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ROTTERDAM.
È difficile raccapezzare qualcosa della città di Rotterdam entrandoci di notte. La carrozza, appena mossa, passò sopra un ponte che risonò cupamente, e mentre credevo d’essere, ed ero infatti, dentro la città, vidi con stupore a destra e a sinistra due file di bastimenti che si perdevano nel buio. Passato il ponte, percorremmo una strada illuminata e piena di gente, e riuscimmo a un altro ponte, in mezzo ad altre file di bastimenti. E così innanzi per un pezzo, da un ponte in una strada, da una strada sur un ponte, e per accrescere la confusione, una luminaria non mai veduta di lampioni agli angoli delle case, di lanterne sui bastimenti, di fanali sui ponti, di lumi alle finestre, di lumicini sotto le case, di riflessi di tutta questa luce sull’acqua. A un tratto la carrozza si fermò, si affollò gente, misi la testa fuori e vidi un ponte in aria. Domandai che c’era, uno sconosciuto mi rispose che passava un bastimento.
Di lì a un minuto, andammo innanzi, vidi di sfuggita un crocicchio di canali e di ponti che formavano come una gran piazza tutta irta di alberi di bastimento e tempestata di punti luminosi, e infine s’infilò una strada e s’arrivò all’albergo.
La prima cosa che feci, entrando nella mia camera, fu di vedere se rispondeva alla gran fama della pulizia olandese. Rispondeva, ed è tanto più da ammirarsi in una camera d’albergo, quasi sempre occupata da gente profana a quello che presso gli Olandesi si potrebbe chiamare il culto della pulizia. La biancheria era candida come la neve, i vetri trasparenti come l’aria, i mobili lucidi come il cristallo, le pareti nitide da non trovarci un punto nero colla lente. Oltre a questo, una paniera per i fogliacci, una tavoletta per accendere i fiammiferi, una lastrina per smorzare i sigari, una scatola per i mozziconi, un vasetto per la cenere, una cassetta per gli sputi, un’assicella per le scarpe; insomma, non un pretesto al mondo per insudiciare checchessia.
Visitata la camera, stesi sul tavolino la pianta di Rotterdam e feci i miei studi preparatorii per il domani.
È una cosa singolare che le grandi città dell’Olanda, benchè sian state fabbricate in un suolo malfermo, e vincendo difficoltà d’ogni specie, hanno tutte una forma straordinariamente regolare. Amsterdam è un semicircolo, l’Aja è un quadrato, Rotterdam è un triangolo equilatero. La base del triangolo è una immensa diga, che difende la città dalla Mosa, chiamata Boompjes, che significa in olandese alberetti, da una fila di piccoli olmi, ora altissimi, che vi furon piantati quando fu costruita. Un’altra gran diga forma un secondo baluardo contro le inondazioni del fiume, che divide in due parti quasi uguali la città, dal mezzo del lato sinistro fino all’angolo opposto. La parte di Rotterdam compresa fra le due dighe è tutta grandi canali, isolette e ponti, ed è la città nuova; quella che si stende di là dalla seconda diga è la città antica. Due grandi canali si stendono lungo gli altri due lati della città fino al vertice, dove si congiungono, e ricevono un fiume che si chiama Rotte, il quale, colla parola dam che significa diga, forma il nome di Rotterdam.
Compiuto così il mio dovere di viaggiatore coscienzioso, usando mille cautele per non offendere nemmeno col fiato la pulizia purissima di quel gioiello di camera, mi abbandonai con una sorta di timidità contadinesca al mio primo letto olandese.
I letti olandesi, parlo di quei degli alberghi, sono ordinariamente corti, larghi, e occupati in buona parte da un grandissimo guanciale pieno di piuma, nel quale s’affonderebbe la testa d’un ciclope; e aggiungo, per dir tutto, che il lume ordinario è una bugia di rame grande come un piatto che potrebbe sostenere una torcia a vento, e regge invece una candelina corta e sottile come il dito mignolo di una spagnuola.
La mattina, appena levato, scesi le scale a precipizio.
Che strade, che case, che città, che confusione di cose nuove per uno straniero: che spettacolo diverso da tutto quel che si vede in tutti gli altri paesi d’Europa!
Vidi prima l’Hoog-Straat, una strada lunghissima e diritta, che corre sulla diga interna della città.
Le case senza intonaco, color di mattone di tutte le sfumature, dal rosso cupo quasi nero, al rosso quasi roseo, la maggior parte non più larghe di due finestre e non più alte di due piani, hanno il muro della facciata che sorpassa e nasconde il tetto, stringendosi in forma di triangolo mozzo, sormontato da un frontone. Di queste facciate a punta, altre s’alzano con due curve, come un lungo collo senza testa; altre son tagliate a scalini, come le case che fanno i bambini coi legnetti; alcune presentano il prospetto d’un padiglione conico, altre di chiesuole di campagna, altre di baracche da palcoscenico. I frontoni sono generalmente contornati di righe bianche, di ornati di cattivo gusto, di grossolani rabeschi in rilievo intonacati; le finestre e le porte, con larghi contorni bianchi; altre righe bianche fra piano e piano; gli spazii tra porta e porta di bottega, rivestiti di legno bianchiccio; così che per tutta la lunghezza delle strade non si vedon che due colori: bianco e rosso scuro, e in lontananza tutte le case paion nere, listate di tela, e presentano un aspetto tra funebre e carnevalesco, che lascia in dubbio se s’abbia da dire che rattrista o che rallegra. Al primo aspetto mi venne da ridere, non parendomi possibile che quelle case fossero state fatte sul serio, e che ci potesse star dentro della gente posata. Avrei detto che passata l’occasione di non so che festa dovessero sparire, come certi edifizi di cartone dopo che si son fatti i fuochi d’artifizio.
Mentre guardavo così vagamente la strada, vidi una casa che mi fece fare un atto di stupore. Credetti d’aver preso abbaglio, la guardai meglio, guardai le case vicine, le raffrontai colla prima e fra di loro, e temetti ancora di aver le traveggole. Svoltai in fretta in una strada laterale e mi parve di vedere la stessa cosa. Infine mi persuasi che veramente non m’ingannavo, e che tutta la città era in quel modo.
Tutta la città di Rotterdam è tal quale sarebbe una città rimasta immobile nel punto che, scossa da un terremoto, stava per cadere in rovina.
Tutte le case — si possono, in una strada, contar le eccezioni sulle dita — pendono, quale più quale meno; ma la maggior parte tanto che, all’altezza del tetto, sporgono innanzi un buon braccio dalla casa vicina, che sia ritta o inclinata appena visibilmente. Ma lo strano è questo, che le case che si toccano le une con le altre, sono inclinate da diverse parti; una pende innanzi, che pare voglia precipitare; l’altra pende indietro; una s’inclina a sinistra, l’altra s’inclina a destra. In alcuni punti sei o sette case contigue pendono tutte innanzi, quelle in mezzo di più, quelle all’estremità di meno, formando così una gran pancia come uno stecconato che s’incurvi sospinto da una folla. In altri punti due case un po’ discoste s’inclinano l’una verso l’altra come si sorreggessero a vicenda. In certe strade, per un lungo tratto, tutte le case pendono dalla stessa parte di fianco, come alberi abbattuti l’un sull’altro dal vento; e poi, per un altro lungo tratto, pendono tutte nella direzione opposta, come un’altra fila d’alberi incurvati da un vento contrario. In alcuni punti vi è una certa regolarità d’inclinazione, che quasi non si avverte; in altri, su certi crocicchi, in certe stradette è uno scompiglio da non poter descrivere, una vera baldoria architettonica, una danza di case, un disordine che sembra animato. Vi son le case che par che caschin innanzi dal sonno, quelle che si rovesciano indietro spaventate, quelle che s’inclinano l’una verso l’altra, quasi fino a toccarsi coi tetti, come per confidarsi di segreti; quelle che si cascano addosso le une alle altre come ubriache; alcune che pendono indietro, in mezzo a due che pendono innanzi, come malfattori strascinati da due guardie; schiere di case che fanno una riverenza a un campanile; gruppi di casette tutte inclinate verso una nel mezzo, che par che congiurino contro qualche palazzo. E dirò poi il segreto della cosa.
Ma nè la forma, nè l’inclinazione son quello che mi parve più curioso in quelle case. Bisogna osservarle attentamente, una per una, dall’alto al basso, e c’è da divertirsi come dinanzi a un quadro.
Sulla sommità della facciata, nel mezzo del frontone, sporge, in alcune case, un tronco di trave inclinato, con una carrucola e una corda per calare e tirar su secchiolini e corbelli. In altre, sporge pure, da un finestrino tondo, una testa di cervo, di montone o di capra. Sotto la testa, v’è un cordone di pietre imbiancate, o una traversa di legno che taglia tutta la facciata. Sotto la traversa, vi son due larghe finestre, sulle quali sporgono due tende in forma di baldacchino ricascanti dai lati. Sotto queste tende, sui vetri più alti, una piccola cortina verde. Sotto la cortina verde, due tendine bianche ed aperte, in mezzo alle quali è sospesa una gabbietta d’uccelli un canestro pieno di fiori che spenzolano. Sotto questo canestro, appoggiata ai vetri, una rete di sottilissimi fili di ferro incorniciata, che impedisce di veder dentro la stanza. Dietro la rete, negli intervalli fra la rete stessa e i muri della finestra, un tavolinetto con su porcellane, cristallame, fiori, ninnoli, figurine. Sulla pietra del davanzale, dalla parte della strada, una fila di piccoli vasi di fiori. Nel mezzo della pietra o da un lato, un ferro sporgente sulla strada, curvo, rivolto in su, che sostiene due specchi uniti in forma d’un libro, mobili, e sormontati da un terzo specchietto, pure mobile; in modo che dall’interno della casa si può vedere, senz’essere visti, tutto quello che segue nella strada. In alcune case, tra finestra e finestra sporge un lampione. Sotto le finestre, la porta di casa o d’una bottega. Se è una bottega, v’è sopra la porta o una testa di moro colla bocca spalancata, o una testa di turco che fa la smorfia: ora un elefante, ora un’oca: dove una testa di cavallo, dove una testa di toro, dove un serpente, dove una mezza luna, dove un mulino a vento, dove un braccio disteso che tiene in mano un oggetto diverso secondo il genere della bottega. Se è la porta di casa, — sempre chiusa, — v’è una lastra di ottone con su scritto il nome dell’inquilino, un’altra lastra con una buca per le lettere, una terza lastra sul muro col pomo del campanello; lastre, chiodi, serrature, tutto luccicante come l’oro. Dinanzi alla porta un ponticino di legno — perchè in molte case il piano terreno è assai più basso della strada; — e dinanzi al ponticino, due colonnette di pietra sormontate da due palle; altre colonnette sul davanti unite con catene di ferro, fatte di grossi anelli in forma di croci, di stelle, di poligoni; nel vuoto tra la strada e la casa, vasi di fiori; sulle finestre del pian terreno, nascoste in quel fosso, altri vasi e tendine. Nelle stradette appartate, poi, gabbie d’uccelli a destra e a sinistra delle finestre, cassette piene di verdura, panni appesi, biancheria distesa, mille colori, mille oggetti che sporgono e che dondolano, da parere una fiera universale.
Ma senza uscire dalla vecchia città, basta allontanarsi dal centro, per vedere a ogni passo qualcosa di nuovo. Andando per certe strade strette e diritte, si vedono tutt’a un tratto chiuse in fondo come da una tenda che nasconde la campagna, e che appena comparsa, sparisce, ed è la vela d’un bastimento che passa per un canale. In altre strade, si vede in fondo una rete di cordami che par tesa fra le due ultime case per impedire il passaggio, e sono cordami di bastimenti fermi in un bacino. In fondo ad altre strade si vede la porta d’un ponte levatoio, sormontata da due lunghe travi parallele che presentano un aspetto bizzarro, come d’una gigantesca altalena destinata a divertimento della gente leggiera, che sta in quelle case stravaganti. In altre strade, si vede in fondo un mulino a vento, alto come un campanile, e nero come una torre antica, che gira le braccia a modo d’una enorme girandola sopra i comignoli delle case vicine. Da tutte le parti infine, fra le case, sopra i tetti, in mezzo agli alberi lontani, si vedono spuntare alberi di bastimenti, bandierine, vele, qualcosa che ricorda che s’è circondati dall’acqua, e che fa immaginare che la città sia fabbricata nel bel mezzo d’un porto.
In questo tempo s’erano aperte le botteghe e popolate le strade.
V’era gran movimento di gente, ma gente affaccendata senza fretta, la qual cosa distingue il movimento delle strade di Rotterdam da quello di certe strade di Londra, che a parecchi viaggiatori parvero somigliantissime fra loro, in specie per il colore delle case e l’aspetto grave degli abitanti. Visi bianchi, visi pallidi, visi color di cacio parmigiano, capelli biondi, biondissimi, rossicci, giallastri, larghi visi sbarbati, barbe intorno al collo, occhi azzurri, chiari tanto da doverci cercar le pupille; donne tarchiate, grasse, rosee, lente, con cuffiette bianche, e orecchini in forma di cavaturaccioli: son le prime cose che osservai nella folla.
