< Olanda
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Helder
Alkmaar Il Zuiderzee

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HELDER.


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La definizione che fu data dell’Olanda «d’una sorta di transazione fra la terra e il mare» non si può riferire a nessuna parte di quel paese più opportunamente che allo spazio interposto fra Alkmaar ed Helder. Si viaggia infatti, andando dall’una all’altra di quelle città, sopra la terra; ma sopra una terra così minacciata, rotta, allagata dal mare, che a guardarla dal vagone, si scorda a poco a poco di essere trasportati da un treno della strada ferrata, e si crede d’essere appoggiati sul parapetto d’un bastimento. Poco lontano da Alkmaar, tra i due villaggi di Kamp e di Petten, dalla parte del Mare del Nord, per un lungo tratto dove si crede che fosse anticamente una delle foci del Reno, la catena delle dune è interrotta, e la costa flagellata furiosamente dal mare che, malgrado le forti opere di difesa che gli si oppongono, s’addentra continuamente nel seno della terra. Un po’ più oltre c’è un ampio polder inondato, a traverso il quale passa il gran canale del Nord. Di là dal polder, intorno al villaggio di Zand, si stende una gran pianura deserta, sparsa di sterpeti, di stagni e d’alcune casupole di contadini coperte di tetti piramidali, che da lontano presentano l’aspetto di monumenti mortuarii. Di là dal villaggio di Zand, un vastissimo polder (chiamato Anna Paulowna, in onore della moglie di Guglielmo II d’Orange, granduchessa di Russia) che fu prosciugato fra il 1847 e il 1850, Dopo il polder, da capo vaste pianure, sterpeti e paludi, fino all’estrema punta della Nord-Olanda, dove sorge, velata dalla nebbia e sferzata dai venti e dalle onde, la giovine e solitaria città di Helder, la sentinella morta dei Paesi Bassi.


Helder ha questa singolarità, che quando vi s’è dentro, si cerca la città e non si trova. È, si può dire, una sola lunghissima strada, fiancheggiata da due schiere di piccole case rosse, e protetta da una diga gigantesca che forma come una spiaggia artificiale sul Mare del Nord. Questa diga, che è una delle più meravigliose opere dei tempi moderni, si stende per la lunghezza di quasi dieci chilometri dal Nieuwediep, dov’è l’entrata del gran canale del Nord, fino al forte il principe Ereditario, che si trova all’estremità opposta della città; è costrutta interamente con massi enormi di granito di Norvegia e di pietra calcare del Belgio; è percorsa sulla sommità da una bella strada carrozzabile; e scende nel mare, coll’inclinazione di quaranta gradi, fino alla profondità di sessanta metri. In vari punti è rafforzata da dighe minori, composte di travi, di fascine e di terra, che s’avanzano per circa duecento metri nel mare. Le più alte maree non arrivano mai a bagnarne la sommità; e l’onda infaticabile si spezza vanamente su quell’immane baluardo che le sorge incontro, quasi più in atto di minaccia, che di difesa, come una sfida della pazienza umana al furore degli elementi.

Il Nieuwdiep che s’apre a una delle estremità di Helder, è un porto artificiale, che protegge con grandi moli e dighe robuste i bastimenti che entrano nel canale del Nord. Le porte del bacino, chiamate porte a ventaglio, le più grandi dell’Olanda, si chiudono da sè stesse per effetto della pressione delle acque. In questo porto sono ancorati un gran numero di bastimenti, dei quali moltissimi provenienti dall’Inghilterra e dalla Svezia; e una buona parte della flotta militare dell’Olanda, composta di fregate e di piccoli vascelli, più puliti ancora delle più pulite case di Broek. Sulla riva sinistra del Nieuwdiep v’è un grande arsenale marittimo, dove risiede un contr’ammiraglio.

