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ZELANDA.
Se prima che io mi determinassi a fare un viaggio in Olanda, un professore qualunque di geografia m’avesse fermato allo svolto d’una strada, domandandomi bruscamente: — Dov’è la Zelanda? — sarei rimasto senza parola, e non credo d’ingannarmi, supponendo che un buon numero dei miei concittadini, a cui si facesse quella domanda, non troverebbero subito una risposta. Per gli Olandesi medesimi la Zelanda ha del mistero; pochissimi ci sono stati, e tra questi i più non fecero che attraversarla in battello; quindi se ne parla di rado e come d’un paese lontano. Dalle prime parole che intesi dire ai viaggiatori che salirono con me sul bastimento, quasi tutti belgi e olandesi, m’accorsi che anch’essi avrebbero veduto quella provincia per la prima volta; eravamo dunque tutti curiosi ad un modo; e il bastimento non era ancora partito che avevamo attaccato discorso, e ci aguzzavamo la curiosità reciprocamente, con domande alle quali nessuno sapeva rispondere.
Allo spuntare del sole, il bastimento partì, godemmo per un pezzo la vista del campanile della cattedrale d’Anversa, fatto di trina di Malines, come diceva Napoleone I, che n’era innamorato; e dopo aver toccato il forte di Lillo e il villaggio di Doel, uscimmo dal Belgio ed entrammo nella Zelanda.
Nel punto che si passa per la prima volta la frontiera d’uno Stato, per quanto si sappia che lo spettacolo non cangia tutt’a un tratto, si guarda intorno curiosamente come se tutto dovess’essere cangiato. Tutti infatti s’appoggiarono al parapetto del bastimento come per assistere all’apparizione improvvisa della Zelanda.
Per un buon tratto la curiosità rimase delusa: non si vedevano che le sponde piane e verdi della Schelda, larga come un braccio di mare, e sparsa di banchi di sabbia, su’ quali raccoglievano il volo degli stormi di gabbiani gettando dei leggieri gridi; e il cielo purissimo non pareva punto cielo d’Olanda.
Si navigava fra l’isola di Zuid-Beveland e quella lista di terra che forma la riva sinistra della Schelda, chiamata Fiandra degli Stati o Fiandra Zelandese.
La storia di questa lista di terra è assai curiosa. Per lo straniero che entra in Olanda, essa è come la prima pagina della grande epopea che s’intitola: la lotta col mare. Nel medio evo non era che un vasto golfo con poche isolette. Questo golfo, sul principio del sedicesimo secolo, non esisteva più; con quattrocento anni di lento lavoro lo avevan cangiato in una fertile pianura difesa da dighe, solcata da canali e popolata di villaggi, che si chiamava la Fiandra Zelandese. Quando scoppiò la guerra dell’indipendenza, gli abitanti della Fiandra Zelandese, piuttosto che cedere la loro terra agli eserciti spagnuoli, apersero le dighe, il mare irruppe e distruggendo in un giorno il lavoro di quattro secoli riformò il golfo del medio evo. Finita la guerra d’indipendenza, si ricominciarono i lavori di prosciugamento, e dopo trecento anni la Fiandra Zelandese risalutò il sole e fu restituita al continente, come una figliuola risorta. Così in Olanda le terre sorgono, spariscono e riappaiono, a somiglianza dei regni delle novelle arabe, al tocco delle verghe dei maghi. La Fiandra Zelandese, divisa dalla Fiandra Belga dalla doppia barriera politica e religiosa, e separata dall’Olanda dalla Schelda, conserva i costumi, le credenze, l’impronta intatta del sedicesimo secolo. Le tradizioni della guerra contro la Spagna vi sono ancora vive e parlanti come d’un avvenimento del tempo. La terra è fertile, gli abitanti godono d’una prosperità straordinaria, hanno costumi severi, scuole, stamperie, e vivono così in pace nel loro frammento di patria rinata ieri, fino al giorno che il mare non la ridomandi per una terza sepoltura. Un Belga, mio compagno di viaggio, che mi diede queste notizie, mi fece osservare giustamente che gli abitanti della Fiandra Zelandese, quando inondarono le loro terre, benché già sollevati contro la dominazione spagnuola, erano ancora cattolici, e che per conseguenza era seguito a quella provincia lo strano caso di sprofondarsi nelle acque cattolica, e di tornare a galla protestante.
