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Il Zuiderzee
Helder Frisia

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IL ZUIDERZEE.


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Mi rimaneva a vedere l’antica Frisia, la ribelle indomata di Roma, la terra delle belle donne, dei grandi cavalli e degl’invitti scivolatori, la più poetica provincia della Neerlandia: e nell’andarvi, avevo modo di soddisfare un altro vivissimo desiderio: quello di attraversare il Zuiderzee, l’ultimo nato dei mari.

Questo grande bacino del Mare del Nord, che bagna cinque provincie e quadra più di settecento chilometri, seicento anni fa non esisteva. La Nord-Olanda toccava la Frisia, e dove ora si stende il golfo, c’era una vasta regione sparsa di laghi di acqua dolce, il maggiore dei quali, il Flevo, rammentato dal Tacito, era separato dal mare da un istmo fertile e popoloso. Se il mare abbia per sola sua forza rotto gli argini naturali di questa regione, o se invece l’abbassamento del suolo dell’Olanda gli abbia lasciata libera l’invasione, non è sicuro. La grande trasformazione si compì a diverse riprese nel corso del secolo decimoterzo. Nel 1205, l’isola di Wieringen, posta all’estremità della Nord-Olanda, faceva ancora parte del continente; nel 1251 n’era già separata. Nelle invasioni posteriori, il mare sommergeva in vari punti l’istmo che separava le sue acque dal lago di Flevo, fin che nel 1282, apertosi un varco a traverso questo baluardo sfracellato, irrompeva nei laghi, invadeva le terre, e a poco a poco allargandosi e procedendo, formava quel vasto golfo che ora si chiama Zuiderzee, o mare del Sud, il quale si addentra col braccio dell’Y fino a Beverwijk e ad Haarlem. Alla formazione di questo golfo si collega una storia varia e confusa di città distrutte e di popoli annegati, col finire della quale ne comincia un’altra di città nuove sorte sulle nuove rive, divenute potenti e famose, e alla loro volta decadute, ed ora ridotte a meschini villaggi, dalle strade erbose e dai porti ingombri di sabbia. Ricordi di sventure immense, tradizioni favolose, terrori fantastici, costumi ed usi antichi e stranissimi, si ritrovano sulle acque e sulle rive di questo mare unico, comparso ieri e già coronato di rovine e condannato a sparire; e basterebbe appena un viaggio d’un mese a osservarne e raccoglierne la parte principale; e però la sola idea di vedere da lontano quelle città decrepite, quelle isole misteriose, quei banchi di sabbia fatali, mi allettava irresistibilmente la fantasia.


Partii da Amsterdam verso la fine di febbraio, con un tempo bellissimo, sur uno dei piroscafi che vanno ad Harlingen. Sapevo che non avrei più riveduto la capitale dell’Olanda. Appoggiato al parapetto di prora, mentre il bastimento si allontanava dal porto, contemplai per l’ultima volta la grande città, cercando d’imprimermi incancellabilmente nella memoria il suo fantastico aspetto. Dopo pochi minuti non vidi più che il contorno nero e dentellato delle sue case, sulle quali s’innalzava ancora la cupola del palazzo reale e una foresta di campanili traforati e luccicanti. Poi la città si abbassò; i campanili si nascosero l’uno dopo l’altro; la punta più alta della cattedrale, soprastata qualche momento alla generale caduta, si sprofondò anch’essa nel mare; e Amsterdam non fu più che un ricordo.

Il bastimento passò in mezzo alle dighe gigantesche che chiudono il golfo dell’Y, e attraversato rapidamente il Pampus, il gran banco di sabbia che per poco non rovinò il commercio di Amsterdam, entrò nel Zuiderzee.

Le rive di questo golfo son tutte praterie, giardini e villaggi, che nell’estate presentano un aspetto incantevole; ma viste dal bastimento e nel mese di febbraio, non appaiono che come una striscia leggera d’un verde smorto che separa il mare dal cielo. La riva della Nord-Olanda è la più bella, e questa costeggia il bastimento.


Appena usciti dal Pampus, si volge a sinistra e si passa a breve distanza dall’isola di Marken.