Ma la gente non era quello che per il momento stimolasse di più la mia curiosità. Attraversai l’Hoog-Straat, e mi trovai nella città nuova.
Qui non si sa più dire se è una città o un porto, se c’è più terra o più acqua, se c’è più bastimenti più case.
Sono lunghi e larghi canali che dividono la città in tante isole, unite per mezzo di ponti levatoi, di ponti giranti e di ponti di pietra. Dalle due parti di ogni canale si stendono due strade, fiancheggiate ciascuna da una fila d’alberi dalla parte dell’acqua e da una schiera di case dalla parte opposta. Tutti questi canali formano altrettanti porti abbastanza profondi da ricevere i più grandi bastimenti, e ogni canale n’è pieno da un capo all’altro, fuor che in un ristretto spazio nel mezzo che serve per l’entrata e per l’uscita. Par di vedere un’immensa flotta imprigionata in una città.
Quando vi giunsi era l’ora del maggior movimento; e io m’andai a piantare sul ponte più alto del crocicchio principale.
Si vedevano quattro canali, quattro foreste di bastimenti, fiancheggiate da otto file d’alberi; le strade ingombre di mercanzie e di gente; branchi di bestiame che passavan sui ponti; ponti che s’alzavano o si spezzavano per lasciar passare i bastimenti, ed erano appena riabbassati o ricomposti, che v’irrompeva su un’onda di gente, di carrozze e di carretti; bastimenti che entravano o uscivano dai canali, lucenti come modelli da museo, colle donne e i bambini dei marinai sul ponte; barchette che guizzavano fra bastimento e bastimento; un via vai d’avventori nelle botteghe; un gran lavorio di serve che lavavano muri e vetrate; e tutto questo movimento rallegrato dal riflesso dell’acqua, dal verde degli alberi, dal rosso delle case, dai mulini altissimi che disegnavano lontano la loro cima nera e le loro ali bianche sul cielo azzurro; e più ancora, da un’aria non vista mai in alcun’altra città settentrionale, di semplicità e di quiete.
Osservai attentamente un bastimento olandese.
Quasi tutti i bastimenti affollati nei canali di Rotterdam non fanno altri viaggi che sul Reno e in Olanda; hanno un albero solo, e son larghi, robusti, e variopinti come barchette da giocattolo. Il fasciame della carcassa è per lo più color verde d’erba montanina, ornato intorno all’orlo d’una striscia rossissima o bianca, o di parecchie striscie, che paiono una gran fascia di nastri di vario colore. La poppa, per lo più, è dorata. Il tavolato del ponte e l’albero sono inverniciati e lucidi, come il più pulito pavimento di sala. Il rovescio dei coperchi delle botole, le secchie, i barili, le antenne le assicelle, tutto è tinto di rosso, strisciato di bianco o di azzurro. Il casotto dove stan le famiglie dei marinai è anch’esso colorito come un chiosco chinese, e ha i suoi vetri limpidissimi e le sue tendine bianche ricamate e legate con nastri color di rosa. In tutti i ritagli di tempo, marinai, donne e fanciulli sono occupati a lavare, a spazzare, a strofinare da tutte le parti con una cura infinita; e quando poi il loro bastimentino fa la sua uscita dal porto tutto fresco e pomposo come un cocchio di gala, essi ritti sulla poppa cercano con alterezza un muto complimento negli occhi della gente accalcata lungo i canali.
Di canale in canale, di ponte in ponte, arrivai sino alla diga dei Boompjes, dinanzi alla Mosa, dove ferve tutta la vita della grande città commerciale. A sinistra si stende una lunga fila di piccoli piroscafi variopinti, che partono ogni ora del giorno per Dordrecht, per Arnhem, per Gouda, per Schiedam, per Brilla, per la Zelanda, e riempiono continuamente l’aria del suono allegro delle loro campanelle e di nuvoletti bianchi di fumo. A destra ci sono i grandi bastimenti che fanno il viaggio ai vari porti d’Europa, frammisti ai bellissimi navigli a tre alberi che vanno alle Indie orientali, coi nomi scritti a caratteri d’oro: Java, Sumatra, Borneo, Samarang, che ravvicinano alla fantasia quelle terre e quei popoli selvaggi, come un eco di voci lontane. Dinanzi, la Mosa percorsa da un gran numero di barchette e di barconi, e la riva lontana sulla quale s’inalza una foresta di faggi, di mulini a vento, di torri d’officine; e sopra questo spettacolo, un cielo inquieto, pieno di bagliori e di oscurità sinistre, che si agita e si trasforma, come per imitare il movimento operoso della terra.
Rotterdam — cade qui a proposito il dirlo — è, per importanza commerciale la prima città dell’Olanda, dopo Amsterdam. Era già una fiorente città di commercio nel tredicesimo secolo. Ludovico Guicciardini, nella sua opera sui Paesi-Bassi, già rammentata, adduce una prova della ricchezza di quella città nel decimosesto secolo, dicendo che in men d’un anno riedificò novecento case ch’erano state distrutte da un incendio. Il Bentivoglio, nella sua storia della guerra di Fiandra, la chiama terra delle più grosse e più mercantili che abbia l’Olanda. Ma la sua maggior prosperità non comincia che dopo il 1830, ossia dopo la separazione dell’Olanda e del Belgio, che parve fruttare a lei tutto quello che fece perdere alla sua rivale Anversa. La sua situazione è vantaggiosissima. Comunica col mare per la Mosa, che conduce nel suo porto, in poche ore, i più grandi bastimenti mercantili, e per lo stesso fiume comunica col Reno, che le porta dalle montagne della Svizzera e della Baviera una immensa quantità di legname, foreste intere che vanno in Olanda a trasformarsi in navi, in dighe e in villaggi. Più di ottanta bellissimi bastimenti vanno e vengono, nello spazio di nove mesi, tra Rotterdam e le Indie. Le merci vi affluiscono da ogni parte in così grande abbondanza, che debbono essere portate in parte nelle città vicine. Intanto Rotterdam si allarga; vi si stanno costruendo dei vasti magazzini e si lavora intorno a un ponte smisurato che attraverserà la Mosa e tutta la città, stendendo così la strada ferrata che ora s’arresta nella riva sinistra del fiume, sino alla porta di Delft, dove si congiungerà colla strada dell’Aja.
Rotterdam, in somma, ha un avvenire più splendido che Amsterdam, ed è da molto tempo una rivale temuta della sorella maggiore. Non possiede le grandi ricchezze della capitale; ma è più industriosa nel valersi delle sue; intraprende, ardisce, rischia, da città giovane e avventurosa. Amsterdam, come un negoziante divenuto cauto dopo essersi fatto ricco con imprese ardite, comincia a sonnecchiare sui suoi tesori. A Rotterdam, per definire in un tratto le tre grandi città dell’Olanda, si fa fortuna; in Amsterdam, si consolida; all’Aja, si spende.
Si capisce da questo come Rotterdam debba essere guardata un po’ dall’alto in basso dalle altre due città; un po’ considerata come una parvenue, anche per un’altra ragione: che è mercantessa pretta non occupata d’altro che dai suoi affari, e che ha poca aristocrazia, e quella poca non ricchissima e modesta. Amsterdam invece racchiude il fiore dell’alto patriziato mercantile; Amsterdam ha grandi musei di pittura, protegge le arti, è letterata; unisce, in somma, il titolo al sacchetto. Malgrado però la sua superiorità, essa è gelosa della sua sorella cadetta, e questa di lei; gareggiano e si dispettano; quella che fa l’una fa l’altra; quello che il Governo accorda all’una, l’altra lo vuole; in questo stesso momento, aprono tutt’e due un canale verso il mare; due canali dei quali non è ancora ben certo se si potranno servire; ma non monta; i bambini fanno così: — Pietro ha un cavallo; — voglio un cavallo anch’io; e il Governo, babbo condiscendente, deve contentare il grande e il piccino.
Visto il porto, percorsi tutta la diga dei Boompjes, sulla quale si stende una schiera non interrotta di grandi case nuove, costrutte all’uso di Parigi e di Londra, — case che, come da per tutto, gli abitanti ammirano e lo straniero non guarda, o guarda con dispetto; — poi tornai indietro, rientrai in città, e di canale in canale, di ponte in ponte, riuscii nell’angolo formato dall’Hoog-Straat con uno dei due canali lunghissimi che chiudono la città ad oriente.
Quella è la parte più povera della città.
Entrai nella prima strada che vidi e feci parecchi giri in quel quartiere, per veder da vicino come sta la gente bassa nelle città olandesi. Le strade sono strettissime e le case più piccine e più sbilenche che in ogni altra parte; di molte si può toccare il tetto colle mani; le finestre sono a poco più d’un palmo da terra; le porte basse da doversi chinare per entrarci. Malgrado ciò, non v’è la menoma apparenza di miseria. Anche là le finestre hanno i loro specchietti — le spie, come si dicono in olandese, — i loro vasi di fiori sul davanzale, difesi da cancellatine verdi; le loro tendine bianche; gli usci tinti di verde o di azzurro; tutto spalancato, in modo che si vedon le camere da letto, le cucine, tutti i recessi della casa, stanzette che paiono scatole, dove la roba è ammontata come in botteghe da rigattieri; ma rami, stoviglie, mobili, tutto pulito e luccicante come in case di signori. Passando per quelle strade non si trova ombra di sudiciume da nessuna parte, non si sente un cattivo odore, non si vede nè un cencio nè una mano tesa per chiedere: si respira la pulizia e il benessere, e si pensa con vergogna ai luridi quartieri dove formicola il basso popolo in molte delle nostre città, ed anco non nostre, non esclusa Parigi, che ha pure la sua strada Mouffetard.
Tornando verso l’albergo, passai per la piazza del gran mercato, posta nel bel mezzo della città, e non meno strana di tutto quello che la circonda.
È una piazza sospesa sull’acqua; nello stesso punto piazza e ponte; un ponte larghissimo che congiunge la diga principale, — l’Hoog-Straat, — con un quartiere della città, circondato da canali. Questa piazza aerea è cinta di vecchi edifizi su tre dei suoi lati, sull’uno dei quali s’apre una strada lunga, stretta ed oscura, occupata tutt’intera da un canale che pare una strada di Venezia; ed è aperta dal quarto lato sur una specie di bacino formato dal canale più largo della città, che comunica direttamente colla Mosa. Su questa piazza s’innalza, circondata da baracche e da carretti, in mezzo a mucchi di legumi, d’aranci, di tegami, fra una folla di rivendugliole e di merciaiuoli, dentro una cancellata coperta di stuoie e di cenci, la statua di Desiderius Erasmus, la prima gloria letteraria di Rotterdam; quel Gerrit Gerritz, — poiché il nome latino, a somiglianza di tutti gli altri grandi scrittori del suo tempo, se l’era posto egli medesimo; — quel Gerrit Gerritz appartenente, per la sua educazione, il suo stile e le sue idee, alla famiglia degli umanisti e degli eruditi d’Italia, scrittore fine, profondo e infaticabile di lettere e di scienze, che riempì del suo nome l’Europa fra il decimoquinto e il decimosesto secolo, che fu colmato di favori dai papi, cercato, festeggiato dai principi; e delle cui innumerevoli opere, scritte tutte in latino, si legge ancora l’Elogio della pazzia, dedicato a Tommaso Moro. Quella statua di bronzo, innalzata nel 1622, rappresenta Erasmo vestito d’una pelliccia, con un berretto di pelo, un po’ inclinato innanzi come uno che cammina, con un grosso libro aperto in mano, nell’atto di leggere; e il piedestallo porta una doppia iscrizione olandese e latina che lo chiama vir sæculi sui primarius e civis omnium præstantissimus. E malgrado questo pomposo elogio, il povero Erasmo, piantato là come una guardia municipale in mezzo al mercato, fa compassione. Non v’è, io credo, sulla faccia della terra un’altra statua di letterato che sia come la sua trascurata da chi passa, disprezzata da chi la circonda, commiserata da chi la guarda. Ma chi sa che Erasmo, da quell’arguto filosofo che fu e che dev’essere ancora, non si contenti di quel cantuccio, tanto più che non è lontano da casa sua, se la tradizione non tradisce. In una stradetta vicino alla piazza, nel muro d’una piccola casa occupata da una taverna, si vede dentro una nicchia una statuetta di bronzo che rappresenta il grande scrittore, e sotto la nicchia l’iscrizione Hæec est parva domus magnus qua natus Erasmus; che forse otto su dieci Rotterdamesi non hanno mai letta nè vista.
In un angolo di quella stessa piazza, v’è una piccola casa chiamata la casa della paura, sopra un muro della quale si vede un’antica pittura di cui non ricordo il soggetto. Il nome di casa della paura le fu posto, stando alla tradizione, perchè i più cospicui personaggi vi si ricoverarono quando gli Spagnuoli diedero il sacco alla città, e vi rimasero chiusi tre giorni interi senza mangiare. E non è quella la sola memoria degli Spagnuoli che si conservi a Rotterdam. Molti edifizi, costrutti al tempo della loro dominazione, rammentano la maniera d’architettura che s’usava allora nella Spagna; e parecchi portano ancora iscrizioni spagnuole. Nelle città d’Olanda le iscrizioni sulle case sono molto comuni. Le case si gloriano della loro vecchiezza come le bottiglie di vino, e mostrano la data della loro costruzione scritta in grandi caratteri nel mezzo della facciata.