Il bastimento, con mia grande meraviglia, invece di continuare a discendere la Schelda per girare intorno all’isola di Zuid-Beveland, arrivato a un certo punto, entrò nell’isola infilando uno stretto canale, che l’attraversa da un capo all’altro, o meglio la spacca in due, e congiunge così i due bracci del fiume, che formano l’isola stessa.
Era il primo canale olandese per il quale passavo: fu un’impressione nuova. Il canale è fiancheggiato da due alte dighe che nascondono la campagna; il bastimento scorreva così quasi di soppiatto, come se avesse preso quella via traversa per riuscire improvvisamente alle spalle di qualcuno; e come non v’era una barca nel canale nè un’anima viva sulle dighe, la solitudine e il silenzio davano ancor meglio a quella corsa nascosta l’aria d’un tradimento da pirati.
Uscendo dal canale, si entrò nel braccio orientale della Schelda.
Eravamo nel cuore della Zelanda. A destra avevamo l’isola di Tholen, a sinistra l’isola di Noord-Beveland, dietro quella di Zuid-Beveland, dinanzi quella di Schouwen. Fuori che l’isola di Valcheren, si vedevano tutte le principali isole dell’arcipelago misterioso.
Ma in questo consiste il mistero: quelle isole non si vedevano, s’indovinavano. A destra e a sinistra del fiume larghissimo, davanti e dietro al bastimento, non si vedeva che la linea diritta delle dighe, come una striscia verde a fior d’acqua, e dietro questa striscia, qua e là, cime d’alberi, punte di campanili, comignoli rossi di tetti, che pareva facessero capolino per vederci passare. Non una collina, non un rialto di terra, non una casa scoperta da nessuna parte: tutto era nascosto, tutto pareva immerso nell’acqua; si sarebbe detto che quelle isole erano sul punto d’esser sepolte dal fiume e si guardava ora l’una ora l’altra come per assicurarsi che c’erano ancora. Pareva di attraversare un paese nel giorno del diluvio e si provava un piacere a pensare che si era sur un bastimento. Di tratto in tratto il bastimento si arrestava e qualche passeggiero zelandese scendeva in una barca che si dirigeva verso la riva. Benchè fossi curioso anch’io di visitare la Zelanda, pure guardavo quella gente con un certo sentimento di compassione, come se quelle che parevano isole non fossero che balene mostruose, che si dovessero sprofondare nell’acqua all’avvicinarsi della barca.
Il capitano di bastimento, olandese, passandomi accanto, si soffermò a guardare una piccola carta della Zelanda che avevo tra le mani; io afferrai l’occasione pel ciuffo e lo tempestai di domande. Per mia fortuna m’ero imbattuto in uno di quei pochi Olandesi che hanno comune con noi Latini la debolezza di amar il suono della propria voce.
“Qui, in Zelanda,” mi disse colla serietà d’un maestro che fa la lezione, "le dighe, più ancora che nelle altre provincie, sono quistione di vita o di morte. A marea alta tutta la Zelanda rimane al di sotto delle acque. A ogni diga che si rompesse, sparirebbe un’isola, E il guaio è che qui la diga non deve soltanto resistere all’urto diretto dell’onda; ma ad un’altra forza anche più pericolosa. I fiumi si gettano verso il mare, il mare si getta contro i fiumi, e in questa lotta continua, si formano delle correnti basse che rodono la base delle dighe, sin che le fanno sprofondare tutt’a un tratto, come farebbe una mina ad un muro. Gli Zelandesi debbono stare continuamente all’erta. Quando una diga è in pericolo, ne fanno un’altra più addentro, e aspettano l’assalto delle acque dietro a questa, e così guadagnan tempo, e o rifanno la prima diga, continuano a dare addietro di fortezza in fortezza, o la corrente si svia e son salvi.”
“E non potrebbe darsi,” domandai sempre avido di notizie poetiche, “che un giorno la Zelanda non esistesse più?”