Sul finire del secolo scorso, nulla esisteva di tutto questo. Helder non era che un villaggio di pescatori appena segnato sulla carta. L’apertura del gran canale del Nord e una breve passeggiata fatta da Napoleone I in un battello di pescatori da Helder fino all’isola di Texel, che si vede distintamente dall’alto della diga, trasformarono il villaggio in città. Osservando il tratto di mare compreso fra quell'isola e la riva olandese, Napoleone concepì l'idea di fare di Helder «la Gibilterra del Nord» e cominciò coll’ordinare la costruzione di due forti, uno chiamato allora Lasalle, ed ora Principe Ereditario, e l’altro Re di Roma, ora ammiraglio Dirk. Gli avvenimenti non gli permisero di mandare ad effetto il suo grandioso disegno; ma l’opera rapidamente incominciata da lui, fu lentamente proseguita dagli Olandesi a segno che Helder è ora la prima città forte dello Stato, capace di trentamila difensori, atta ad impedire a una flotta l’entrata nel canale del Nord e nel Golfo di Zuiderzee, e oltre che difesa a una grande distanza da un baluardo di scogli e di banchi di sabbia, fortificata in maniera da potere, in casi estremi, inondare tutta la provincia che le si stende alle spalle.

Ma lasciando anche da parte la sua importanza strategica, Helder è una città degna d’esser veduta per il suo carattere anfibio, che lascia sempre dubbiosi d’essere sul continente o sopra un gruppo di scogli e d’isolette mille miglia lontano dalla costa europea. In qualunque verso si cammini, si riesce in vista del mare. La città è attraversata e circondata da canali grandi come fiumi, che gli abitanti passano sulle zattere. Dietro la gran diga v’è una lunga distesa d’acqua stagnante che s’alza e s’abbassa colla marea, come se comunicasse col mare per via sotterranea. Da tutte le parti corre acqua, prigioniera, è vero, in mezzo a due sponde, ma alta e minacciosa, che pare aspetti la prima occasione per riconquistare la sua spaventosa libertà. La terra, intorno alla città, è nuda e desolata, e il cielo, quasi sempre nuvoloso, è attraversato da grandi stormi di uccelli marini. La città stessa, formata da una sola fila di case, pare che abbia coscienza della sua postura arrischiata, e aspetti d’ora in ora una catastrofe. Quando il vento fischia e il mare mugge, si direbbe che ogni buon helderese non abbia a far di meglio che chiudersi in casa, dire le sue orazioni e poi ficcare la testa sotto le lenzuola ed aspettare quello che Dio manda.

La popolazione, che conta diciottomila anime, è altrettanto singolare che la città. È una mescolanza di negozianti, d’impiegati regi, d’ufficiali di marina, di soldati, di pescatori, di gente arrivata dalle Indie, di gente che si dispone a partire, e di parenti di chi arriva e di chi parte, andati là per dare il primo abbraccio o l’ultimo addio; perchè è quello l’estremo angolo di terra olandese che il marinaio saluta partendo, e il primo ch’egli vede al ritorno. Ma essendo la città così lunga e sottile, si vede pochissima gente; e non si sente altro rumore che le cantilene lamentevoli dei marinai che rattristano il cuore come grida di naufraghi lontani.

Benchè giovanissima, Helder è ricca di grandi ricordi storici al pari d’ogni altra città olandese. Essa ha visto il gran pensionario De Vitt attraversare per il primo, in un piccolo battello, lo stretto di Texel, scandagliare colle proprie mani la profondità delle acque, e mostrare ai piloti e ai capitani olandesi, che non volevano avventurarsi a quel passo, la possibilità di far tragittare la flotta mandata a combattere l’Inghilterra. In quelle acque gli ammiragli De Ruyter e Tromp tennero fronte alla flotta francese e alla flotta inglese riunite. Poco lontano di là, nel polder chiamato lo Zyp, l’anno 1799, il generale inglese Abercrombie respingeva l’assalto dell’esercito francese e dell’esercito batavo comandati dal generale Brome. E infine, perchè pare una legge naturale che ogni città olandese debba aver visto qualche cosa di strano e d’incredibile, Helder vide una sorta di battaglia anfibia, tra di terra e di mare, per la quale manca un nome nel linguaggio militare: vide nel 1795 la cavalleria e l’artiglieria leggera del generale Pichegru attraversare di galoppo il golfo gelato di Zuiderzee, slanciarsi verso la flotta olandese imprigionata fra i ghiacci presso l’isola di Texel, e circondatala come una fortezza, intimarle la resa e prenderla prigioniera.