Sulla piazza del mercato potei osservare con tutto comodo gli orecchini delle donne, i quali sono una cosa da meritare che se ne parli minutamente.
A Rotterdam non vidi che gli orecchini in uso nell’Olanda meridionale; ma anche solo in questa provincia, la varietà è grandissima. Si somigliano però tutti in questo, che invece di essere appesi all’orecchio, sono appesi alle due estremità d’un cerchio metallico, d’oro o d’argento o di rame dorato, che cinge la testa come un mezzo diadema, e viene a terminare sulle tempie. Gli orecchini più comuni hanno la forma d’una spirale a cinque o sei giri, sovente larghissimi, e sono attaccati in modo alle due estremità del cerchio, che sporgono innanzi al viso come le gambe di un paio d’occhiali. Molte donne portano ancora appesi a queste spirali due orecchini della forma ordinaria, ma più grandi, i quali scendono quasi fino a toccare il seno e dondolano dinanzi alle guance come le gingioliere dei bovi. Altre hanno il cerchio d’oro che cinge anche la fronte ed è cesellato, ornato di fiorami in rilievo, di borchiette, di bottoni. Quasi tutte portano i capelli lisci e compressi, e una cuffia bianca ricamata od ornata di trina che copre e stringe la testa come una cuffia da notte e scende in forma di velo pure trinato e ricamato intorno al collo e sulle spalle. Questo velo svolazzante all’uso arabo e quegli orecchini spropositati e stravaganti, dànno a queste donne un aspetto tra regale e barbaresco, che, se non fossero bianche come sono, le farebbe pigliare per donne di qualche paese selvaggio, che avessero conservato del loro costume nativo l’ornamento del capo. Non mi meraviglio che certi viaggiatori, al vedere per la prima volta quegli orecchini, abbiano creduto che fossero ad un tempo un ornamento e uno strumento, e abbiano chiesto a che cosa servissero. Ma si può anche supporre che siano fatti così per un altro scopo: che servano cioè come armi di difesa al pudore femminile, perchè un impertinente che avvicinasse troppo il viso, incontrerebbe quell’impedimento almeno quattro dita prima di giungere a toccare la guancia. Questi orecchini, portati particolarmente dalle donne del contado, son quasi tutti d’oro e costano, grandi come sono e poi col cerchio e gli altri accessorii, una bella somma; ma dei contadini olandesi vidi ben altre ricchezze nelle mie passeggiate in campagna.
Vicino alla piazza del mercato v’è la Cattedrale, fondata verso la fine del decimoquinto secolo, al tempo della decadenza dell’architettura ogivale: allora chiesa cattolica, dedicata a san Lorenzo, ora la prima chiesa protestante della città. Il protestantesimo, vandalo della religione, entrò nella chiesa antica col piccone e col pennello dell’imbianchino, ruppe, scrostò, sdorò, intonacò, lacerò con pedantesco fanatismo tutto quello che vi rinvenne di bello e di splendido, e la ridusse un edifizio nudo, bianco, freddo, quale avrebbe dovuto essere, al tempo degli Dei falsi e bugiardi, un tempio consacrato alla Dea della Noia. Un organo immenso, composto di quasi cinquemila canne, che rende, fra gli altri suoni, l’effetto dell’eco; alcune tombe d’ammiragli ornate di lunghi epitaffi olandesi e latini; molti banchi, qualche ragazzo col cappello in capo, un gruppo di donne che chiacchieravano ad alta voce, un vecchietto col sigaro in bocca in un canto: non vidi altro. Quella era la prima chiesa protestante in cui mettevo il piede e confesso che mi fece un senso sgradevole, misto un po’ di tristezza e di scandalo. Confrontai quell’aspetto di chiesa devastata colle magnifiche cattedrali d’Italia e di Spagna, dove sulle pareti rischiarate d’una luce soave e misteriosa, a traverso le nuvole d’incenso, s’incontrano gli sguardi amorosi degli angioli e delle sante, che ci mostrano il cielo; dove si vedono tante immagini d’innocenza che rasserenano, tante immagini di dolore che aiutano a soffrire, che ispirano la rassegnazione, la pace, la dolcezza del perdono; dove il povero senza tetto e senza pane, respinto dalla porta del ricco, può pregare fra i marmi e gli ori, come in una reggia, nella quale non è disdegnato, fra uno splendore e una pompa che non lo umilia, che anzi onora e conforta la sua miseria; quelle cattedrali, in fine, dove c’inginocchiammo da fanciulli accanto a nostra madre, e sentimmo per la prima volta una dolce sicurezza di riviver un giorno con lei in quei profondi spazi azzurri che vedevamo dipinti nelle cupole sospese sul nostro capo. Confrontando quella chiesa con queste cattedrali, mi accorsi ch’ero assai più cattolico che non credessi, e sentii la verità di quelle parole del Castelar: — Ebbene, sì, sono razionalista; ma se un giorno dovessi tornare in seno ad una religione, tornerei a quella splendida dei miei padri, e non a codesta religione squallida e nuda, che rattrista i miei occhi e il mio cuore!
Dall’alto della torre si vede con un colpo d’occhio tutta la città di Rotterdam coi suoi piccoli tetti rossi ed acuti, i suoi larghi canali, i suoi bastimenti sparpagliati fra le case, e tutt’intorno alla città, una pianura sconfinata e verdissima, percorsa da canali fiancheggiati d’alberi, sparsa di mulini a vento, di villaggi nascosti in mezzo a mucchi di verzura, che non mostrano che la punta dei loro campanili. In quel momento il cielo era sereno, si vedevano luccicare le acque della Mosa dalle vicinanze di Bois-le-Duc fino quasi alla sua foce; si scorgevano i campanili di Dordrecht, di Leida, di Delft, dell’Aja, di Gouda; ma da nessuna parte, né vicino né lontano, una collina, un rialto di terra, una curva che interrompesse la linea diritta rigidissima dell’orizzonte. Era come un mare verde ed immobile, sul quale i campanili rappresentavano alberi di bastimenti ancorati. L’occhio spaziava su quell'immenso piano quasi riposandosi, ed io provavo per la prima volta quel sentimento indefinibile che ispira la campagna olandese, che non è tristezza, nè piacere, nè noia, ma un misto di tutte e tre queste cose, che ci tien là molto tempo immobili, senza saper che cosa si guarda e a che cosa si pensa.
Tutt’a un tratto fui scosso da una musica bizzarra che non capii subito di dove venisse. Erano campane che suonavano un’arietta allegra con note argentine, le quali ora scoccavano lente che pareva si staccassero a fatica l’una dall’altra, ora prorompevano in gruppi, in fioriture strane, in trilli, in scoppi sonori; una musica saltellante e piena di ghiribizzi, che aveva qualcosa di primitivo come la città variopinta, sulla quale si spandevan le sue note a guisa d’uno stormo d’uccelli; e anzi consuonava così al carattere della città, che pareva la sua voce naturale, un’eco della vita antica di quella gente, che faceva pensare al mare, alla solitudine, alle capanne, e nello stesso tempo destava il riso e toccava il cuore. All’improvviso la musica cessò e sonarono le ore. In quello stesso punto altri campanili lanciavano nell’aria altre ariette delle quali mi arrivavano appena all’orecchio le note più acute, e finite le ariette, suonavan le ore come il primo. Questo concerto aereo, come seppi poi, e me ne fu spiegato il meccanismo, si ripete ad ogni ora del giorno e della notte, in tutti i campanili dell’Olanda; e sono arie di canzoni nazionali, di salmi, d’opere italiane e tedesche. Così in Olanda l’ora canta, come per distrarre la mente dal pensiero triste del tempo che fugge, e canta la patria, la religione e l’amore, con un’armonia che sorvola a tutti i rumori della terra.
Ora, per continuare a dire per ordine quello che vidi e quello che feci, devo condurre chi legge in un caffè e pregarlo d’assistere al mio primo desinare olandese.
Gli Olandesi mangiano molto. Il maggior piacere che si pigli da loro, come dice il cardinale Bentivoglio, è fra i conviti e le tavole. Ma non sono golosi, son voraci; tirano alla quantità più che alla qualità. Fin dai tempi antichi, erano canzonati dai loro vicini, non soltanto per la ruvidezza dei loro costumi, ma per la semplicità del loro nutrimento: si chiamavano mangiatori di latte e di formaggio. Mangiano generalmente cinque volte al giorno. Di levata, tè, caffè, latte, pane, cacio, burro; poco prima di mezzogiorno una buona colezione; prima di pranzo, quello che si direbbe uno spuntino, cioè un bicchier di liquore e qualche biscotto; poi un gran pranzo; e la sera tardi il pusigno, per usare la parola propria, ossia qualche cosuccia, tanto per non andare a letto collo stomaco ozioso. Mangiano poi in comune in molte occasioni non parlo di nascite e di matrimoni, che è uso di tutti i paesi; ma, per esempio, di sepolture: usando che gli amici e i conoscenti che hanno accompagnato il convoglio funebre, riconducano la famiglia del defunto a casa, e là siano invitati a mangiare e a bere, e facciano per solito molto onore ai loro ospiti. La pittura olandese, quando non ci fosse altra testimonianza, è là per provarci la parte principalissima che ebbe sempre la tavola nella vita di quel popolo. Oltre gl’infiniti quadri di soggetti casalinghi, nei quali si direbbe che il piatto e la bottiglia sono i protagonisti, quasi tutti i grandi quadri che rappresentano personaggi storici, borgomastri, guardie civiche, li mostrano seduti a tavola in atto di mordere, di tagliare, di mescere. Persino il loro eroe, Guglielmo il Taciturno, l’incarnazione della nuova Olanda, incarnò pure quest’amor nazionale della tavola, ed ebbe il primo cuoco dei suoi tempi; un così grande artista che i principi tedeschi mandavano dei principianti a perfezionarsi alla sua scuola, e Filippo II, in uno di quei periodi d’apparente riconciliazione col suo mortale nemico, glielo chiese in regalo.
Ma, come dissi, il carattere principale della cucina olandese è l’abbondanza, non la raffinatezza. I Francesi, che sono buongustai, ci trovano molto a ridire. Mi ricordo d’uno scrittore di certe Mémoires sur la Hollande, che inveisce con impeto lirico contro il mangiare degli Olandesi, dicendo: — Cos’è questo mangiar zuppe alla birra? questo mescolar carne e confetti? questo divorar tanta carne senza pane? — Altri scrittori di libri sull’Olanda hanno parlato dei loro desinari in quel paese, come di sventure domestiche. È superfluo il dire che son tutte esagerazioni. Alla cucina olandese si può abituare in poco tempo anche una bocca ultradelicata. Il fondo del desinare è sempre un piatto di carne, col quale si servono altri quattro o cinque piatti di salumi e di legumi, che ognuno mescola e combina a modo suo col piatto principale. Le carni sono squisite e i legumi squisitissimi, e cucinati in mille maniere diverse: degni di menzione particolare la patate e i cavoli, e ammirabile l’arte di far le frittate. Non parlo della caccia, dei pesci, dei latticini, del burro, perchè ne parla la fama; e taccio, per non lasciarmi vincere dall’entusiasmo, di quel celebrato formaggio, nel quale, quando s’è fatto tanto di ficcare il coltello, si continua a infierire con una sorta di furore crescente, menando fendenti e puntate, e abbandonandosi a ogni specie di lavori d’intaglio e di scavo, finchè è vuota la forma, e il desiderio aleggia ancora sulle rovine.
Uno straniero che desina per la prima volta in una trattoria olandese vede parecchie novità. Prima d’ogni cosa, dei piatti d’una grandezza e d’uno spessore straordinarii, proporzionati all’appetito nazionale; e in molti luoghi, una salvietta di carta bianca sottilissima, piegata a tre punte, contornata di fiori a stampa, con un piccolo paesaggio agli angoli, e il nome del caffè o della trattoria o un Bon appetit stampato in grandi caratteri azzurri. Lo straniero, per essere sicuro del fatto suo, ordina un rosbiffe, e gliene portano una mezza dozzina di fette grandi come una foglia di cavolo; o una bistecca, e gli portano un cuscinetto di carne sanguinosa che basterebbe a saziare una famiglia; o del pesce, e gli portano un animale lungo come la tavola; e con ciascuna di queste cose, una montagnola di patate bollite e un vasettino di mostarda vigorosa. Di pane, una fettina un po’ più grande di uno scudo, e sottile come una cartilagine; cosa spiacevole per noi latini, che divoriamo il pane come accattoni; così che in una trattoria olandese ci tocca a domandarne ogni momento, con grande stupore dei camerieri. Con uno di quei tre piatti, e un bicchier di birra di Baviera o di birra d’Amsterdam, un galantuomo può dire di aver desinato. Di vino, chi per poco abbia il granchio alla borsa, in Olanda non se ne discorre, perchè è caro assaettato; ma siccome là le borse son gonfie, così quasi tutti gli Olandesi dal mezzo ceto in su, ne bevono; e ci son certo pochi paesi dove si trovi la varietà e l’abbondanza di vini stranieri che si trova in Olanda: francesi e del Reno particolarmente.