“Tutto il contrario,” mi rispose con mio rammarico; “può venire il giorno in cui la Zelanda non sia più arcipelago ma terraferma. La Schelda e la Mosa portano continuamente limo che rimane in fondo ai bracci del mare e che alzandosi a poco a poco ingrandisce le isole e chiude nella terra città e villaggi ch’erano sulla riva e avevano i loro porti. Axel, Goes, Veere, Arnemiuden, Middelburg, erano città marittime e ora sono città di terra. Verrà dunque un giorno in cui fra le isole della Zelanda non passeranno più che le acque dei fiumi e si stenderà una rete di strade ferrate su tutto il paese, che sarà congiunto al continente, come gli è già congiunta l’isola di Zuid-Beveland. La Zelanda, nella lotta col mare, ingrandisce. Il mare potrà riuscire a qualche cosa dalle altre parti dell’Olanda; ma qui ha la peggio. Lei conosce lo stemma della Zelanda: è un leone che nuota e vi è scritto su: Luctor et emergo.”
Qui rimase qualche momento senza parlare e gli brillava negli occhi un barlume d’alterezza che si estinse subito; poi ricominciò colla gravità di prima:
“Emergo; ma non emerse sempre. Tutte le isole della Zelanda, una dopo l’altra, dormirono per più o men tempo sott’acqua. Tre secoli fa l’isola di Schouwen fu inondata dal mare, che annegò abitanti e bestiami da un capo all’altro e la ridusse un deserto. L’isola di Noord-Beveland fu sommersa tutta intera poco tempo dopo, e per parecchi anni non si videro più che le punte dei campanili fuor dell’acqua. L’isola di Zuid-Beveland ebbe la stessa sorte verso la metà del quattordicesimo secolo. L’isola di Tholen, la stessa sorte in questo medesimo secolo, nel 1825. L’isola di Walcheren la stessa sorte nel 1808, e nella città di Middelburg, sua città capitale, lontana parecchie miglia dalla costa, ci fu l’acqua sino ai tetti.”
A sentir sempre parlar d’acqua, d’inondazioni, di paesi sommersi, ero ridotto che mi pareva strano di non essere ancora annegato. Domandai al capitano che gente fosse quella che stava in quei paesi invisibili, coll’acqua sotto i piedi e sopra la testa.
“Agricoltori e pastori,” mi rispose. “Noi diciamo che la Zelanda è un gruppo di fortezze difese da un presidio di agricoltori e di pastori. In fatto d’agricoltura la Zelanda è la provincia più ricca dei Paesi Bassi. La terra d’alluvione di queste isole è d’una fertilità meravigliosa. Il frumento, la colza, la robbia, il lino vi fanno come in pochissimi altri paesi. Vi sono dei bestiami stupendi e dei cavalli colossali, più grandi ancora che i cavalli fiamminghi. Il popolo è bello e forte, conserva i suoi costumi antichi e vive contento nella sua prosperità e nella sua pace. La Zelanda è un paradiso nascosto.”
Mentre il capitano mi faceva questo discorso, il bastimento entrava nel canale di Keete che divide l’isola di Tholen dall’isola di Schouwen, famoso per il guado che vi fecero gli Spagnuoli nel 1575 com’è famoso il braccio orientale della Schelda per il guado del 1572. Tutta la Zelanda è piena di memorie di quella guerra. Questo piccolo arcipelago di sabbia, mezzo sepolto nel mare, per le particolari corrispondenze che vi riteneva Guglielmo d’Orange, antico signore di molte terre nelle isole, e per gl’impedimenti d’ogni natura che opponeva agl’invasori, era il focolare della guerra e dell’eresia, e il Duca d’Alba smaniava d’impadronirsene. Quindi seguirono su quelle rive delle lotte accanite, che riunivano tutti gli orrori delle battaglie di terra e delle battaglie di mare. I soldati guadavano i canali di notte, stretti gli uni agli altri, coll’acqua alla gola, minacciati dalla marea, flagellati dalla pioggia, fulminati dalle rive; i cavalli e le artiglierie affondavano nel fango; i feriti eran travolti dalla corrente sepolti vivi nelle fitte; l’aria suonava di voci tedesche, spagnuole, italiane, fiamminghe, vallone, le fiaccole illuminavano qua e là i grandi archibugi, i pennacchi pomposi, i volti strani, e le battaglie parevano funerali fantastici; ed erano davvero i funerali della grande monarchia spagnuola che s’annegava lentamente nell’acque dell’Olanda, coperta di maledizioni e di fango. Chi ha peccato di soverchia tenerezza per la Spagna, se vuol fare ammenda, non ha che da andare in Olanda. Non ci son forse mai stati due popoli che avessero un maggior numero di buone ragioni per detestarsi con tutta la forza dell’anima, e che abbian fatto valere più rabbiosamente tutte queste buone ragioni. Mi ricordo, per notare uno solo dei mille contrasti, dell’impressione che mi faceva l’udir parlare di Filippo II in termini così diversi da quelli in cui ne avevo inteso parlare pochi mesi prima di là dai Pirenei. In Spagna il meno che se ne dicesse era gran re; in Olanda, tiranno vigliacco.