Marken è famosa tra le isole del Zuiderzee come Broek tra i villaggi della Nord-Olanda; ma con tutta la sua fama e benchè non disti che un’ora di barca dalla costa, sono pochi gli stranieri, e pochissimi gli Olandesi che vanno a visitarla. Così mi disse il capitano del bastimento accennandomi il faro della piccola isola, e soggiunse che, a suo credere, la ragione della cosa era che qualunque straniero arrivi a Marken, sia anche un Olandese, è seguito dai ragazzi, osservato, fatto oggetto dei discorsi di tutti, come un uomo cascato dalla luna. La descrizione dell’isola spiega questa straordinaria curiosità. È un lembo di terra largo mille, lungo tremila metri, che si staccò dal continente nel secolo decimoterzo, e rimase, ed è oggi ancora, nell’indole, nei costumi, nella vita dei suoi abitanti, tale quale era sei secoli sono. Il suolo dell’isola è poco più alto del mare, e circondato da una piccola diga, che non basta a salvarlo dalle inondazioni. Le case sono fabbricate su otto monticciuoli artificiali, e formano altrettante borgate, una delle quali, — quella che ha la chiesa, — è la capitale, e un’altra l’asilo dei morti. Quando il mare supera le dighe, gli spazi tra monte e monte si cangiano in canali, e gli abitanti vanno da una borgata all’altra colle barche. Le case sono di legno, alcune dipinte, altre incatramate; una sola è di pietra, quella del pastore, dinanzi alla quale si stende un piccolo giardino ombreggiato da quattro grandi alberi, che sono i soli dell’isola. Accanto a questa casa, v’è la chiesa, la scuola e l’uffizio municipale. Gli abitanti sono poco più d’un migliaio e vivon tutti della pesca. Fuor che il medico, il pastore e il maestro, tutti sono indigeni; nessun isolano si marita nel continente; nessun continentale si va a stabilire nell’isola. Tutti professano la religione riformata e tutti sanno leggere e scrivere. Nella scuola, che conta più di ducento ragazzi dei due sessi, s’insegna la storia, la geografia e l’aritmetica. La foggia del vestire, che dura inalterata da parecchi secoli, è uguale per tutti, e curiosissima. Gli uomini paiono soldati. Hanno una giacchetta di panno grigio oscuro, ornata di due file di bottoni, che sono per lo più medaglie o monete antiche trasmesse dal padre al figlio. Questa giacchetta entra come una camicia dentro un par di calzoni dello stesso colore, larghissimi intorno alla coscia, e stretti intorno alla gamba, di cui lasciano scoperta quasi tutta la polpa. Un cappello di feltro un berretto di pelo, secondo la stagione; una cravattina rossa, le calze nere, gli zoccoli bianchi o una sorta di scarpe simili a pantofole, completano questo strano costume. Ma è anche più strano il costume delle donne. Portano sul capo un enorme berretto bianco della forma d’una mitra, tutto ornato di trine e di ricami, e legato sotto il mento come un casco. Da questo berretto, che copre completamente le orecchie, escono due lunghe treccie, che dondolano sul seno, e sporge una sorta di visiera di capelli, tagliata in linea retta poco sopra i sopraccigli, la quale nasconde tutta la fronte. La veste si compone d’un busto senza maniche e d’una gonnella di due colori. Il busto è rosso di porpora, coperto di ricami variopinti, che costano anni di lavoro, e che però si trasmettono di madre in figlia per parecchie generazioni. La parte superiore della gonnella è cinerina o azzurra, rigata di nero, e la parte inferiore di color bruno carico. Le braccia sono coperte sin quasi al gomito dalle maniche d’una camiciola bianca strisciata di rosso. Le bambine e i bambini sono vestiti presso a poco nella stessa maniera; le ragazze con qualche differenza dalle donne; i giorni di festa un po’ più riccamente che i giorni di lavoro. Tale è questo costume misto d’orientale, di guerresco, di sacro; e altrettanto strana che il costume è la vita degli abitanti. Gli uomini sono straordinariamente sobri e giungono a un’età molto avanzata. Partono dall’isola, la notte d’ogni domenica, sui loro battelli, passano la settimana pescando nel golfo di Zuiderzee, e ritornano il sabato. Le donne educano i figliuoli, coltivano le terre, fanno i vestiti per tutta la famiglia. Come le donne di tutte le altre parti d’Olanda, amano la pulizia e gli ornamenti, e anche nelle loro capanne si vedono tendine bianche, cristallami, coperte da letto ricamate, specchietti, fiori. La maggior parte muoiono senza aver visto altra terra che la loro piccola isola. Sono poveri, ma non conoscendo alcuno stato migliore del loro, e non avendo nè bisogni, nè desiderii che non possano soddisfare, ignorano la propria povertà. Fra loro non ci sono nè cangiamenti di fortuna, nè distinzioni di ceto. Tutti lavorano, nessuno serve. I soli avvenimenti che svarino la monotonia della loro vita sono le nascite, i matrimoni, le morti, una pesca abbondante, l’arrivo d’uno straniero, il passaggio d’un bastimento, una tempesta marina. Pregano, amano, pescano; tale è la loro vita, e così le generazioni succedono alle generazioni, conservando inalterata, come una sacra eredità, l’innocenza dei costumi e l’ignoranza del mondo.