Quest’isola di Texel, che, come dissi, si vede distintamente dall’alto della diga di Helder, è la prima di una catena d’isolette che si stende in forma d’arco dinanzi a tutta l’apertura del Zuiderzee sino alla provincia di Groninga; e che si crede formasse, prima dell’esistenza del gran golfo, una costa continua la quale serviva di baluardo ai Paesi Bassi. In quest’isola di Texel, che non conta più di seimila abitanti, sparsi in parecchi villaggi e in una piccola città, ha una rada nella quale gettan l’áncora i vascelli da guerra e i grandi bastimenti della compagnia delle Indie. Da questa rada partirono sulla fine del secolo decimosesto i bastimenti dell’Heemskerk e del Barendz per il memorabile viaggio che fornì al poeta Tollens il soggetto del suo bel poema L’invernata degli Olandesi alla Nuova Zembla.

Ed ecco in breve quella storia dolorosa e solenne, come fu narrata dal Van Kampen e cantata dal Tollens.

Non potendo ancora gli Olandesi, sulla fine del secolo decimosesto, lottare fronte a fronte cogli Spagnuoli e coi Portoghesi per impadronirsi del commercio delle Indie, pensarono di cercare una nuova via, a traverso i mari artici, per arrivare in minor tempo ai porti dell’Asia orientale e della China. Una società di mercanti olandesi affidò l’impresa avventurosa ad un esperto marinaio di nome Barendz, il quale partì con due bastimenti dall’isola di Texel, il 6 giugno del 1594, alla volta del polo. Il bastimento capitanato da lui arrivò fino alla punta settentrionale della Nuova Zembla, e ritornò in Olanda. L’altro prese la via più conosciuta dello stretto di Waïgatz, si spinse a traverso i ghiacci del golfo di Kara, e giunse in un mare aperto ed azzurro, dal quale scoperse la costa russa rivolta verso il sud-est. La direzione di questa costa fece credere che il bastimento avesse oltrepassato il capo Tabis, designato da Plinio, autorità allora incontestata, come l’estremità dell’Asia settentrionale, e che però si potesse giungere di là, con una breve navigazione, ai porti dell’est e del sud del continente. Non si sapeva che dopo il golfo dell’Obi l’Asia si stende ancora per 120 gradi a levante dentro il cerchio polare. La notizia di questa scoperta, portata in Olanda, vi destò una grandissima gioia. Sei grandi navigli furono immediatamente allestiti e caricati di mercanzie da vendersi ai popoli dell’India, un piccolo bastimento fu destinato ad accompagnare la squadra fin che avesse oltrepassato il supposto capo Tabis, e poi tornare a portarne la notizia; e la squadra partì. Ma questa volta il viaggio non rispose alle speranze. I bastimenti olandesi trovarono lo stretto di Waïgatz tutto ingombro di ghiacci, e dopo aver inutilmente tentato di aprirsi una via, ritornarono in patria.