Il bastimento entrò fra l’isola di Schouwen e la piccola isola di San Philipsland, e in pochi minuti sboccò nel largo braccio della Mosa, chiamato Krammer, che divide l’isola di Overflakkee dal continente. Pareva di navigare per una catena di grandi laghi. Le rive eran lontane e presentavano ancora l’aspetto delle rive della Schelda: dighe a perdita d’occhio, dietro le dighe cime d’alberi, punte di campanili e tetti di case nascoste, che davano al paesaggio un’aria di mistero e di solitudine. Solamente su qualche sporgenza delle rive, che formava quasi una breccia negli immensi bastioni delle isole, si vedeva come un bozzetto di paesaggio olandese, una casetta colorita, un mulino a vento, una barca, che parevano la rivelazione d’un segreto, fatta per destare la curiosità dei viaggiatori, e deluderla, appena desta.
Tutt’a un tratto avvicinandomi alla prora del bastimento, dove sono le terze classi, feci una gratissima scoperta. V’era un gruppo di contadini, uomini e donne, vestiti alla zelandese, non ricordo di quale isola, poichè il costume cangia da isola a isola, come cangia il dialetto, che è un misto d’olandese e di fiammingo, se pure si può dir così di due linguaggi che non hanno che piccolissime differenze. Gli uomini erano tutti vestiti ad un modo. Avevano un cappello di feltro, rotondo, con un gran nastro ricamato; una giacchetta di panno scuro, stretta, corta da coprire appena il fianco, aperta in modo da lasciar vedere una specie di panciotto listato di rosso, giallo e verde, chiuso sul petto da una fila di bottoni d’argento l’uno che toccava l’altro, come gli anelli d’una catena; un paio di mezzi calzoni di panno, del colore della giacchetta, stretti intorno alla vita da una cintura munita d’una gran borchia d’argento cesellata; e infine la cravatta rossa e le calze di lana fino al ginocchio. In somma, un po’ preti dalla cintura in giù, e dalla cintura in su un po’ arlecchini. Uno di essi aveva per bottoni delle monete: uso assai comune. Le donne avevano un cappello di paglia della forma d’un cono tronco, altissimo, che pareva un secchiolino rovesciato, intorno al quale svolazzavano dei larghi nastri azzurri; una veste di color scuro aperta sul petto che lasciava vedere una camicia bianca ricamata; le braccia nude dal gomito in giù; e due enormi orecchini d’oro o dorati di varie forme stravaganti, che sporgevano innanzi fin sulle guancie. Per quanto mi sforzassi di fare come fa Vittor Ugo in viaggio, di ammirar tutto come un bruto, non riuscii a persuadermi che quelle foggie di vestire fossero belle. Ma a questa sorta di contrarietà ero preparato. Sapevo che in Olanda ci si va per vedere del nuovo più che del bello, e del buono altrettanto che del nuovo; e perciò m’ero predisposto più all’osservazione che all’entusiasmo. E di quella prima impressione poco grata al mio gusto pittoresco, mi confortai pensando che quei contadini sapevano certamente tutti leggere e scrivere, che forse la sera prima avevano studiato a memoria una canzone del loro grande poeta Jacob Catz, e che probabilmente si recavano col loro bravo programma in tasca a qualche convegno rurale, dove avrebbero preso la parola per confutare cogli argomenti della loro modesta esperienza le proposte d’un dotto agronomo di Goes o di Middelburg. Ludovico Guicciardini, gentiluomo fiorentino, autore d’una bell’opera sui Paesi Bassi, stampata in Anversa nel secolo XVI, dice che in Zelanda non v’è quasi uomo nè donna che parli francese e spagnuolo, e che moltissimi parlano italiano. Questa che forse era una esagerazione anche ai suoi tempi, sarebbe, detta ora, una favola; ma è certo però che fra gli abitanti della campagna zelandese si trova una cultura intellettuale straordinaria, superiore a quella dei contadini francesi, belgi e tedeschi, e a quella di molte altre provincie dell’Olanda.