Chi, dopo desinare, vuol dei liquori, in Olanda trova il fatto suo. Non c’è bisogno di dire che i liquori olandesi sono famosi nel mondo, e che è famosissimo per tutti il schiedam, estratto di ginepro, così chiamato dalla piccola città di Schiedam, distante poche miglia da Rotterdam, nella quale si trovano più di duecento fabbriche; e per dare un’idea del lavoro che vi si fa, basta dire che colla feccia della materia distillata, si nutriscono anno per anno trentamila bestie suine. Questo schiedam famoso, la prima volta che si assaggia, fa giurare e spergiurare che non se ne beverà più una goccia se si campasse cent’anni; ma chi ne ha bevuto, come dice il proverbio francese, ne beverà; e si comincia a provarlo con un mucchio di zucchero; e poi con un po’ meno; e poi senza, finchè, horribile dictu, col pretesto dell’umidità e della nebbia, se ne tracannano due bicchierini con una disinvoltura da marinai. Vien dopo per ordine di nobiltà il curaçò, liquore fine, femmineo, men vigoroso dello schiedam, ma assai più di quel dolciume nauseabondo che si spaccia in altri paesi colla raccomandazione del suo nome. Dopo il curaçò altri moltissimi, di tutte le gradazioni di forza e di sapore, coi quali un bevitore esperto si può dare, a sua fantasia, tutte le sfumature dell’ebbrezza; l’ebbrezza gentile, la forte, la chiassosa, la cupa — e disporre in modo il suo cervello da vedere il mondo nell’aspetto che convien meglio al suo umore, come si farebbe con uno strumento ottico, cambiando il colore delle lenti.
La prima volta che si desina in Olanda c’è una sorpresa curiosa al momento di pagare lo scotto. Io avevo fatto un desinare scarso per un batavo, ma per un italiano, abbondantino, e con quel che sapevo del gran caro d’ogni cosa in Olanda, m’aspettavo una di quelle sonate, alle quali, come dice Teofilo Gauthier, la sola risposta ragionevole da darsi è una pistolettata. Fui dunque gratamente meravigliato quando il cameriere mi disse che dovevo pagare quarante sous, e siccome nelle città grandi dell’Olanda tutte le monete corrono, misi sulla tavola quaranta soldi in argento francese, e aspettai, per dar tempo all’amico di ravvedersi, nel caso che si fosse ingannato. Ma l’amico guardò quel denaro senza alcun segno di ravvedimento, e disse con la più gran serietà: — Ancora altri quaranta soldi. — Scattai sulla seggiola domandando una spiegazione; e la spiegazione, ahimè, fu semplicissima. L’unità monetaria, in Olanda, è il fiorino, che corrisponde a due lire nostre e quattro centesimi; per il che il centesimo e il soldo olandesi corrispondono a qualcosa di più del doppio del centesimo e del soldo nostro; onde l’inganno e il disinganno.
Rotterdam, la sera, presenta un aspetto impreveduto a uno straniero. Mentre nelle altre città settentrionali a una cert’ora la vita si raccoglie nelle case, a Rotterdam, a quella stess’ora, si espande nelle strade. L’Hoog-Straat è percorsa fino a notte avanzata da una folla fittissima, le botteghe sono aperte, — perchè le serve vanno a far la spesa la sera; — i caffè sono affollati. I caffè olandesi hanno una forma particolare. Son per lo più una sala unica, lunga, divisa per mezzo da una tenda verde, che s’abbassa verso sera e nasconde, come un telone da teatro, tutta la parte di dietro, la quale è la sola illuminata; la parte davanti, separata dalla strada da una grande vetrata, rimane al buio, in maniera che dal di fuori non vi si vede che delle forme nere, e un luccichío di punte di sigari che paion lucciole; e tra quelle forme nere, qualche profilo vago di donna, a cui non conviene la luce.
Dopo i caffè, dan nell’occhio, come a Rotterdam in tutte le città d’Olanda, le botteghe dei tabaccai. Ce n’è una, si può dire, a ogni passo; e sono senza paragone le più belle d’Europa; non escluse le grandi botteghe di tabacchi d’Avana di Madrid. I sigari sono chiusi in scatole di legno, su ciascuna delle quali è attaccato un ritratto a stampa del re e della regina, o di qualche illustre cittadino olandese; e tutte queste scatole sono ammontate nelle vetrine altissime, in mille forme architettoniche, come di torri, di campanili, di tempietti, di scale a chiocciola, che s’inalzano da terra fin quasi al soffitto. In queste botteghe, risplendenti di fiammelle come botteghe di Parigi, si trovan sigari di tutte le forme e di tutti i sapori; e il tabaccaio cortese ve li porge in una apposita busta di carta velina, dopo averne spuntato uno con una macchinetta.
Le botteghe olandesi sono illuminate sfarzosamente; e benchè non presentino per sè stesse alcuna differenza da quelle delle altre grandi città europee, offrono però un aspetto particolare, di notte, per il contrasto che ne riesce fra il pian terreno e la parte superiore delle case. Sotto è tutto vetri, lumi, colori, splendori; sopra son quelle facciate cupe, con quelle punte, con quegli scalini, con quelle curve; la parte superiore della casa è la vecchia Olanda, semplice, buia e silenziosa; il pian terreno è la vita nuova, la moda, il lusso, l’eleganza. Oltre a questo, siccome le botteghe, essendo tutte le case strettissime, occupano l’intero piano terreno, e sono per lo più tanto fitte che si toccano le une le altre, così di notte nelle strade come l’Hoog-Straat, non si vede quasi punto muro dal primo piano in giù, e sembra che le case sian tutte sorrette dalle vetrine, e le vetrine si confondono tutte da lontano in due larghe striscie fiammeggianti che fiancheggiano la strada come due siepi accese e l’inondano di luce, in modo che vi si troverebbe uno spillo.
Passeggiando per le strade di Rotterdam, la sera, si vede che è una città riboccante di vita, che si espande; una città, sto per dire, adolescente, nel periodo della crescenza, la quale, come una persona nei suoi panni, si sente d’anno in anno più allo stretto nelle sue case e nelle sue strade. I suoi centoquattordici mila abitanti saranno forse duecentomila in un avvenire non lontano. Le strade secondarie sono formicai di bimbi; ce n’è un ripieno, un ribocco, che rallegra gli occhi ed il cuore. Per le vie di Rotterdam spira un non so che aria di festa. Quei visotti bianchi e rossi delle serve, di cui si vedono spuntare da tutte le parti le cuffiette bianche, quei faccioni sereni di negozianti che sorbiscono lentamente dei grandi bicchieri di birra, quelle contadine coi grossi orecchini d’oro, quella pulizia, quei fiori alle finestre, quella folla operosa e tranquilla, danno a Rotterdam un aspetto di salute e di pace contenta, che fa venir sulle labbra il Te beata dei Sepolcri, non col grido dell’entusiasmo, ma col sorriso della simpatia.
Rientrando all’albergo, vidi tutt’una famiglia francese ferma in un corridoio ad ammirare i chiodi d’una porta che parevan tanti bottoni d’argento.
La mattina seguente appena levato, mi affacciai alla finestra, ch’era al secondo piano, e vedendo i tetti delle case dirimpetto, riconobbi, con meraviglia, che il Bismark era da scusarsi se aveva creduto di veder dei fantasmi sui tetti delle case di Rotterdam. Sulle rocche di cammino, in fatti, di tutte le case antiche, s’alzano dei tubi curvi o diritti, sovrapposti di traverso gli uni agli altri, incrociati e ricrociati in forma di braccia aperte, di forche, di corna smisurate, di atteggiamenti impossibili, da far pensare che abbiano un significato, che sian come un richiamo misterioso da casa a casa, e che di notte si debbano muovere con uno scopo.
Scesi nell’Hoog-Straat, era giorno di festa, si vedevano le poche botteghe aperte; ma nemmen quelle poche, mi dissero gli stessi Olandesi, si sarebbero viste non molti anni fa: l’osservanza del precetto religioso, ch’era rigorosissima, si comincia a rilassare. Vidi piuttosto un segno di festa nel vestire della gente, e specialmente degli uomini. Gli uomini, soprattutto delle classi inferiori (e osservai questo anche nelle altre città) hanno una manifesta simpatia per gli abiti neri, e li sfoggiano per lo più la domenica: cravatta nera, calzoni neri e certe palandrane nere che toccan quasi il ginocchio; costume che coll’andatura lenta e il viso grave, dà loro un’aria di sindaci di villaggio che vadano ad assistere a un Te Deum ufficiale.
Ma quello che mi stupì fu di vedere, a quell’ora, quasi tutte le persone che incontravo, signori e povera gente, uomini e ragazzi, col sigaro in bocca. Questa malaugurata abitudine di sognare da svegli, come scriveva Emilio Girardin, quando faceva la guerra ai fumatori, occupa una così larga parte nella vita degli Olandesi, che bisogna dirne qualche cosa.
Il popolo olandese è forse di tutti i popoli del settentrione quello che fuma di più. L’umidità del clima gliene fanno quasi un bisogno; il prezzo moderatissimo del tabacco rende possibile a tutti di soddisfarlo. Per mostrare quanto sia radicata quest’abitudine, basti dire che i barcaioli del treschkuit, che è la diligenza acquatica dell’Olanda, misurano le distanze col fumo. Di qui, dicono, alla tal città, ci sono, non tante miglia, ma tante pipate. Quando s’entra in una casa, dopo il primo saluto, l’ospite vi porge un sigaro; quando uscite, ve ne porge un altro, qualche volta ve ne riempie le tasche. Per le strade si vedon persone che accendono un sigaro col mozzicone ancora acceso dell’ultimo fumato, senza soffermarsi, con aria di gente affaccendata, per la quale è ugualmente rincrescevole di perdere un minuto di tempo e una boccata di fumo. Moltissimi s’addormentano col sigaro in bocca, accendono il sigaro quando si svegliano durante la notte e lo riaccendono la mattina prima di mettere i piedi fuori del letto. Un olandese, scriveva il Diderot, è un lambicco vivente; e pare infatti che il fumare sia per lui quasi una funzione necessaria della vita. Molti dissero che tutto questo fumo gli annebbia l’intelligenza. Eppure se v’è un popolo, come osserva giustamente l’Esquiroz, che abbia un’intelligenza netta e precisa al più alto grado, è il popolo olandese. D’altra parte in Olanda, il sigaro non è scusa all’ozio, nè si fuma per sognare da svegli; ognuno fa i fatti suoi cacciando fuori dei nuvoletti bianchi dalla bocca, regolarmente, come il tubo di un fornello d’officina, e il sigaro, invece d’essere una distrazione, è uno stimolo e un aiuto al lavoro. Il fumo, mi disse un olandese, è il nostro secondo fiato; e un altro mi definì il sigaro: il sesto dito della mano.
Qui, a proposito di tabacco, vorrei raccontare la vita e la morte d’un famoso fumatore olandese; ma temo un po’ le scrollate di spalla de’ miei amici olandesi, i quali mi raccontarono quella vita e quella morte, lamentandosi appunto che gli stranieri, che scrivon dell’Olanda, lascin da parte delle cose importanti ed onorevoli per il paese, per occuparsi di corbellerie di quella natura.
Ma tant’è, mi pare una corbelleria così nuova che non posso tenermela nella penna.
V’era dunque una volta un ricco signore dei dintorni dì Rotterdam, il quale si chiamava Van Klaës, ed era soprannominato papà gran pipa, perchè era vecchio, grosso e gran fumatore. La tradizione racconta ch’egli aveva fatto fortuna, da onesto negoziante, nelle Indie, e ch’era un uomo di miti costumi e di buon cuore. Tornato dalle Indie, s’era fatto fabbricare un bellissimo palazzo vicino a Rotterdam, e in questo palazzo aveva raccolto e disposto in forma di Museo tutti i modelli di pipe che vide il sole, in tutti i paesi e in tutti i tempi, da quelle che servivano agli antichi barbari per fumare la canapa alle splendide pipe di schiuma e d’ambra sopraccaricate di figurine e cerchiellate d’oro che si ammirano nelle più belle botteghe di Parigi. Il Museo era aperto agli stranieri, e ad ognuno che lo visitasse, il signor Van Klaës, dopo aver sfoggiato la sua vasta erudizione fumatoria, riempiva le tasche di sigari e di tabacco e regalava un catalogo del Museo con una copertina di velluto.
Il signor Van Klaës fumava cento cinquanta grammi di tabacco al giorno, e morì all’età di novantott’anni; così che, fatto il conto colla supposizione che abbia cominciato a fumare di diciotto anni, in tutto il corso della sua vita egli ne fumò quattromila trecento ottantatrè chilogrammi; colla quale quantità di tabacco, si forma una striscia nera non interrotta della lunghezza di venti leghe francesi. Con tutto ciò il signor Van Klaës si mostrò assai più grande fumatore in morte che in vita. La tradizione ha conservato tutti i particolari della sua fine. Gli mancavan pochi giorni a compire il novantottesimo anno, quando egli sentì improvvisamente che quell’anno sarebbe stato l’ultimo. Mandò a chiamare il suo notaio, ch’era pure un fumatore emerito, e senz’altro preambolo: “Notaro mio” gli disse “riempite la mia pipa e la vostra; io mi sento morire.” Il notaio riempì le pipe, le accesero e il signor Van Klaës dettò il suo testamento, che diventò poi celebre in tutta l’Olanda.