Dopo questo infelice successo, gli Stati Generali, benchè promettessero un premio di venticinque mila fiorini a chi riuscisse nell’impresa, rifiutarono di concorrere alle spese di un nuovo viaggio; ma i cittadini non si scoraggiarono. La reggenza d’Amsterdam noleggiò due bastimenti, assoldò dei bravi marinai, celibi quasi tutti, perchè il ricordo delle famiglie non infiacchisse, in mezzo ai pericoli, il loro coraggio, e affidò il comando della spedizione al valoroso capitano Heemskerk. I due bastimenti partirono il 18 maggio del 1596. Sull’uno era maestro-piloto il Barendz, dell’altro era patrono un Van de Ryp. Da principio non andaron d’accordo sulla via da prendere; ma poi il Barendz si lasciò persuadere dal Van de Ryp a far vela verso il nord, invece che verso il nord-est; e fecero vela verso il nord. Arrivarono così al 74° grado di latitudine settentrionale, presso una piccola isola, alla quale diedero il nome d’Isola degli Orsi, in memoria d’un combattimento di parecchie ore che dovettero sostenere contro una frotta di quegli animali. Non vedevano intorno a sè che roccie altissime e dirupate che pareva chiudessero il mare da ogni parte. Continuarono a navigare verso il nord. Il 19 giugno scoprirono un paese che chiamarono Spitsbergen per le sue roccie tagliate a picco, e che credettero fosse la Groenlandia; e là videro grandi orsi bianchi, cervi, renne, oche selvatiche, enormi balene e volpi di tutti i colori. Di qui, essendo giunti oramai fra il 76° e l’80° grado di latitudine settentrionale, dovettero rivolgersi al sud e approdare daccapo all’Isola degli Orsi. Il Barendz però non volle più seguire la direzione settentrionale che il Ryp aveva seguita fino allora, e si rivolse al sud-est; il Ryp fece vela verso il nord; e così si divisero.

Il Barendz arrivò il 17 luglio presso la Nuova Zembla, rasentò la costa settentrionale dell’isola e continuò a navigare verso il sud. Allora cominciarono le avversità. Via via che procedevano, gli enormi massi di ghiaccio galleggianti sul mare, divenivano più fitti, si congiungevano in vastissimi strati, si ammontavano in roccie e montagne scoscese ed altissime, in modo che il bastimento si trovò in breve in mezzo a un vero continente di ghiaccio che gli nascose l’orizzonte da tutte le parti. Vedendo che era impossibile di raggiungere la costa orientale dell’Asia, pensarono di tornare indietro; ma era già il 25 d’agosto, tempo in cui l’estate, in quelle regioni, volge alla fine; e non tardarono ad accorgersi che non era più possibile neanche il ritorno. Si trovavano imprigionati fra i ghiacci, smarriti in una solitudine spaventosa, avvolti da un’immensa nebbia, senza disegno, senza speranze, e in procinto d’essere da un momento all’altro urtati e sepolti dalle montagne di ghiaccio che galleggiavano e cozzavano con tremendo strepito intorno alla nave. Non rimaneva loro che una sola via di salute, o piuttosto un mezzo di ritardare la morte: erano vicini alla costa della Nuova Zembla, potevano abbandonare il bastimento e ridursi a passare l’inverno in quell’isola deserta. Era una risoluzione disperata, che non richiedeva meno coraggio che quella di rimanere a bordo; ma almeno portava con sè il moto, la lotta, una nuova forma di pericoli. Dopo qualche esitazione, scesero dal bastimento e approdarono all’isola.