Oltrepassata l’isola di Marken si vede sulla costa della Nord-Olanda un campanile, un gruppo di case rosse, e qualche vela di bastimento. È Monnickendam, villaggio di tre mila abitanti; altre volte città fiorente, che insieme con Hoorn ed Enckhuisen vinse e prese prigioniero l’ammiraglio spagnuolo Bossu, del quale le toccò per trofeo il collare del Toson d’oro; alle altre due città la spada e la tazza. Dopo Monnickendam, si vede il villaggio di Volendam; dopo Volendam la piccola città d’Edam, da cui ebbe il nome quel formaggio dalla crosta rossa, fama super etera notus.

A questa città si riferisce una leggenda assai curiosa, rappresentata da un vecchio bassorilievo che si vede tuttora sopra una delle sue porte. Parecchi secoli fa, alcune ragazze di Edam, passeggiando sulla spiaggia, videro una donna di strano aspetto che nuotava nel mare e si fermava di tratto in tratto a guardarle con aria di curiosità. La chiamarono, s’avvicinò; le fecero cenno che uscisse dall’acqua, ed essa salì sulla riva. Era una bellissima donna, ignuda nata, e tutta coperta di limo e d’erbe germogliate sulla sua pelle come il musco sulla corteccia degli alberi. Alcuni credono che avesse la coda di pesce; ma un grave cronista olandese che afferma d’aver inteso raccontare il fatto da un testimonio oculare, dice che aveva le gambe come le altre donne. La interrogarono, non capì, e rispose con una voce dolcissima in un linguaggio sconosciuto. La condussero a casa, le raschiarono l’erba di dosso, la vestirono da donna olandese e le insegnarono a filare. Non si sa bene quanto tempo sia rimasta in questo nuovo stato, ma la leggenda dice che quantunque raschiata e vestita, si sentiva trascinata al mare da un istinto prepotente, e che dopo aver tentato invano parecchie volte di ritornare al suo elemento nativo, chè le facevan la guardia con cent’occhi, un giorno finalmente vi riuscì, e nessuno ne ebbe più notizia. Di dov’era venuta? dov’era andata? chi era? Chi lo sa! Il fatto è che sulle coste del Zuiderzee tutti parlano ancora della donna marina di Edam, e che a dire, come qualcuno l’osò, in un crocchio di contadini, che quella donna doveva essere una foca, c’è da buscarsi una presa di impertinente; e trovo che i contadini hanno ragione, perchè non si deve sputar sentenze su ciò che non s’è visto. Edam, ch’era anticamente una città floridissima, di più di venticinquemila abitanti, ha toccato la stessa sorte delle altre città del Zuiderzee, e non è più che un villaggio.

Andando da Edam a Hoorn non si vede quasi la costa, e perciò rivolsi tutta la mia attenzione al mare. Sul golfo del Zuiderzee si può osservare come in un immenso specchio la mobilità meravigliosa del cielo d’Olanda. È il più giovane dei mari d’Europa, e presenta veramente nel suo aspetto tutti i capricci, tutte le inquietudini, tutte le variazioni inaspettate e inesplicabili dell’età giovanile. Quel giorno, come quasi sempre, il cielo era coperto di nuvole che si squarciavano e si riunivano continuamente, in modo che nello spazio d’un’ora si succedevano tutte le variazioni di luce che nei nostri paesi si vedono appena nel corso d’una giornata. A momenti il mare si faceva tutto nero da parere un mare di pece, con una lontana orlatura bianca e luminosa, come una corrente d’argento vivo. Tutt’a un tratto, svaniva il nero, e il golfo diventava per immensi tratti verdissimo, come se si fosse coperto d’erba, e le traccie azzurre dei bastimenti rendendo l’immagine di canali, pareva di vedere galleggiare sulle acque delle praterie olandesi staccate dal continente. Poco dopo, tutto quel bel verde moriva in un giallastro fangoso che dava al golfo l’aspetto d’un pantano denso ed immondo, nel quale dovessero notare degli animali deformi e schifosi. Un momento si vedevano i campanili e i mulini della costa appena come ombre lontane a traverso la nebbia, e si sarebbe detto che in quel punto fosse notte e piovesse. Un momento dopo, i mulini, i campanili, le case parevano vicinissimi e brillavano alla luce del sole come se fossero dorati. Accanto al bastimento, lungo le coste, in mezzo al golfo, era un continuo guizzare e sparire d’ombre, di luci, di colori, d’oscurità notturne e di chiarori meridiani, di minaccie di tempesta e d’aspetti ridenti, da far credere che tutto quel movimento avesse un perchè misterioso, un significato superiore all’intelligenza umana, degli spettatori invisibili, in alto, che lo dovessero capire. Qua e là si vedevano dei battelli colle vele nere che parevano parati a lutto per trasportare dei morti.