Il bastimento girò intorno all’isola di San Philipsland e ci trovammo fuori della Zelanda.
Così questa provincia misteriosa prima che ci entrassimo, ci parve anche più misteriosa quando ne fummo usciti. L’avevamo attraversata e non l’avevamo vista; ci eravamo entrati e ne uscivamo colla medesima curiosità. La sola cosa che avevamo veduta era che la Zelanda è una provincia che non si vede. Ma s’ingannerebbe però chi credesse che sia un paese misterioso per la sola ragione che è un paese nascosto. Tutto, in Zelanda, è mistero. Prima d’ogni altra cosa, come s’è formata? Era un gruppo di piccolissime isole d’alluvione, non separate che da canali, e disabitate, le quali, come credono alcuni, si son riunite e han formato isole maggiori? o era, come credono altri, terraferma, quando la Schelda s’andava a versare nella Mosa? Ma lasciando anche stare l’origine, in che altro paese del mondo seguono le cose che seguono in Zelanda? In che paese i pescatori pigliano colle reti una sirena, e il marito dopo averla domandata invano piangendo, getta, per vendicarsi, un pugno di sabbia, profetando che quella sabbia colmerà i porti delle città, e la profezia s’avvera? In che paese, come sulle rive dell’isola di Walcheren, le anime dei morti smarrite nel mare, vanno a svegliare i pescatori per farsi condurre in barca alle coste d’Inghilterra? In che paese le tempeste del mare portano, come sulle rive dell’isola di Schouwen, dei cadaveri rapiti al polo, mostri metà uomo e metà barca, mummie vestite d’un tronco d’albero che nuota; e se ne può ancora veder uno nella casa municipale di Zierikzee? In che paese, come presso Wemeldinge, avviene che un uomo cada a capofitto in un canale, vi resti immerso un’ora, ci vegga la moglie e il figliuolo morti che lo chiamano dal paradiso, e ne sia estratto vivo e racconti il prodigio a Vittor Ugo, che lo tiene per vero e lo commenta, concludendo che l’anima può uscire per qualche tempo dal corpo e poi ritornarci? In che paese come presso Domburg, si pescano, a marea bassa, dei tempii antichi, e delle statue di divinità sconosciute? In che paese, come a Wemeldinge, la spada d’un capitano spagnuolo, Mondragone, serve di parafulmine a una torre? In che paese, come nell’isola di Schouwen, le donne infedeli si fanno passeggiare nude nate per le strade della città, con due pietre appese al collo e un cilindro di ferro sulla testa? Andiamo, quest’ultima meraviglia non si vede più; ma le pietre esistono ancora e ognuno le può vedere nella casa municipale di Brauwershaven.
Il bastimento entrò in quella parte del braccio meridionale della Mosa che si chiama Volkerak; la scena era sempre la stessa: dighe e poi dighe, punte di campanili e case nascoste, qualche bastimento qua e là; una sola cosa era cangiata, il cielo.
Vidi allora per la prima volta il cielo olandese nel suo aspetto ordinario, e assistetti a una di quelle battaglie di luce, proprie dei Paesi Bassi, che i grandi paesisti d’Olanda ritrassero con una efficacia insuperabile. Fino allora il cielo era stato sereno, era una bella giornata d’estate, le acque azzurre, le rive verdissime, l’aria calda e non un fiato di vento. Tutt’ad un tratto, una nuvola densa nascose il sole, e in men che non si dice, ogni cosa cambiò aspetto in una maniera da far pensare che si fosse cangiato tutt’a un tratto di stagione, d’ora, di latitudine. Le acque diventaron cupe, il verde delle rive si fece smorto, l’orizzonte si nascose dietro un velo grigio, ogni cosa apparve come circonfusa d’una luce crepuscolare che ne sfumava i contorni, e si levò una brezza maligna che metteva freddo nelle ossa. Pareva d’essere in dicembre, si sentiva l’uggia dell’inverno e quell’inquietudine che mette nel cuore ogni minaccia improvvisa della natura. Poi, da tutto il cerchio dell’orizzonte cominciarono a salir nuvole color di piombo, mobilissime, che pareva cercassero con una specie d’impazienza penosa una direzione e una forma, e poi le acque a incresparsi e a rigarsi di rapidi riflessi luminosi, di larghe striscie verdastre, violacee, bianchiccie, color di creta, nerognole; e infine quell’irritazione della natura si risolvette tutt’a un tratto in una pioggia violenta e fitta, che confuse cielo, acqua e terra in un solo colore grigiastro, appena interrotto da una sfumatura un po’ più fosca delle rive lontane e da qualche bastimento a vela che appariva qua e là come un’ombra ritta sulle acque del fiume.