L’isola era disabitata; nessun popolo del nord v’aveva mai posto piede; era tutta un deserto di ghiaccio e di neve, flagellato dalle onde e dai venti, sul quale il sole non gettava che raramente un raggio fuggitivo e senza calore. Nondimeno, i poveri naufraghi mandarono grida di gioia quando vi posero il piede, e s’inginocchiarono nella neve per ringraziare la Provvidenza. Dovettero pensar subito a fabbricarsi una capanna. Nell’isola non v’era un albero; ma per fortuna si trovava là presso una gran quantità di legno galleggiante, che il mare aveva portato dal continente. Si misero all’opera, tornarono al loro bastimento, ne portarono via assi, travi, chiodi, pece, casse, botti; piantarono le travi nel ghiaccio; col ponte fecero il tetto; sospesero al tetto le loro brande; tappezzarono le pareti colle vele; riempirono le fessure colla pece. Ma mentre lavoravano corsero pericoli e soffrirono patimenti inauditi. Il freddo era tale che quando si mettevano un chiodo fra le labbra, subito s’agghiacciava, e per levarlo si laceravano le carni e si empivano la bocca di sangue. Gli orsi bianchi, spinti dalla fame, li assalivano furiosamente in mezzo ai massi di ghiaccio, intorno alla loro capanna, persino nell’interno del bastimento; e li costringevano a interrompere il lavoro per difendere la propria vita. La terra era talmente indurita che bisognava scavarla come pietra viva. Intorno al bastimento l’acqua era gelata a tre tese e mezza di profondità. S’era rappresa la birra dentro le botti e aveva perduto affatto il sapore: e il freddo cresceva di giorno in giorno. Finalmente riuscirono a rendere la loro capanna abitabile e furono al riparo dalla neve e dal vento. Accesero il fuoco e cominciarono a poter dormire qualche ora, quando non erano svegliati dagli urli delle fiere che giravano intorno alla capanna. Alimentavano le lampade col grasso degli orsi che uccidevano a traverso gli spiragli delle pareti, si scaldavano le mani nelle loro viscere sanguinose, si vestivano delle loro pelli e mangiavano carne di volpe, aringhe e biscotti ch’eran loro rimasti delle provvigioni del viaggio. Intanto il freddo cresceva a tal segno che gli orsi non uscivan più dalle loro tane. Gli alimenti e le bevande gelavano persino accanto al fuoco. I poveri marinai si bruciavano le braccia e i piedi senza risentire il menomo calore. Una sera che, per timore di morire di freddo, avevan chiuso ermeticamente la capanna, andarono a un filo dal morire soffocati, e dovettero, per non soccombere, affrontare di nuovo quel freddo tremendo.

A tutte queste calamità se n’aggiunse un’altra. Il giorno quattro di novembre essi aspettarono inutilmente l’aurora; il sole non apparve più; la notte polare era cominciata. Allora quegli uomini di ferro si sentirono mancar l’animo, e il Barendz dovette, dissimulando l’angoscia, spiegare tutta l’eloquenza che potè trarre dal cuore, per impedire che si abbandonassero alla disperazione. Il nutrimento e la legna cominciarono a scarseggiare; i rami d’abete trovati sulla spiaggia erano buttati sul fuoco quasi con rammarico; il lume era alimentato appena tanto da rompere le tenebre. Ciò nonostante, la sera, quando riposavano dalle fatiche della giornata, raccolti intorno al loro piccolo focolare, avevano ancora qualche momento di allegrezza. Il giorno della festa dei Re fecero un piccolo banchetto con vino e paste di farina fritte nell’olio di balena, e tirarono a sorte a chi toccasse la Corona della Nuova Zembla. Altre volte giocavano, raccontavano vecchie storie, facevano brindisi alla gloria di Maurizio d’Orange, parlavano delle loro famiglie. Ogni giorno cantavano i salmi tutti insieme, inginocchiati sul ghiaccio, col viso rivolto verso le stelle. Qualche volta un’aurora boreale squarciava la immensa oscurità da cui erano avvolti; e allora uscivano dalla loro capanna, scorrevano per le rive, festeggiavano con tenera gratitudine quella luce fuggitiva, come una promessa di salvamento.