Il bastimento passò in vista della città di Hoorn, l’antica capitale della Nord-Olanda, dove si fece nel 1416 la prima grande rete per la pesca dell’aringa e dove nacque quell’intrepido Schouten che oltrepassò per il primo l’estrema punta meridionale dell’America; e poi si rivolse verso Enckhuisen. Su quel tratto di costa che corre fra le due città, si stende una catena di villaggi composti di casette di legno e di mattoni, coi tetti inverniciati e colle porte scolpite, dinanzi alle quali s’innalzano degli alberi col tronco dipinto. Di tutti questi villaggi, dal bastimento non si vedono che i tetti, i quali pare che emergano dall’acqua, o siano essi stessi tante casette prismatiche galleggianti. Il color rosso di questi tetti, qualche punta di campanile, qualche ala di mulino, sono i soli colori e le sole forme che svarino di tratto in tratto la linea della costa uguale e soavissima come il profilo d’un istmo infinitamente sottile. Poco prima di arrivare a Enckhuisen si vede la piccolissima isola d’Urk, che si crede formasse anticamente una sola isola con quella di Schokland, posta a breve distanza dalla foce dell’Yssel. Urk è ancora abitata, ed è l’isola prediletta dalle foche, che la notte svegliano gli abitanti russando; Schokland fu disertata pochi anni sono dagli isolani, che non la potevano più contendere al mare.

Il bastimento si arrestò ad Enckhuisen.

Enckhuisen è la più morta di tutte le città morte del Zuiderzee. Nel sedicesimo secolo conteneva quarantamila abitanti, mandava alla pesca dell’aringa centoquaranta bastimenti, protetti da venti vascelli da guerra, aveva un bellissimo porto, un grande arsenale, dei sontuosi edifizi. Ora il porto è ingombro di sabbia, la sua popolazione ridotta a cinquemila persone, una delle sue antiche porte è a un quarto d’ora di cammino dai primi edifici della città, le sue strade sono coperte d’erba, le sue case abbandonate e cadenti, i suoi abitanti poveri e sparuti. Non le rimane altra gloria che quella d’aver dato la vita a Paolo Potter. Il bastimento si fermò qualche minuto dinanzi a questa larva di città. Sul ponte di sbarco non c’era che qualche marinaio immobile, della città non si vedeva che qualche casa mezzo nascosta dalle dighe, e un alto campanile, che in quel momento sonava con note lente come i rintocchi dell’agonia, l'aria O Matilde, t'amo, è vero, del Guglielmo Tell. La riva era deserta, il porto silenzioso, le case sbarrate, e una gran nuvola nera soprastava alla città come un drappo mortuario che discendesse lentamente per ricoprirla per sempre. Era uno spettacolo che metteva compassione e sgomento.


