri; chè anzi da molto tempo ella domanda ad alta voce che questo si faccia. E perchè non si fa? O Italiani, consoliamoci: tutto il mondo è paese. Anche in Olanda, la patria propone e il campanile dispone. Le tre città universitarie gridano tutte insieme: Sopprimiamo; — ma ciascuna dice alle altre: Sopprimete; — e così si va innanzi senza sopprimere, continuando a sollecitare la soppressione.
Ma benché decaduta, l’università di Leida è ancora la più fiorente dell’Olanda, in specie per i molti e ricchissimi musei dei quali dispone. Nè di questi però, nè delle biblioteche, nè dell’ammirabile giardino botanico sarebbe decente il discorrere, come solo io potrei fare, di volo. Non posso però dimenticare due cose curiosissime che vidi nel Museo di Storia Naturale: una ridicola e una seria. La prima, che si trova nel gabinetto anatomico (uno dei più ricchi d’Europa), è un’orchestra formata da una cinquantina di scheletri di piccolissimi topi, alcuni in piedi, altri seduti sur una doppia fila di banchi, tutti colla coda ritta, con violini e chitarre fra gli zampini, il libro della musica davanti, sigaro in bocca, fazzoletto, scatole da tabacco; e il capo orchestra che si sbraccia sopra una seggiola elevata. La cosa seria sono alcuni pezzi di legno corroso, bucherellato come la spugna, frammenti di palafitte e di battenti di cateratte, i quali ricordano il pericolo d’un’immensa sventura che corse l’Olanda verso la metà del secolo passato. Un mollusco, una specie di tarlo, chiamato taret, portato, si crede, da qualche bastimento reduce dai mari tropicali, e moltiplicatosi con meravigliosa rapidità nelle acque del nord, aveva corroso i legnami delle dighe e delle cateratte a tal segno, che per poco fosse continuato quel lavoro di distruzione, gli argini si sarebbero sfasciati e il mare avrebbe sommerso tutto il paese. La scoperta di questo pericolo gettò lo spavento nell’Olanda, il popolo accorse alle chiese, il paese intero si mise all’opera; si rivestirono di rame i battenti delle cateratte, si fortificarono le dighe pericolanti, si difesero le palafitte con chiodi, con pietre, con alghe, con muratura; e in parte con questi mezzi, ma specialmente grazie al rigore del clima che distrusse il terribile animale, la sventura creduta sulle prime irreparabile fu scongiurata. Un verme aveva fatto tremare l’Olanda: arduo trionfo, negato alle tempeste dell’oceano e alle ire di Filippo.
Un altro ornamento preziosissimo di Leida è il Museo Giapponese del dottor Siebold, tedesco di nascita, medico della Colonia olandese dell’isola di Decima; il quale, secondo narra una tradizione romanzesca, ottenne per il primo dall’imperatore del Giappone di entrare in quel misterioso impero, in ricompensa dell’avergli guarito una figliuola; o secondo un’altra tradizione più credibile, entrò in quel paese di nascosto, e non ne uscì che dopo aver scontato il suo ardimento con nove mesi di prigionia, e fatto pagar colla testa ad alcuni mandarini la colpa d’averlo aiutato. Comunque sia, il Museo del dottor Siebold è forse la più bella collezione di quel genere che si trovi in Europa. Un’ora passata in quelle sale è un viaggio nel Giappone. Vi si segue la vita d’una famiglia giapponese per tutto il corso della giornata: dalla toeletta alla mensa, dalle visite allo spettacolo, dalla città alla campagna. Vi si trovan le case, i templi, gl’idoli, gli altari portatili, gli strumenti di musica, gli utensili di casa, gli arnesi dell’agricoltura, i vestiari degli operai e dei pescatori; candelieri di bronzo formati da una cicogna ritta sopra una tartaruga; vasi, gioielli, pugnali lavorati con una delicatezza prodigiosa; uccelli, tigri, conigli, bufali d’avorio riprodotti piuma a piuma, pelo a pelo, colla pazienza propria di quei popoli ingegnosi ed immobili. Fra le cose che mi rimasero più impresse, è una colossale faccia di Budda, che a primo aspetto mi fece dare addietro, e che mi par sempre di vedermi dinanzi, con quella mostruosa contrazione e quell’inesprimibile sguardo tra di riso, di delirio e di spasimo, che desta ad un tempo lo schifo e lo spavento. Dietro questa faccia di Budda vedo ancora le marionette dei teatri di Iava, vere creazioni di cervelli in delirio, su cui l’occhio si stanca e la mente si confonde: re, regine e guerrieri mostruosi, misti d’uomo, di bestia e di pianta, con braccia che finiscono in foglie, gambe che terminano in ornati, fronde che si allargano in mani, petti che vegetano, nasi che sbocciano, visi traforati, occhi strambi, pupille nella nuca, membri rovesciati, ali di draghi, code di sirene, chiome di biscie, bocche di pesci, denti d’elefante, rughe dorate, colli a zig zag, tratteggiamenti, rabeschi coloriti, ghirigori, di cui nessuna lingua può dare un’idea, e che è impossibile ritener nella mente. Uscendo da quel Museo, mi parve di svegliarmi da uno di quei sogni febbrili nei quali si vede qualcosa che non si sa che sia, che si trasforma continuamente, con una rapidità furiosa, in altre cose che non han nome.