Dopo aver disposto d’una gran parte del suo avere a favore di parenti, d’amici e d’ospizi, dettò i seguenti articoli:
Voglio che tutti i fumatori del paese siano invitati ai miei funerali con tutti i mezzi possibili: giornali, lettere private, circolari, annunzi. Ogni fumatore che si renderà all’invito, riceverà in dono dieci libbre di tabacco e due pipe, sulle quali siano incisi il mio nome, le mie armi e la data della mia morte. I poveri del distretto che accompagneranno il mio feretro, riceveranno ogni anno, il giorno anniversario della mia morte, un gran pacco di tabacco. A tutti coloro che assisteranno al funerale, metto per condizione, se vogliono partecipare ai benefizi del mio testamento, che fumino senza interruzione per tutta la durata della cerimonia. Il mio corpo sarà chiuso in una cassa rivestita internamente del legno delle mie vecchie scatole dei sigari d’Avana. In fondo alla cassa, sarà deposta una scatola di tabacco francese detto caporal e un pacco del nostro vecchio tabacco olandese. Al mio fianco, sarà messa la mia pipa prediletta e una scatola di fiammiferi.... perchè non si sa mai quello che possa accadere. Portato il feretro al cimitero, tutte le persone del corteggio, prima d’andarsene, gli sfileranno dinanzi e vi getteranno sopra la cenere della loro pipa.
Le ultime volontà del signor Van Klaës furono rigorosamente compiute; i funerali riescirono splendidi e velati da una fitta nebbia di fumo; la cuoca del defunto, che si chiamava Gertrude, alla quale il padrone aveva lasciato, con un codicillo, una rendita considerevole, a patto che vincesse la sua ostinata avversione al tabacco, accompagnava la processione con un sigaretto di carta fra le labbra; i poveri benedissero la memoria del benefico signore, e tutto il paese risonò delle sue lodi, come risuona oggi ancora della sua fama.
Passando lungo un canale, vidi, con nuovi effetti, uno di quei rapidi cambiamenti di tempo che avevo visti il giorno innanzi. Tutt’a un tratto il sole dispare, quell’infinita varietà di colori ridenti si offusca, e comincia a soffiare un venticello d’autunno. Allora alla quiete allegra di poc’anzi succede da tutte le parti e in ogni cosa una sorta d’agitazione paurosa. I rami degli alberi stormiscono, le bandierine dei bastimenti ondeggiano, le barchette legate alle palafitte saltellano, le acque tremolano, i mille oggetti appesi alle case dondolano, le braccia dei mulini girano più rapide; pare che corra per tutto un brivido d’inverno e che la città si rimescoli come se avesse inteso una minaccia misteriosa. Dopo pochi minuti il sole ricompare, e col sole i colori, la pace, l’allegrezza. Questo spettacolo mi fece pensare che veramente l’Olanda non si possa dire un paese d’aspetto triste, come molti credono; ma piuttosto tristissimo o allegrissimo a vicenda, secondo il tempo. È in ogni cosa il paese dei contrasti. Sotto un cielo capricciosissimo v’è il popolo meno capriccioso della terra; e questo popolo fermo e ordinato, ha l’architettura più barcollante e più scompigliata che si possa veder con due occhi.
Prima d’entrare nel Museo di Rotterdam, mi sembrano opportune alcune osservazioni sulla pittura olandese, non per coloro che sanno, ben inteso, ma per coloro che hanno dimenticato.
La pittura olandese ha una qualità che la rende, per noi Italiani, particolarmente attrattiva: è di tutte le pitture del mondo la più diversa dalla nostra, l’antitesi, o per dirla con una di quelle frasi che facevano stizzire il Leopardi, il polo opposto dell’arte. Sono, la nostra e l’olandese, le due scuole più originali, o, come altri dice, le due sole a cui convenga rigorosamente quel titolo; le altre non essendo che figlie, o sorelle minori, che le arieggiano o poco o molto. E così anche per il lato della pittura, l’Olanda offre quello che si cerca con maggior desiderio nei viaggi o nei libri di viaggi: il nuovo.
La pittura olandese nacque colla indipendenza e colla libertà dell’Olanda. Sin che le provincie del nord e quelle del sud dei Paesi Bassi stettero unite nella monarchia spagnuola e nella fede cattolica, ebbero una scuola unica di pittura. I pittori olandesi dipingevano come i pittori belgi; studiavano nel Belgio, in Germania, in Italia; l’Hemskerk imitava il Michelangelo; il Bloemaert, il Correggio; il Moro, il Tiziano, per non accennarne molti altri; ed erano imitatori pedanti, che congiungevano all’esagerazione dello stile italiano una certa rozzezza tedesca, di che riusciva una pittura bastarda, inferiore ancora a quella primissima, quasi infantile, rigida nel disegno, cruda nel colorito e mancante affatto di chiaroscuro, ma aliena, almeno, dall’imitazione, che era stata come un preludio lontano della vera arte olandese.
Colla guerra d’indipendenza, la libertà, la riforma, anche la pittura si rinnova; cade, colla tradizione religiosa, la tradizione artistica; il nudo, le ninfe, le madonne, i santi, l’allegoria, la mitologia, l’ideale, tutto il vecchio edilizio rovina; l’Olanda, animata da una nuova vita, prova il bisogno di manifestarla e di espanderla in una maniera nuova; questo piccolo paese divenuto ad un tratto così glorioso e formidabile sente il desiderio d’illustrare sè medesimo; le facoltà che si sono rafforzate ed eccitate in quella grande impresa di creare una patria, un mondo reale, traboccano, ora che l’impresa è compiuta, e creano un mondo immaginario; le condizioni del paese son favorevoli al risorgimento dell’arte; i supremi pericoli sono scongiurati; v’è la sicurezza, la prosperità, un avvenire splendido; gli eroi hanno fatto il dover loro, possono farsi innanzi gli artisti; l’Olanda, dopo tanti sacrifizi e tante sventure, uscita vittoriosa dalla lotta, leva il viso in mezzo ai popoli, e sorride: e quel sorriso è l’arte.
Quale dovess’essere quest’arte, si potrebbe indovinare, quando non ce ne fosse rimasto alcun monumento. Un popolo pacifico, operoso, pratico, riabbassato continuamente, per dirla colle parole d’un gran poeta tedesco, a una realtà prosaica, dalle occupazioni d’una vita volgare e borghese; che coltiva la sua ragione a spese della sua immaginazione; che vive, per conseguenza, più d’idee chiare che di immagini belle; che rifugge dalle astrazioni, che non si slancia col pensiero di là dalla natura, colla quale è in lotta perpetua; che non vede che ciò che è, che non gode che di ciò che possiede, che fa consistere la sua felicità nella quiete agiata e onestamente sensuale d’una vita senza passioni violente e senza desiderii scomposti; questo popolo doveva avere un sentimento tranquillo anche dell’arte, amare un’arte che ricreasse senza scuotere, che parlasse più ai sensi che allo spirito, un’arte riposata, precisa, squisitamente materiale come la sua vita; l’arte, in una parola, realista, nella quale egli si potesse specchiare e vedersi tal quale era, ed era contento di essere.
Gli artisti cominciarono a ritrarre quello che cadeva prima sotto i loro occhi: la casa. I lunghi inverni, le pioggie ostinate, l’umidità, la variabilità continua del clima, costringono l’olandese a stare una gran parte dell’anno e del giorno in casa. Questa casa piccina, questo guscio, egli l’ama assai più di noi, appunto perchè ne ha maggior bisogno e ci vive di più: lo provvede di tutti i comodi, lo accarezza, ci si crogiola: gli piace guardare, dalle finestre ben tappate, la neve che cade e la pioggia che diluvia, e dire: — Infuria, tempaccio, io sono al caldo e al sicuro! — In questo suo guscio, accanto alla sua buona massaia, in mezzo ai suoi figliuoli, passa le lunghe serate dell’autunno e dell’inverno, mangiando molto, bevendo molto, fumando molto, ricreandosi con un’onesta allegria delle cure della giornata. I pittori olandesi ritraggono queste case e questa vita in quadretti proporzionati alle piccole pareti a cui debbono essere appesi: le stanze da letto, che fanno sentire il gusto del riposo, le cucine, le tavole apparecchiate, i faccioni freschi e ridenti delle madri di famiglia, gli uomini in panciolle intorno al focolare; e da realisti coscenziosi che non iscordano nulla, ci mettono il gatto che sonnecchia, il cane che sbadiglia, la gallina che razzola, la scopa, i legumi, i tegami sparsi, i polli spennacchiati. Questa vita la ritraggono poi in tutte le classi sociali e in tutte le sue scene: la conversazione, il ballo, le orgie, i giuochi, le feste; e così diventan famosi i Terburg, i Metzu, i Netscher, i Dov, i Mieris, gli Steen, i Brouwer, i Van Ostade.
Dopo la casa, si rivolgono alla campagna. Il clima nemico non concede che un tempo assai breve per ammirare la natura; ma per questo appunto gli artisti olandesi l’ammirano meglio; salutano la primavera con una gioia più viva; e quel sorriso fuggitivo del cielo si stampa più profondamente nella loro fantasia. Il paese non è bello; ma è due volte caro, perchè strappato al mare e agli stranieri; essi lo ritraggono con amore; creano il paesaggio semplice, ingenuo, pieno d’un senso intimo che non hanno in quel tempo nè i paesaggi italiani nè i belgi. Il loro paese, piano e monotono, offre ai loro occhi attenti una varietà meravigliosa. Colgono tutte le variazioni del cielo, si valgon dell’acqua che è per tutto, che riflette, dà grazia e freschezza, e lumeggia ogni cosa; non han montagne, mettono in fondo ai quadri le dune; non han boschi, ma vedono, fanno vedere i misteri d’un bosco in un gruppo d’alberi; e animano tutto questo coi loro bellissimi animali e colle loro vele. Il soggetto d’un loro quadro è ben povero: un mulino a vento, un canale, un cielo grigio; ma a quante cose fa pensare! Alcuni di loro, non paghi di quella natura, vengono a cercare in Italia i colli, i cieli luminosi e le rovine illustri; e n’esce una schiera di artisti eletti, come i Both, i Swanevelt, i Pynacker, i Breenberg, i Van Laer, gli Asselyn; ma la palma rimane ai paesisti olandesi, al Wynants, il pittore del mattino, al Van der Neer, il pittore della notte, al Ruysdael il pittore della melanconia, al Hobbema l’illustratore dei mulini, delle capanne e degli orti, e ad altri che si ristrinsero ad esprimere l’incanto della loro modesta natura.
Insieme al paesaggio, nasce un altro genere di pittura, particolarmente proprio dell’Olanda: la pittura degli animali. Gli animali son la ricchezza del paese; è quella stupenda razza bovina che non ha rivali in Europa, nè per fecondità nè per bellezza. Gli Olandesi, che tanto le debbono, la trattano, si può dire, come un ceto della popolazione; amano i loro animali, li lavano, li pettinano, li vestono. Essi si vedono per tutto; si specchiano in tutti i canali; abbelliscono il paese picchiettando d’innumerevoli macchiette nere e bianche le immense praterie; danno a ogni luogo un’aria di pace e di agiatezza che mette in cuore non so che sentimento di dolcezza arcadica, di serenità patriarcale. Gli artisti olandesi studiano questi animali in tutte le loro varietà, in tutte le loro abitudini, ne indovinano, per così dire, la vita intima, i sentimenti, e vivificano con essi la bellezza quieta dei loro paesaggi. Il Rubens, lo Snyders, il Paolo de Vos, molti altri pittori belgi, avevano ritratto gli animali con maestria ammirabile; ma tutti son superati dagli olandesi Van de Velde, Berghem, Karel du Jardin, e dal principe dei pittori di animali, Paolo Potter, il cui Toro famoso del Museo dell’Aja doveva aver l’onore d’esser posto, nel palazzo del Louvre, dinanzi alla Trastìgurazione di Raffaello.
In un altro campo di pittura dovevano grandeggiare gli Olandesi: il mare. Il mare, loro nemico, loro potenza e loro gloria, che sovrasta alla loro patria, che la tormenta e la teme, ed entra da mille parti e in mille forme nella loro vita; quel Mare del Nord turbolento, pieno di colori sinistri, illuminato da tramonti monti di una mestizia infinita, che flagella una riva desolata, doveva soggiogare la immaginazione degli artisti olandesi. Essi, infatti, passano lunghe ore sulla spiaggia a contemplare la sua bellezza tremenda, si avventurano fra le onde per studiare la tempesta, comprano dei bastimenti e navigano colla loro famiglia osservando e dipingendo, seguono le flotte nazionali nelle guerre e assistono alle battaglie, e così nascono dei pittori di marina, come Guglielmo Van de Velde il vecchio e Guglielmo il giovane, il Backuisen, il Dubbels, lo Stork.