Giusta i loro computi, il sole doveva ricomparire il giorno 9 di febbraio del 1597. S’erano ingannati: la mattina del 24 gennaio, appunto in uno di quei periodi di tempo ch’erano più che mai scoraggiati e tristi, uno d’essi, svegliandosi, intravvide un chiarore straordinario, gettò un grido, balzò a terra, destò i compagni, uscirono tutti dalla capanna, e videro a levante il cielo rischiarato da una luce viva, la luna smorta, l’aria limpida, le sommità delle roccie e delle montagne di ghiaccio colorate di rosa; l’alba, infine, il sole, la vita, la benedizione di Dio e la speranza di riveder la patria, dopo tre mesi di notte e d’angoscia. Per qualche momento rimasero immobili e silenziosi, e come sopraffatti dalla commozione; poi proruppero in lacrime, s’abbracciarono, sventolarono i loro berretti vellosi, fecero risonare quelle solitudini orrende d’accenti di preghiera e di grida di gioia. Ma fu una breve gioia: si guardarono in viso, ed ebbero spavento e pietà gli uni degli altri. Il freddo, l’insonnia, la fame, i travagli dell’animo, li avevano consunti e trasfigurati in modo che quasi più non si riconoscevano. E i loro patimenti non erano ancora finiti! In quello stesso mese la neve cadde in tanta abbondanza, che la capanna rimase quasi sepolta, e dovettero uscirne ed entrarci per l’apertura del cammino. Col diminuire del freddo, ricomparvero gli orsi, e ricominciarono quindi i pericoli, le notti insonni, i combattimenti feroci. Scemava il loro vigore, e l’animo, per poco risollevato, ricadeva.