Non v’è altro da vedere a Leida. Il mulino in cui nacque il Rembrandt non esiste più. Delle case dove nacquero i pittori Dow, Steen, Metzu, van Goyen e quell’Otto van Veen ch’ebbe l’onore e la disgrazia d’esser maestro di Paolo Rubens, non si conserva alcun ricordo. Si può vedere ancora il castello di Endegeest dove soggiornarono il Boerhaave e il Descartes; questo per parecchi anni, durante i quali scrisse le sue principali opere di filosofia e di matematica. Il castello è posto sulla via che da Leida conduce al villaggio di Katwijk, dove il vecchio Reno, i cui varii rami si riuniscono in un solo uscendo dalla città, mette foce nel mare.
La seconda volta che fui a Leida, volli andar a veder morire questo meraviglioso fiume. Fino dalla prima volta ch’avevo passato il Vecchio Reno, in quella avventurosa passeggiata alle dune, m’ero soffermato sul ponte, domandando a me medesimo se quel piccolo ed umile corso d’acqua era veramente quello stesso fiume che avevo visto precipitare con immenso fragore dalle roccie di Sciaffusa, espandersi maestosamente in faccia a Magonza, passare in trionfo dinanzi alla fortezza di Ehrenbreitstein, sbatter l’onda sonora ai piedi delle Sette montagne; specchiar nella sua corsa cattedrali gotiche, castelli principeschi, colline fiorite, rupi aeree, rovine famose, città, boschi, giardini, per tutto carico di navi, sparso di barche e salutato coi canti e colle musiche; e pensando a queste cose, coll’occhio fisso su quel fiumiciattolo chiuso fra due sponde piane e deserte, avevo ripetuto più volte: — Questo è quel Reno? — Le vicende che accompagnano l’agonia e la morte di questo gran fiume in Olanda, sono tali veramente da destare un senso di pietà come si proverebbe per le sventure e la fine ingloriosa d’un popolo altre volte potente e felice. Fin dalle vicinanze di Emmerich, prima di varcare la frontiera olandese, egli ha perduto ogni bellezza di sponda, e scorre a grandi curve in mezzo a pianure vaste ed uggiose, che sembrano annunziargli la vecchiaia che comincia. A Millingen scorre già interamente nel territorio olandese. Poco più oltre, si divide. Il braccio maggiore perde vergognosamente il suo nome e va a gettarsi nella Mosa; l’altro braccio, insultato col nome di canale di Pannerden, scorre fin presso la città d’Arnehm, dove si biforca un’altra volta. Un braccio, con un nome d’accatto, si va a versare nel golfo di Zuiderzee; l’altro, chiamato ancora per commiserazione il Basso Reno, va fino al villaggio di Durstede, dove si divide per la terza volta: umiliazione ormai vecchia. L’un dei rami, cangiando nome anch’esso come un fuggiasco, va a gettarsi nella Mosa vicino a Rotterdam; l’altro, chiamato ancora Reno, ma col ridicolo soprannome di curvo, giunge faticosamente ad Utrecht, dove per la quarta volta si divide in due: capriccio di vecchio rimbambito. Da una parte, rinnegando il nome antico, si strascina fino a Muiden, dove sbocca nel Zuiderzee; dall’altra, col nome di Vecchio Reno, anzi, per maggior spregio, di Vecchio, va lentamente fino alla città di Leida, della quale attraversa le strade senza dar quasi indizio di movimento, e si riunisce in un sol canale per andar a morire miseramente nel Mare del Nord.
Ma non sono molti anni che nemmeno questa compassionevole fine non gli era concessa. Dall’anno 839, nel quale una furiosa tempesta aveva accumulato alla sua foce dei monti di sabbia, fino al principio di questo secolo, il Vecchio Reno si perdeva nelle sabbie prima di giungere al mare, e copriva di stagni e di paludi un vastissimo tratto di paese. Sotto il regno di Luigi Bonaparte le acque furono raccolte in un grande canale protetto da tre enormi cateratte, e d’allora in poi il Reno va diritto alla foce. Queste cateratte sono il più grandioso monumento dell’Olanda, e forse la più mirabile opera idraulica dell'Europa. Le dighe che proteggono l’imboccatura del canale, i muri, i pilastri, le porte, presentano tutti insieme l’aspetto d’una fortezza ciclopica contro la quale pare che non solo quel mare, ma le forze riunite di tutti i mari dovrebbero spezzarsi come contro una montagna di granito. Quando monta la marea, si chiudono le porte per impedire che il mare invada la terra; quando la marea cala, si riaprono per dar sfogo alle acque del Reno che vi si sono accumulate; e allora passa per le porte una massa di tremila metri cubi d’acqua in un minuto secondo. I giorni di grande tempesta, si fa una concessione al mare, lasciando aperte le porte della cateratta più avanzata; e allora le onde furiose si precipitano nel canale, come un esercito nemico per una breccia; ma vanno a spezzarsi contro le porte formidabili della seconda cateratta, dietro le quali l’Olanda grida loro: — Voi non andrete più oltre! — Quella fortezza enorme che sopra una spiaggia deserta difende dall’Oceano un fiume morente e una città decaduta, ha qualche cosa di solenne, che comanda l’ammirazione e il rispetto.
Rivedo Leida, quale la vidi la sera che tornai dall’escursione, buia e muta come una città abbandonata, e le dò un addio riverente coll’animo già rallegrato dell’immagine della vicina Haarlem, la città dei paesisti e dei fiori.
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