Un altro genere di pittura doveva sorgere in Olanda, come espressione del carattere del popolo e dei costumi repubblicani. Un popolo che senza grandezza aveva fatto tante grandi cose, come dice il Michelet, doveva avere la sua pittura, se così può dirsi, eroica, destinata ad illustrare uomini ed avvenimenti. Ma questa pittura, appunto perchè quel popolo era senza grandezza, o per meglio dire, senza la forma della grandezza, modesto, inclinato a considerar tutti uguali dinanzi alla patria, perchè tutti avevano fatto il loro dovere, aborrente dalle adulazioni e dalle apoteosi che glorificano in un solo le virtù e il trionfo di molti; questa pittura doveva illustrare non già pochi uomini eccelsi e pochi fatti straordinarii; ma tutte le classi della cittadinanza colte nelle congiunture più ordinarie e pacifiche della vita borghese. Di qui, i grandi quadri che rappresentano cinque, dieci, trenta persone insieme, archibugieri, sindaci, ufficiali, professori, magistrati, amministratori, seduti o ritti intorno a una tavola, banchettando o discutendo, tutti di grandezza naturale, tutti ritratti fedelissimi, visi gravi, aperti, sui quali risplende l’intima serenità della coscienza sicura, sui quali s’indovina, più che non si veda, la nobiltà della vita consacrata alla patria, il carattere di quell’epoca forte e operosa, le virtù maschie di quelle generazioni prestanti; tutto questo rilevato dal bel costume del rinascimento che accoppia così mirabilmente la gravità e la grazia, quelle gorgiere, quei giustacori, quei mantelli neri, quelle ciarpe di seta, i nastri, le armi, le bandiere. E in questo campo facevan capolavori i Van der Helst, gli Hals, i Govaert Flink, i Bol.
Scendendo dalla considerazione dei varii generi di pittura, alla maniera speciale, ai mezzi di cui si valsero gli artisti nel trattarli, se ne presenta subito uno principalissimo, che è come il tratto distintivo della scuola olandese: la luce.
La luce, in Olanda, per le condizioni particolari in cui si manifesta, doveva far nascere una maniera particolare di pittura. Una luce pallida, ondeggiante con una mobilità meravigliosa a traverso un’atmosfera pregna di vapori, un velo nebuloso continuamente e bruscamente lacerato, una lotta perpetua fra i raggi e le ombre, era uno spettacolo che doveva attirar l’attenzione dei pittori. Essi cominciavano a osservare e a ritrarre tutte codeste inquietudini del cielo, codesta lotta, che anima d’una vita varia e fantastica la solitudine della natura olandese; e nel ritrarla ch’essi facevano, codesta lotta passò nelle loro menti, e allora, invece di ritrarre, crearono. Allora fecero cozzare essi medesimi i due elementi; accumularono le tenebre, per saettarle, per romperle con ogni maniera di rilievi luminosi e di sbattimenti di luce; per farci guizzare e morire dei raggi di sole, dei riflessi crepuscolari, dei chiarori di lucerne, digradanti con sfumature delicatissime in ombre misteriose; e popolare queste ombre di forme confuse, che si vedono e non si distinguono; e creare così ogni sorta di giochi, di contrasti, di enigmi, d’effetti di chiaroscuro inaspettati e strani. E in questo campo fecero prodigi veri, fra gli altri moltissimi, Gherardo Dow, l’autore del quadro famoso delle quattro candele, e il grande, magico, sovrumano illuminatore, Rembrandt.
Un altro carattere principalissimo della pittura olandese doveva essere il colorito. Oltre la ragione così generalmente riconosciuta che in un paese dove non sono orizzonti montuosi, non prospetti accidentati, non grandi colpi d’occhio, non forme generali, insomma, che si prestino al disegno, l’occhio dell’artista dev’essere maggiormente sedotto dai colori; e che ciò deve tanto più seguire in Olanda, dove la luce incerta, la vaga bruma che vela continuamente l’aria, ammollisce, sfuma i contorni degli oggetti, onde l’occhio, trascura la forma che non può bene afferrare, e si fissa di preferenza nel colore come l’attributo principale che gli offre la natura; oltre queste ragioni, v’è quella che in un paese piano, uniforme e grigio come l’Olanda, s’ha bisogno di colori, come in un paese meridionale s’ha bisogno dell’ombra. Gli artisti olandesi non fecero che andar dietro al gusto imperioso del loro popolo, che tinse di colori vivissimi le case, i bastimenti, in alcuni luoghi i tronchi degli alberi, le palafitte, gli stecconati della campagna; che si veste, che si vestiva molto più allora di colori allegri; che ama i tulipani e i giacinti fino alla pazzia. E così tutti i pittori olandesi furon coloristi potenti, Rembrandt il primo.
Il realismo, favorito dal carattere olandese calmo e lento, che consente agli artisti di padroneggiare la propria foga, e aiutato dalla loro natura che mira all’esatto e rifugge dal fare le cose a mezzo, doveva dare alla pittura di quel popolo un altro tratto distintivo: la finitezza; e questa finitezza doveva esser condotta dagli Olandesi all’ultimo grado del possibile. Si dice con ragione che nei quadri olandesi si trova la prima qualità di quel popolo: la pazienza. Ogni cosa vi è rappresentata con la minutezza del dagherrotipo: i mobili con tutte le loro venature, le foglie con tutte le loro fibre, i tessuti con tutti i loro fili, le rappezzature con tutti i loro punti, gli animali con tutti i loro peli, i visi con tutte le loro rughe; ogni cosa finito con una precisione microscopica, da far credere che sia l’opera del pennello d’una fata, o che il pittore ci abbia perduto la vista e la ragione. Difetto, in fondo, piuttosto che pregio, poichè l’ufficio della pittura è di ritrarre non quello che è, ma quello che l’occhio vede, e l’occhio non vede ogni cosa; ma è difetto portato a una così meravigliosa eccellenza, che lo si ammira senza lamentarlo, e non s’osa desiderare che non ci sia. E per questo rispetto furon famosi come prodigi di pazienza il Dow, il Mieris, il Potter, il Van der Helst, e più o meno, tutti i pittori olandesi.
Ma il realismo che dà alla pittura olandese una impronta così originale, e delle qualità così ammirabili, è pure la radice dei suoi difetti più gravi. I pittori olandesi, solleciti soltanto di ritrarre la verità materiale, non danno alle loro figure che l’espressione di sentimenti fisici. Il dolore, l’amore, l’entusiasmo e i mille affetti delicatissimi che non han nome, o pigliano un nome diverso dalle diverse cagioni che li fan nascere, li esprimono raramente o non li esprimono mai. Per loro il cuore non batte, l’occhio non piange, la bocca non trema. Nei loro quadri manca tutta una parte, la più potente e la più nobile, dell’anima umana. Di più, con quel ritrarre fedelmente ogni cosa, anche il brutto, e specialmente il brutto, finiscono per esagerare anche questo, convertono i difetti in deformità, i ritratti in caricature; calunniano il tipo nazionale; danno ad ogni figura umana un aspetto sgraziato e burlesco. Per aver dove mettere queste figure, son costretti a sceglier soggetti triviali; quindi il soverchio numero di quadri che rappresentano bettole e beoni con faccie grottesche, instupidite, in atteggiamenti sguaiati, donnaccie, vecchi spregevolmente ridicoli; scene in cui par di sentir le grida squarciate, e le parole oscene. Si direbbe, a guardar quei quadri, che l’Olanda è abitata dal popolo più deforme e più scostumato della terra. Di qui i pittori discendono ancora a maggiori licenze. Lo Steen mette un lavativo in mezzo a un quadro; il Potter dipinge una vacca che orina; il Rembrandt disegna persone che fanno gli offici di sotto; il Brouver, rappresenta ubriachi che fan la ricevuta; il Torrentius manda in giro dei quadri così spudorati che gli Stati d’Olanda li fan raccogliere e bruciare. Ma anche lasciando questi eccessi, in un Museo d’Olanda non si trova quasi mai nulla che sollevi l’anima, che desti un movimento di pensieri alti e gentili. Si ammira, si gode, si ride, si rimane pensosi dinanzi a qualche paesaggio; ma uscendo, si sente che non s’è provato un piacere intero, si desidera qualche cosa, si prova come un bisogno di vedere dei visi belli e di leggere dei versi ispirati, e qualche volta vien fatto di mormorare, quasi senz’addarsene: — Oh Raffaello!
Infine, bisogna ricordare ancora due grandi pregi di questa pittura: la sua varietà e la sua importanza come espressione, come specchio, per così dire, del paese. Se si toglie il Rembrandt col gruppo dei suoi imitatori, quasi tutti gli altri artisti sono differentissimi fra loro; nessun’altra scuola presenta forse un così gran numero di maestri originali. Il realismo dei pittori olandesi nacque dal loro amore comune per la natura; ma ognuno ha fatto trasparire nell’opera propria una maniera d’amore tutta sua; ognuno ha reso un’impressione diversa, che dalla natura aveva ricevuta; ognuno, partendo dal punto comune ch’era il culto della verità materiale, è arrivato a una mèta che non è quella degli altri. Il loro realismo poi, spingendoli a tutto ritrarre, ha fatto sì che la pittura olandese riuscisse a rappresentare l’Olanda più completamente di quello che nessun’altra scuola di pittura abbia mai fatto di nessun altro paese. Se sparisse, è stato detto, fuor che l’opera dei pittori, ogni altra testimonianza visibile dell’esistenza dell’Olanda nel secolo XVII, — il suo gran secolo — la si troverebbe nei quadri intera: le città, le campagne, i porti, le navi, i mercati, le botteghe, i costumi, gli utensili, le armi, la biancheria, le merci, le stoviglie, i cibi, i piaceri, le abitudini, le credenze religiose e le superstizioni, le qualità e i difetti del popolo; e questo che è un grande pregio per una letteratura, non è pregio minore per la sua arte sorella.
Ma nella pittura olandese v’è un gran vuoto, del quale non basta a dare una ragione compiuta l’indole pacifica e modesta del popolo. Questa pittura così intimamente nazionale ha trascurato, fuor che qualche battaglia navale, tutte le grandi gesta della guerra d’indipendenza, fra le quali sarebbero bastati gli assedi di Leida e di Harlem a ispirare, a suscitare una legione d’artisti. Una guerra di quasi un secolo, piena di vicende strane e terribili, non è stata ricordata in un solo quadro memorabile. Questa pittura così varia e così coscenziosa nel ritrarre il paese e la sua vita, non ha rappresentato una scena di quella grande tragedia, come la chiamò, profetando, Guglielmo il Taciturno, che destò nel popolo olandese, per sì lungo tempo, tante diverse commozioni di terrore, di dolore, d’ira, di gioia, di orgoglio!
Lo splendore dell’arte in Olanda s’offuscò con quello della grandezza politica. Quasi tutti i grandi pittori nacquero nei primi trent’anni del secolo XVII, negli ultimi del XVI; tutti erano morti dopo i primi dieci anni del XVIII; e in questo secolo non ne sorse alcun altro; l’Olanda aveva esaurito la sua fecondità. Già verso la fine del secolo XVII, il sentimento nazionale si era cominciato a infiacchire, il gusto si corrompeva, l’ispirazione dei pittori declinava colla energia morale del paese. Nel secolo XVIII, gli artisti, come se fossero stanchi della natura, ritornano alla mitologia, al classicismo, alla convenzione; l’immaginazione si raffredda, lo stile s’impoverisce, ogni favilla del genio antico si spegne; l’arte olandese mostra ancora al mondo i fiori meravigliosi del Van Huysum, l’ultimo grande innamorato della natura, e poi ripiega la mano stanca, e quei fiori ricadono sulla sua tomba.
L’attuale Museo di pittura di Rotterdam non contiene che un piccolo numero di quadri, tra i quali pochissimi dei primi artisti, e nessuno dei grandi capolavori della pittura olandese. Trecento tele e milletrecento disegni furono distrutti da un incendio nel 1864; e quanto vi si trova ora, proviene in gran parte da un Jacob Otto Boymans, che lo lasciò per testamento alla città di Rotterdam.
In questo Museo, dunque, si può entrare per far conoscenza personale di qualche artista, piuttosto che per ammirare la pittura olandese.
In una delle prime sale si vedono alcuni schizzi di battaglie navali, segnati del nome Willem Van de Velde, considerato come il più grande pittore di marine dei suoi tempi, figlio d’un Willem pittore di marine egli pure, chiamato il vecchio, per distinguerlo da lui, chiamato il giovane. Padre e figlio ebbero la fortuna di vivere al tempo delle grandi guerre marittime tra l’Olanda, l’Inghilterra e la Francia; e di poter veder le battaglie coi propri occhi. Gli Stati d’Olanda avevan messo a disposizione di Van de Velde il vecchio una piccola fregata; il figlio accompagnò il padre; e tutti e due fecero i loro schizzi in mezzo al fumo delle cannonate, spingendosi qualche volta tanto innanzi col bastimento, da indurre gli ammiragli a ordinar loro di allontanarsi. Van de Velde il giovane superò di molto il padre, e non fece per lo più che piccoli quadri: un cielo grigio, un mar calmo e qualche vela; ma così fatti che, per poco che vi si fissino gli occhi, si sente l’odor salino delle acque e si scambia la cornice per una finestra. Questo Van de Velde appartiene a quel gruppo di quei pittori olandesi che amarono l’acqua con una sorta di furore e che dipinsero, si può dire, sull’acqua. Di questi era pure il Backuisen, pittore di marine ch’ebbe gran voga ai suoi tempi, e che Pietro il Grande, nel tempo che passò in Amsterdam, scelse a suo maestro. Il quale Backuisen si rischiava, per quel che si dice, sur una barchetta, in mezzo al mare in tempesta, per osservare da vicino i movimenti dell’onde, e metteva a un tal rischio sè e i barcaioli, che questi, più solleciti della loro pelle che delle sue tele, lo riconducevano a terra suo malgrado. Giovanni Griffier faceva di più. Aveva comperato a Londra un piccolo bastimento, l’aveva mobiliato come una casa, ci aveva installato la moglie e i figliuoli, e navigava così per conto proprio in cerca di vedute. Avendo una tempesta spezzato il suo bastimento contro un banco di sabbia e distrutto tutto l’aver suo, egli, salvo per miracolo colla famiglia, andò a stare a Rotterdam; ma annoiatosi in breve tempo della vita di terra, comperò una barcaccia sconquassata, ricominciò a navigare, rischiò una seconda volta la vita vicino a Dordrecht, e navigò ancora.