Avevano però ancora un filo di speranza. Non eran riusciti ad estrarre dal ghiaccio il loro bastimento, nè quando l’avessero estratto, avrebbero potuto riassettarlo in modo da renderlo servibile; ma avevano trascinato sulla riva una barca e una scialuppa, e a poco a poco, sempre difendendosi dagli orsi che si slanciavano fin sulla soglia della loro capanna, eran venuti a capo di ripararle alla meglio. Con questi due piccoli legni essi contavano di dirigersi verso uno dei piccoli porti della Russia, di rasentare cioè la riva settentrionale della nuova Zembla, costeggiare la Siberia e attraversare il Mar Bianco; di fare, insomma, un viaggio di almeno quattrocento miglia tedesche. In tutto il mese di marzo il tempo variabilissimo li tenne in una continua vicenda di speranze e di disinganni. Più di dieci volte videro il mare sgombro fino alla riva e si apparecchiarono alla partenza; ed altrettante volte una recrudescenza improvvisa di freddo riammontò ghiacci su ghiacci, e chiuse la via da ogni parte. Nel mese d’aprile i ghiacci furono immensi e continui. Nel mese di maggio riebbero il tempo incostante. Nel mese di giugno, finalmente, poterono risolversi a partire. Dopo avere stesa una minuta relazione di tutte le loro avventure, della quale lasciarono una copia nella capanna, la mattina del 14 di giugno, con un bellissimo tempo e il mare aperto da tutte le parti, dopo nove mesi di soggiorno in quella terra funesta, fecero vela verso il continente. Su due barche scoperte, sfiniti da tanti patimenti, andavano a sfidare i venti furiosi, le lunghe pioggie, i freddi mortali, i ghiacci vorticosi di quel mare immenso e terribile nel quale pareva una disperata impresa l’avventurarsi con una flotta. Per lungo tempo, durante il viaggio, ebbero a respingere gli assalti degli orsi marini, soffrire la fame, nutrirsi di uccelli uccisi a sassate e d’ova trovate sulle coste deserte, sperare e disperare, rallegrarsi e piangere, dolersi qualche volta di aver abbandonato la nuova Zembla, invocare la tempesta, desiderare la morte. Sovente dovettero trascinare le loro barche sopra campi di ghiaccio, legarle perchè non le portasse via il vento, stringersi tutti in un gruppo in mezzo alla neve per resistere al freddo, cercarsi nella nebbia fitta, chiamarsi per nome, toccarsi per timore d’essersi perduti e per darsi coraggio gli uni agli altri. Non tutti resistettero a così tremende prove. Qualcuno morì. Il Barendz medesimo, che si era imbarcato infermo, sentì, dopo pochi giorni, che la sua fine s’avvicinava, e lo disse ai compagni. Non cessò però un momento di dirigere la navigazione, e di fare ogni sforzo per abbreviare a quella povera gente il viaggio tremendo di cui egli sapeva di non poter vedere la fine. La vita gli mancò mentre esaminava una carta geografica, il suo braccio cadde irrigidito nell’atto di accennare la terra lontana, e l’ultima sua parola fu un incoraggiamento e un consiglio. Nella baia di San Lorenzo, incontrarono, si può immaginare con qual gioia, una barca russa, che diede loro dei viveri, del vino e del cochlearia, rimedio per lo scorbuto, di cui s’erano ammalati parecchi marinai, i quali subito ne guarirono. Costeggiarono la Siberia, e incontrarono altri legni russi di più in più frequenti, e si provvidero di vivande fresche colle quali ristorarono le loro forze. All’entrata del Mar Bianco, una nebbia densissima divise le due barche, che oltrepassarono però tutt’e due il capo Candnoes, e favorite dal vento, percorsero in trenta ore un spazio di centoventi miglia, in capo al quale si ricongiunsero gettando grida d’allegrezza. Ma una gioia ben maggiore li aspettava a Kilduin. Trovarono là una lettera del Ryp, comandante dell’altro bastimento, partito insieme con loro dall’isola di Texel, il quale annunziava il suo arrivo. Dopo breve tempo la barca e la scialuppa raggiunsero il bastimento a Kola. Era la prima volta che i naufraghi della Nuova Zembla rivedevano la bandiera della patria dopo la partenza dall’isola degli Orsi, e la salutarono con un delirio di gioia. I compagni del Ryp e i compagni del Barendz si precipitarono gli uni nelle braccia degli altri, si raccontarono le vicende corse, piansero gli amici perduti, dimenticarono i patimenti sofferti, e tutti insieme fecero vela verso l’Olanda, dove arrivarono sani e salvi il 29 ottobre del 1597, tre mesi dopo la partenza dalla capanna. Così finì l’ultima impresa tentata dagli Olandesi per aprire una nuova via al commercio colle Indie a traverso i mari del polo. Quasi tre secoli dopo, nel 1870, il capitano d’un bastimento svedese, cacciato dalla tempesta sulla costa della Nuova Zembla, vi ritrovava la carcassa di un naviglio e una capanna con dentro due caldaie, un pendolo, una canna di fucile, una spada, un’accetta, un flauto, una bibbia, alcune casse riempite di utensili e dei brandelli di vestimenta putrefatte. Questi oggetti, riconosciuti dagli Olandesi come appartenenti ai marinai del Barendz e dell’Heemskerke, furono portati in trionfo all’Aja ed esposti come reliquie sacre nel Museo di Marina.


Con tutte queste immagini nella mente, la sera, dall’alto della gran diga di Helder, al lume della luna che ora si nascondeva bruscamente dietro le nuvole, ora si mostrava all’improvviso in tutta la sua luce, io non potevo saziarmi di guardare la riva sabbiosa di quell’isola di Texel e quel gran mare del Nord, che non ha più altri confini da quel lato che i ghiacci eterni del polo; il mare che gli antichi credevano la fine dell’universo: illum usque tantum natura, come dice Tacito; il mare su cui apparirono nei giorni di grande tempesta le forme gigantesche delle divinità germaniche; e spaziando cogli occhi su quel piano immenso e sinistro, non sapevo esprimere altrimenti a me stesso il mio sgomento misterioso, che coll’esclamare di tratto in tratto, a mezza voce: — Barendz!... Barendz! — ed ascoltare io stesso il suono di questo nome, come se lo portasse il vento da una lontananza sterminata.






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