Lasciata Enckhuisen, il bastimento arrivò in pochi minuti all’imboccatura del Zuiderzee, tra la città di Stavoren, posta nel punto più avanzato della costa di Frisia, e Medemblik, altra città decaduta della Nord-Olanda, che fu capitale del paese prima della fondazione di Hoorn e di Enckhuisen. In quel passo il golfo è poco più largo della metà dello stretto di Calais. Quando si metterà ad effetto la gigantesca impresa del prosciugamento del Zuiderzee, in quel passo si costruirà la diga enorme che dovrà separare il golfo dal Mare del Nord. Questa diga si stenderà da Stavoren a Medemblik, lasciando aperto nel mezzo un grande canale per il movimento delle maree e lo scolo delle acque dell’Yssel e del Vecht; e dietro di essa, il gran golfo sarà a poco a poco trasformato in una fertile pianura, la Nord-Olanda congiunta alla Frisia, tutte le città morte delle coste rianimate d’una vita nuova, distrutte isole, trasformati costumi, confusi linguaggi, creata una provincia, un popolo, un mondo. Questa grande opera costerebbe, giusta le previsioni degli Olandesi, centoventicinque milioni di lire; da molti anni ci si sta studiando e forse tra non molto tempo ci si metterà mano; ma, ahimè! prima ch’ella sia compiuta, noi nati verso la metà del secolo decimonono avremo le braccia in croce, come dice il Praga, e le radici delle viole sul capo.


Appena s’è oltrepassato Medenblik, si vedono sulla riva opposta del Zuiderzee i campanili di Stavoren, la più antica città della Frisia, così chiamata, dicono gli etimologisti, dal dio Stavo che gli antichi Frisoni adoravano. Questa città, che non è più che un piccolo villaggio d’aspetto triste, circondato da grandi bastioni e da paludi, era, al tempo in cui Amsterdam non esisteva ancora, una città grande, bella e popolosa, nella quale risiedevano i re di Frisia e affluivano tutte le mercanzie dell’Oriente e dell’Occidente, così che le avean posto il glorioso nome di Ninive del Zuiderzee. Una strana leggenda, che però è fondata sopra un fatto vero, l’insabbiamento del porto, spiega la prima cagione della sua miserabile decadenza. Gli abitanti, spropositatamente arricchiti col commercio, erano diventati orgogliosi, vani, dissipatori, e spingevano il loro lusso forsennato sino a dorare le balaustrate, i chiavistelli, le porte, i più umili utensili delle loro case. Ciò dispiacque al buon Dio, il quale deliberò di infliggere alla insolente città un castigo solenne, e n’ebbe ben presto l’occasione. Una ricca mercantessa di Stavoren noleggiò un bastimento e lo mandò a Danzica a pigliare un carico di non so che merci preziose. Il capitano del bastimento arrivò a Danzica, ma non riuscì a trovare le merci che la mercantessa desiderava, e per non tornare col bastimento vuoto, lo caricò di grano. Quando rientrò nel porto di Stavoren, la mercantessa, che era là ad aspettarlo, gli domandò: “Che hai portato?” Il capitano rispose umilmente che non aveva portato che del grano. “Del grano!” gridò l’altera mercantessa con un accento di sdegno e di disprezzo. “Gettalo immediatamente nel mare.” Il capitano obbedì, l’ira di Dio traboccò. Nel punto stesso che il grano cadeva nell’acqua, si formava dinanzi al porto un grande banco di sabbia, il quale estinse a poco a poco il commercio della città. Questo banco di sabbia c’è infatti, e si chiama Vrouwensand, ossia sabbia della Dama, ed è un tale impedimento, che anche i più piccoli bastimenti mercantili debbono governarsi con grande prudenza per non darci dentro; nè un gran molo che si costrusse per riparare a questo danno, cangiò punto le sorti della città condannata a morire.


Quando il bastimento partì da Stavoren, tramontava il sole; ma nonostante l’ora e la stagione, il tempo era così mite, che io potei desinare sopra coperta, e ispirato dalla grande idea del prosciugamento del Zuiderzee, prosciugare fino alle sue più oscure profondità una bottiglia di vecchio Bordeaux, senza aver bisogno d’alitarmi neanco una volta sulle punte delle dita. I viaggiatori eran scesi tutti sotto, il mare era quietissimo, il cielo dorato, il Bordeaux squisito, il mio cuore in pace. Intanto mi si spiegava dinanzi agli occhi la riva della Frisia difesa da due ordini di palafitte, sostenute da pezzi enormi di granito, di trachite e di basalto di Germania e di Norvegia, che danno a quel paese l’aspetto d’un immenso campo trincerato. Si passò davanti a Hindelopen, altra città decaduta, che non ha più di un migliaio d’abitanti, e conserva le stravaganti foggio di vestire di molti secoli addietro; si rasentò una serie di piccoli villaggi nascosti, che ci avvertirono della loro presenza alzando di sopra le dighe il dito di ferro dei loro campanili; e s’arrivò finalmente ad Harlingen, — la seconda capitale della Frisia, — ancora illuminata dagli ultimi chiarori del tramonto.



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