In fatto di marine, il Museo di Rotterdam non ha presso che nulla; ma vi è degnamente rappresentato il paesaggio da due quadri del Ruisdael, il più grande dei paesisti olandesi nel genere campestre. Son due dei suoi soggetti favoriti: luoghi boscosi e solitarii, che ispirano, come tutti gli altri suoi quadri, un sentimento di vaga melanconia. La grande potenza di quest’artista, che sovrasta alla scuola olandese per una finezza d’anima e una superiorità d’educazione singolare, è il sentimento. Fu detto giustamente ch’egli si servì del paesaggio per esprimere le sue amarezze, le sue noie, i suoi sogni, e che ha contemplato il proprio paese con una sorta di tristezza amara, come d’un infermo, e che creò i boschetti per nascondervi questa tristezza. La luce velata dell’Olanda è l’immagine della sua anima; nessuno ne sentì più squisitamente la dolcezza melanconica; nessuno rappresentò meglio di lui, con un raggio di luce languida, il sorriso d’una creatura afflitta. E appunto per questa sua natura eccezionale, non fu stimato dai propri concittadini che molto tempo dopo la sua morte.
Accanto a uno dei quadri del Ruisdael v’è un quadro di fiori d’una pittrice, Rachele Ruysch, moglie d’un ritrattista di grido, nata nella seconda metà del decimosesto secolo, e morta col pennello in mano, all’età di ottant’anni, dopo aver provato a suo marito e al mondo che una donna di giudizio può coltivare appassionatamente le belle arti e trovare il tempo di mettere al mondo e di allevare dieci figliuoli.
E poiché ho ricordato la moglie d’un pittore, noto di volo che ci sarebbe da fare un bel libro sulle mogli dei pittori olandesi, sia per la varietà d’avventure che presentano, sia per la parte importante che ebbero nella storia dell’arte. Un buon numero si conoscono di persona perchè molti pittori fecero il loro ritratto, insieme col proprio, e con quello dei figliuoli, del gatto e della gallina; e di quasi tutte parlano i biografi, smentendo o confermando dicerie che corsero intorno alla loro condotta. Qualcuno s’arrischiò a dire che la maggior parte di esse ebbero dei gravi torti verso la pittura. A me pare che dei torti ce ne siano stati da una parte e dall’altra. Quanto al Rembrandt, si sa che il periodo più felice della sua vita fu quello che scorse fra il suo primo matrimonio e la morte di sua moglie, figlia d’un borgomastro di Leuwarde; la posterità deve dunque della gratitudine a sua moglie. Sappiamo che il Van der Helst sposò, già avanzato in età, una bella giovinetta sulla quale non ci fu nulla a ridire; e la posterità deve ringraziare anche lei che rallegrò la vecchiaia di quel grande artista. Non si può parlare di tutte negli stessi termini, è vero. Delle due mogli dello Steen, per esempio, la prima era una testa leggiera, che gli lasciò andare a male la birreria che aveva ereditata da suo padre a Delft, e la seconda, per quel che si dice, gli fu infedele. La seconda moglie dell’Heemskerk era una scroccona, tanto che il marito doveva andare attorno a domandar scusa delle sue malefatte. La moglie dell’Hondekoeter era una donna bizzarra e molesta, che lo costringeva a passar la sera nelle taverne per liberarsi dalla sua compagnia. La moglie del Berghem era un’avara insaziabile, che lo svegliava bruscamente quando lo trovava addormentato sui suoi pennelli, perchè lavorasse e guadagnasse, e il pover uomo era costretto a farle dei sotterfugi, quando riscuoteva i denari dei suoi quadri, per potersi comprare delle stampe. Per contro, non si finirebbe più di citare, se si volessero ricordare i torti dei signori mariti. Il pittore Griffier costringe sua moglie a girare per il mondo in barca; il pittore Veenix domanda il permesso alla sua sposa d’andare a passare quattro mesi a Roma, e ci sta quattro anni; il pittore Karel du Jardìn sposa una vecchia ricca per farsi pagare i debiti e la pianta quando glieli ha pagati; il pittore Molyn fa assassinare sua moglie per sposare una genovese. Lascio in dubbio se il povero Paolo Potter sia stato tradito, come alcuni affermano ed altri negano, dalla sposa che amava perdutamente, e se il gran pittore di fiori Huysum che si róse di gelosia, in mezzo alle ricchezze e alla gloria, per una moglie non più giovane né bella, avesse fondati motivi di rodersi, non si fosse piuttosto montata la testa senza ragione per le dicerie dei suoi rivali invidiosi. Per finir bene, ricordo onoratamente le tre mogli del pittore Eglon van der Neer, che lo coronarono di venticinque figliuoli, i quali non gli tolsero il tempo di dipingere un gran numero di quadri d’ogni genere, di fare parecchi viaggi e di coltivare i tulipani.
Vi sono nel Museo di Rotterdam parecchi piccoli quadri di Alberto Cuyp, un paesaggio, cavalli, galline, frutte; di quell’Alberto Cuyp che fece parte da sé stesso nell’arte olandese, che dipinse nel corso della sua vita quasi secolare ritratti, paesaggi, animali, fiori, scene d’inverno, lumi di luna, marine, quadri di figure, e lasciò in tutti i generi un’impronta originale; e che fu nondimeno, come quasi tutti i pittori olandesi del suo tempo, così poco fortunato, che fino al 1750, ossia più di cinquant’anni dopo la sua morte, non si pagavano più di cento lire quelli fra i suoi quadri, che ora si pagherebbero centomila, non in Olanda, ma in Inghilterra, dove si trovano al presente quasi tutte le opere sue.
D’un Cristo alla tomba dell’Heemskerk non metterebbe conto di far parola, se non fosse un appiglio per far conoscere l’artista, che fu uno dei più curiosi soggetti che siansi mai veduti sulla faccia della terra. Il Van Veen, poichè tale è il suo nome, nacque nel villaggio di Heemskerk sulla fine del secolo XV, e fiorì quindi nel periodo dell’imitazione italiana. Era figliuolo d’un contadino, e benché si sentisse una certa disposizione per la pittura, era destinato a fare il contadino. Diventò pittore, come molti altri artisti olandesi, per un accidente. Suo padre era un uomo furioso e il figliuolo lo temeva quanto mai. Un giorno il povero Van Veen lasciò cadere in terra la brocca del latte, il padre gli s’avventò addosso, egli fuggì, si nascose e passò la notte fuor di casa. La mattina, sua madre lo trovò, convenne con lui che non sarebbe stata prudenza l’affrontare la collera paterna, gli diede un po’ di biancheria e un po’ di denari, e lo mandò con Dio. Il giovanetto si recò ad Haarlem, ottenne di entrare nella scuola d’un pittore di grido, studiò, riuscì, andò a perfezionarsi a Roma, non diventò un grande artista, chè anzi l’imitazione italiana gli nocque, trattò il nudo con rigidezza, ed ebbe uno stile manierato; ma fu un pittore fecondo e pagato, e non ebbe a rimpiangere la vita dei campi. Ma qui sta la sua originalità: era, per quel che ne dicono i suoi biografi, un uomo incredibilmente, morbosamente, pazzamente pauroso; a tal segno, che quando sapeva che dovevan passare gli archibugieri, saliva sui tetti e sui campanili, e a veder le armi nella strada, aveva ancora paura. E per chi la credesse una fiaba, c’è un fatto che può indurre a ritenerla vera: ed è che trovandosi egli nella città di Haarlem quando gli Spagnuoli vi posero l’assedio, i magistrati, che conoscevano la sua debolezza, gli permisero di fuggire dalla città prima che si venisse alle armi, forse perchè prevedevano che sarebbe morto di spaghite; ed egli si valse di quel permesso, e fuggì ad Amsterdam, lasciando i suoi concittadini nelle péste.
Altri pittori olandesi, — poiché sono a parlare degli uomini e non dei quadri — dovettero, come l’Heemskerk, a un accidente d’esser riusciti pittori. L’Everdingen, paesista di prim’ordine, lo dovette a una tempesta, che gettò il suo bastimento sul lido della Norvegia, dove egli rimase, s’ispirò a quella grande natura e creò un genere di paesaggio originale. Cornélis Vroom dovette pure la sua fortuna a un naufragio; era partito per la Spagna, con alcuni quadri religiosi, il bastimento naufragò vicino alle coste del Portogallo, il povero artista si salvò con altri in un’isola disabitata, stettero due giorni senza mangiare, si consideravan come perduti; quando furono inaspettatamente soccorsi dai religiosi di un convento della costa, ai quali il mare aveva portato insieme alla carcassa del bastimento, i quadri del naufragio, ch’essi religiosi avevano trovato ammirabili; e così il Cornélis fu raccolto, ospitato, stimolato a dipingere, e quella profonda emozione del naufragio diede al suo ingegno un impulso nuovo e potente che lo rese artista vero. E un altro, Hans Fredeman, il pittore famoso degl’inganni, quello che dipinse così maestrevolmente delle colonne sopra i battenti della porta d’una sala, che Carlo V, voltatosi, appena entrato, a guardare, credette che la parete si fosse chiusa per incanto dietro di lui; quell’Hans Fredeman che dipingeva delle palizzate che facevan tornare indietro della gente, e degli usci su cui si posava la mano per aprire, dovette la sua fortuna a un libro d’architettura del Vitruvio che ebbe per caso da un falegname.
V’è un bel quadretto dello Steen, che rappresenta un medico il quale finge di far l’estrazione della pietra a un malato immaginario: una vecchia raccoglie le pietre in una catinella, il malato strilla disperatamente e alcuni curiosi guardano sorridendo da una finestra.
Quando si dica che questo quadro fa dare in uno scoppio di risa, se ne dice tutto quello che è utilmente dicibile. Questo Steen è, dopo il Rembrandt, il più originale pittore di figure della scuola olandese; è uno di quei pochissimi artisti che, una volta conosciuti, siano non siano consentanei alla nostra indole, si ammirino come grandi o si ritengano degni soltanto dei secondi onori, non importa: rimangono impressi, fitti, immobili nella nostra mente per tutta la vita. Dopo aver visto i suoi quadri, non è più possibile vedere un ubriaco, un buffone, uno sciancato, un mostriciattolo, una faccia deforme, una smorfia ridicola, un atteggiamento grottesco, senza ricordarsi di qualcuna delle sue figure. Tutte le gradazioni, tutte le goffaggini dell’ubriachezza, tutto quello che v’è di grossolano e di sguaiato nell’orgia, la frenesia dei piaceri più bassi, il cinismo del vizio più volgare, le buffonate della canaglia più sfrenata, tutte le più bestiali emozioni, tutti gli aspetti più ignobili della vita della bettola e del trivio, ei li ha ritratti colla brutalità e l’insolenza d’un uomo senza scrupoli, e con una forza comica, una foga, una, direi quasi, ebbrezza d’ispirazione, che non si può esprimer con parole. Furon scritti su di lui molti volumi, e pronunziati giudizi molto diversi. I suoi più caldi ammiratori gli hanno attribuito un’intenzione morale: lo scopo di far prender in odio la crapula dipingendola, come fece, con colori ributtanti, a somiglianza degli Spartani che mostravano gl’Iloti ubriachi ai figliuoli. Altri non videro in quella maniera di pittura che l’espressione spontanea e spensierata dell’indole e dei gusti dell’artista, che rappresentarono come un crapulone volgare. Comunque sia stato, è fuor di dubbio che negli effetti che produce, la pittura dello Steen si può considerare una satira del vizio; e in questo egli è superiore a quasi tutti gli altri artisti olandesi, che si ristrinsero a un naturalismo esteriore. Quindi fu chiamato l’Hogart olandese, il filosofo gioviale, il più profondo osservatore d i costumi del suo paese, e fra i suoi ammiratori, ve ne fu uno, il quale disse che se lo Steen fosse nato a Roma invece che a Leida e avesse avuto a maestro Michelangelo invece di Van Goyen, sarebbe riuscito uno dei più grandi pittori del mondo; e un altro che trovò non so che analogia fra lui e Raffaello. Meno generale è l’ammirazione per le qualità tecniche della sua pittura, nella quale non si trova la finezza e il vigore di altri artisti, come dell’Ostade, del Mieris, del Dow. Ma anche considerando l’indole satirica dell’opera sua, si può dire che lo Steen s’è spinto sovente di là dal suo scopo, se veramente ebbe uno scopo. La sua foga burlesca ha spesse volte soverchiato in lui il sentimento della realtà: le sue figure invece di riuscir soltanto ridicole, riuscirono mostruose, appena umane, somiglianti spesso più a bestie che ad uomini; ed egli moltiplicò queste figure a segno da destare qualche volta, invece del riso, la nausea, e un sentimento quasi di sdegno per la natura umana oltraggiata. Il più delle volte, però, l’effetto più forte è il riso, un riso sonoro, irresistibile, che ci scappa anche essendo soli, e che richiama la gente dai quadri vicini. È impossibile spingere a un più alto grado di potenza l’arte di schiacciar i nasi, di storcer le bocche, di contrarre i colli, di reticolare le rughe, d’istupidire i visi, d’attaccare gobbe e pappagorgie, di far sghignazzare, ruttare, barcollare, stramazzare, di esprimere nel lampeggiamento d’una pupilla semispenta l’ebetismo e la lussuria, di rivelare l’abbrutimento d’un uomo in un sorriso e in un gesto, di far sentire il puzzo della pipa, udire le risataccie, indovinare i discorsi sciocchi o turpi, capire, in una parola, la bettola e la canaglia; è impossibile, dico, portare quest’arte più alto di quello che l’ha portata lo Steen.
Sulla sua vita ci furono e ci sono ancora delle gran questioni. Si scrissero dei volumi per provare che fu un ubriacone, e dei volumi per provare che fu sobrio; e come sempre, si esagerò in un senso e nell’altro. Tenne una birreria a Delft, non fece affari, mise su una bettola e fu peggio. Si dice che n’era lui il più assiduo frequentatore, che asciugava tutto il vino, e che quando la cantina era vuota, toglieva l’insegna, chiudeva la porta, si metteva a dipingere in furia, poi vendeva i quadri, ricomperava vino e ricominciava la vita di prima. Si dice persino che pagasse addirittura coi quadri, e che per conseguenza tutti i suoi quadri si trovassero in casa di mercanti di vino. È difficile, veramente, spiegare come, essendo quasi sempre in bernecche, abbia potuto fare un così grande numero di quadri ammirabili; ma non è men difficile capire in qual maniera si sarebbe compiaciuto tanto di tali soggetti se avesse menato una vita sobria e ordinata. Certo è che, soprattutto negli ultimi suoi anni di vita, fece ogni sorta di stravaganze. Studiò da principio alla scuola di Van Goyen, paesista di grido; ma il genio operò assai più in lui che lo studio; egli indovinò le regole dell’ arte sua; e se qualche volta ha dipinto un po’ troppo nero, come dice uno dei suoi critici, la colpa è di qualche bottiglia di più bevuta a desinare.
Non è lo Steen il solo pittore olandese che abbia la reputazione, meritata o no, di beone. Vi fu un tempo in cui quasi tutti gli artisti passavano una buona parte della giornata nelle taverne, pigliavano cotte favolose, venivano alle mani, ne uscivano pésti e sanguinosi. In un poema sulla pittura di Karel van Mander, il primo che scrisse la storia dei pittori dei Paesi Bassi, v’è un passo contro il vizio dell’ubriachezza e l’abitudine delle risse, che dice fra le altre cose: siate sobrii e fate che al malaugurato proverbio: «Crapulone come un pittore» si sostituisca: «Temperante come un artista.» Il Mieris, per citare soltanto i più famosi, fu un bevitore emerito; il Van Goyen, un briachella; Francesco Halz, maestro del Brouwer, una spugna da vino; il Brouwer, un bettolante incorreggibile; Guglielmo Cornélis e Hondekoeter, devotissimi anch’essi alla bottiglia. Degli altri minori si dice che parecchi morirono ubriachi. E anche nelle morti, la storia dei pittori olandesi presenta mille casi strani. Il grande Rembrandt morì nella strettezza, quasi all’insaputa di tutti; l’Holbema morì ad Amsterdam nel quartiere dei poveri; lo Steen morì nella miseria; Brouwer morì all’ospedale; Andrea Both ed Enrico Verschuring morirono annegati; Adriano Bloemaert morì in duello; Carel Fabritius morì per lo scoppio di una polveriera; Giovanni Scotel morì col pennello in mano d’un colpo d’apoplessia; il Potter morì tisico; Luca di Leida morì avvelenato. Così che tra le brutte morti, lo stravizio e la gelosia, si può dire che una gran parte dei pittori olandesi hanno avuto una sorte ben infelice.
V’è ancora nel Museo di Rotterdam una bella testa del Rembrandt; una scena di briganti del Wouwermam, gran pittore di cavalli e di battaglie; un paesaggio del Van Goyen, il pittore delle spiaggie morte e dei cieli plumbei; una marina del Backhuizen, il pittore delle tempeste; un quadro del Berghem, il pittore dei paesaggi ridenti; uno dell’Everdingen, il pittore delle cascate d’acqua e delle foreste; ed altri quadri italiani e fiamminghi.
Uscendo dal Museo incontrai una compagnia di soldati, i primi soldati olandesi ch’io vedevo, vestiti di scuro, senz’alcun ornamento vistoso, biondi dal primo all’ultimo, coi capelli lunghi, e quasi tutti con un’aria di bonomia che mi faceva parere strano che portassero delle armi. A Rotterdam, una città di più di centomila abitanti, ci sono trecento soldati di presidio! E dire che Rotterdam ha fama, tra le città dell’Olanda, d’essere la più turbolenta e la più pericolosa! Ci fu infatti, tempo fa, una dimostrazione popolare contro il Municipio, la quale non ebbe altra conseguenza che alcuni vetri rotti; ma in un paese come quello, che va coll’oriolo, doveva parere, e parve veramente un gran che; accorse la cavalleria dall’Aja, lo Stato ne fu commosso. Non si deve credere, però, che quel popolo sia tutto zucchero; che anzi, per confessione degli stessi Rotterdamesi, quella che il Carducci chiama santa canaglia è bravamente licenziosa, come in tante altre città di peggior reputazione; e la scarsità delle guardie di polizia è piuttosto un fomite alla licenza, che una prova, come qualcuno potrebbe credere, della pubblica disciplina.
Rotterdam, ho già detto, non è una città letterata nè artistica; è anzi una delle poche città olandesi nelle quali non è nato alcun grande pittore; sterilità che ha comune coll’intera provincia di Zelanda. Ma non è Erasmo la sua unica gloria letteraria. In un piccolo parco, che si stende a destra della città, sulla riva della Mosa, che è come l’Acquasola di Rotterdam, si vede una statua di marmo che i Rotterdamesi innalzarono al poeta Tollens, nato verso la fine dello secolo scorso, morto pochi anni sono. Questo Tollens, chiamato da alcuni, un po’ arditamente, il Béranger dell’Olanda, fu (e in questo solo rassomiglia al Béranger) uno dei poeti più popolari del paese; uno di quei poeti, come ve ne furono tanti in Olanda, semplici, morali, pieni di buon senso, più ricchi anzi di buon senso che d’ispirazione, che trattarono la poesia un po’ come si trattano gli affari, che non scrissero mai nulla che potesse spiacere ai loro savi parenti e ai loro savi amici, che cantarono il loro buon Dio e il loro buon re, che espressero il carattere del loro popolo tranquillo e pratico, badando sempre a dir delle cose giuste, piuttosto che delle cose grandi; e soprattutto, coltivando la poesia a tempo avanzato, da prudenti padri di famiglia, senza rubare un minuto alle faccende della loro professione. Come tanti altri poeti olandesi (di ben’altra natura, però, e di ben altro ingegno che il suo) come per esempio, il Vendel ch’era un cappellaio, l’Hooft ch’era governatore di Muyden, il Van Lennep ch’era procuratore fiscale, il Gravenswaert ch’era consigliere di Stato, il Bogaers ch’era avvocato, il Beets che è pastore, così il Tollens esercitava, insieme colle lettere, un’altra professione: era speziale a Rotterdam, e passava quasi tutta la giornata, anche negli ultimi suoi anni, nella spezieria. Era padre di famiglia e amava teneramente i suoi figliuoli, come si rileva dalle diverse poesie che fece in occasione della nascita del loro primo, secondo e terzo dente. Scrisse canzoni e odi sopra soggetti famigliari e patriottici — fra cui l’inno nazionale dell’Olanda, inno mediocre, che il popolo canta per le strade e i ragazzi nelle scuole — e un poemetto, che è forse la migliore delle sue opere, sopra la spedizione tentata dagli Olandesi verso la fine del secolo XVI nel mare del polo. Il popolo imparò a mente quasi tutte le sue poesie e l’amò e lo predilesse sempre come il suo più fedele interprete e il suo più affettuoso amico. Ma con tutto ciò il Tollens non è considerato in Olanda come un poeta di prim’ordine; molti non lo pongono meno fra quelli che seguono immediatamente i primi, e non son pochi quelli che gli rifiutano sdegnosamente la fronda sacra.
Del resto, se Rotterdam non è una città né letteraria né artistica, ha per compenso uno straordinario numero di istituzioni filantropiche, dei casini splendidi ove si trovan i principali giornali d’Europa, e tutti i comodi e i divertimenti d’una città ricca e civile.
Le osservazioni che ebbi occasione di fare sul carattere e sulla vita degli abitanti, cadranno più a proposito all’Aja. Dirò solo che osservai a Rotterdam, come in tutte le altre città olandesi, che nessuno lascia trasparire ombra di vanità nazionale parlando delle cose proprie. Quel: bello eh? che ne dite eh? che si sente ad ogni momento in altri paesi, là non si sente mai, nemmeno a proposito delle cose universalmente ammirate. Ogni volta ch’io dissi a un rotterdamese che la città mi piaceva, lo vidi fare un atto di leggero stupore. Parlando del loro commercio, delle loro istituzioni, non si lasciano mai sfuggire dalla bocca, non dico una espressione gonfia, ma nemmeno una parola che accenni vanto o compiacenza. Parlano quasi sempre di quello che faranno e quasi mai di quello che hanno fatto. Una delle prime domande che m’intendevo fare quando nominavo la mia patria era: “E le finanze?” Quanto al loro paese, osservai che sanno benissimo tutto quello che può esser utile di sapere, e pochissimo quello che può soltanto piacere di conoscere. Cento cose, cento punti della città che avevo osservati dopo ventiquattr’ore di soggiorno a Rotterdam, molti non li avevano mai veduti, il che prova che non c’è affatto l’uso di andare a zonzo e di guardare in aria. Quando partii, i miei conoscenti mi empirono le tasche di sigari, mi raccomandarono di far dei desinari succulenti e mi diedero dei consigli sulla maniera di viaggiare con economia. Accomiatandomi, non intesi nessuno di quei clamorosi: “Che peccato! ma scriva! ma torni! ma si ricordi di noi!” che mi risonavano all’orecchio in Spagna. Null’altro che strette di mano, uno sguardo e un a rivederci detto a fior di labbra.
La mattina che partii da Rotterdam, vidi nelle strade che attraversai per andare alla stazione della strada ferrata di Delft, uno spettacolo nuovo, tutto olandese: il ripulimento delle case, che si fa due volte la settimana, nelle prime ore della mattina. Tutte le serve della città, con una sopravveste color lilla tempestata di fiorellini, cuffia bianca, grembiale bianco, calze bianche e zoccoli bianchi, colle maniche rimboccate, lavoravano a lavare le porte, i muri e le finestre. Alcune, sedute coraggiosamente sui davanzali, lavavano i vetri colle spugne, volgendo le spalle alla strada, con mezzo il busto sporgente in fuori; altre, inginocchiate sui marciapiedi, nettavan le pietre col canovaccio; altre con siringhe, con schizzetti, con pompe munite di un lungo tubo di gomma elastica, come quelle che s’usano a innaffiare i giardini, stando nel mezzo della strada, vibravano contro le finestre del secondo piano dei vigorosi getti d’acqua, che ricadevano in pioggia dirotta; altre lavavan le vetrate con spugne e cenci legati in cima a canne altissime; altre strofinavan gli anelli e le lastre delle porte; altre, gli scalini delle scale; altre, i mobili portati fuor di casa; i marciapiedi erano ingombri di secchie, di secchiolini, di brocche, di innaffiatoi, di panche; sgocciolava acqua dai muri, correva acqua per la strada, da ogni parte s’incrociavano schizzi e zampilli. E, cosa singolare! mentre il lavoro in Olanda è lento e tranquillo in tutte le sue forme, quello presentava un aspetto affatto diverso. Tutte quelle ragazze avevano il viso acceso, entravano in casa, uscivano, salivano, scendevano, si sbracciavano con una sorta di furia, pigliando degli atteggiamenti acrobatici che facevano risaltare curve temerarie, senza badare a chi passava, se non quanto era necessario per tener lontana la gente, con occhiate gelose, dai marciapiedi e dai muri. Era insomma una gara, un furore di pulizia, una sorta di abluzione generale della città, che aveva qualcosa di puerile e di festoso, e facea fantasticare che fosse un rito d’una religione stravagante, che prescrivesse di purgare la città da qualche infezione misteriosa di spiriti maligni.