“Eccoci ora veramente in Olanda” disse il capitano del bastimento, avvicinandosi a un gruppo di passeggieri, che contemplavano quello spettacolo. “Questi cambiamenti di scena, in così breve tempo, non si vedono che qui.”
Poi interrogato da uno di noi, soggiunse:
“L’Olanda ha una meteorologia tutta sua. L’inverno è lungo, l’estate breve, la primavera non è che la fine dell’inverno, e nondimeno, come vedono, di tratto in tratto, anche in estate, l’inverno fa capolino. Noi sogliamo dire che in Olanda si vedono le quattro stagioni in un giorno. Abbiamo il cielo più incostante del mondo. Per questo parliamo sempre del tempo. L’atmosfera è lo spettacolo più vario che abbiamo. Se vogliamo veder qualche cosa che ci ricrei, dobbiamo guardare in su. Ma è un clima ben tristo. Il mare ci manda la pioggia da tre parti, i venti si scatenano sul paese senza trovar resistenza; anche nelle più belle giornate, la terra esala dei vapori che oscurano l’orizzonte; per parecchi mesi l’aria non ha alcuna trasparenza. Vedranno l’inverno: vi son dei giorni, che si direbbe non s’abbia mai più da rivedere il sereno; l’oscurità par che venga dall’alto, come la luce; il vento di nord-est ci porta l’aria agghiacciata dei poli e solleva il mare con una furia e un fracasso che par che debba subissare le coste.” Qui si voltò verso di me, e disse sorridendo: “Si deve star meglio in Italia.”
Poi si rifece serio e soggiunse: “Però, ogni paese ha il suo male e il suo bene.”
Il bastimento uscì dal Volkerak, passò dinanzi alla fortezza di Willemstad, innalzata nel 1583, dal principe d’Orange, ed entrò nel Hollandsdiep, gran braccio della Mesa, che separa l’Olanda meridionale dal Brabante del Nord. Una grande distesa d’acqua, due strisce oscure a destra e a sinistra e un cielo color di cenere, eran tutto lo spettacolo che si vedeva dal bastimento. Una signora francese esclamò in mezzo al silenzio generale, tirando uno sbadiglio: “Com’è bella l’Olanda!” Tutti risero, fuor che gli Olandesi.
“Eh, signor capitano,” uscì a dire uno riattaccando il discorso, un vecchietto belga, una di quelle cariatidi da caffè che caccian la loro politichina in tutti i buchi: “ogni paese ha il suo bene e il suo male, e noialtri Belgi e Olandesi avremmo dovuto esser persuasi di questa verità, e fare a compatirci, per veder di vivere d’amore e d’accordo. Quando si pensa che ora saremmo uno statino di nove milioni, noi colle nostre industrie, voialtri col vostro commercio, con due capitali come Amsterdam e Bruxelles, e due città commerciali come Anversa e Rotterdam! Si conterebbe per qualche cosa nel mondo, eh, capitano?”
Il capitano non rispose. Un altro Olandese disse: “Già, colla guerra religiosa in casa dodici mesi dell’anno.”
Il vecchietto belga, un po’ sconcertato, continuò il discorso a bassa voce con me: “È un fatto, signor mio. È stata una corbelleria, specialmente da parte nostra. Lei vedrà l’Olanda: Amsterdam non è Bruxelles, no davvero, e il paese è piatto e noioso quanto si può dire; ma per quel che sia prosperità, ci rivende. Si figuri che spendono il fiorino, che val due lire e centesimi, come noi spendiamo la lira. Se ne accorgerà dai conti degli alberghi. Son due volte più ricchi di noi. La colpa è stata di Guglielmo I, che voleva fare un Belgio olandese e ci ha spinto agli estremi. Lei sa come sono seguite le cose ec.”
Nell’Hollandsdiep cominciammo a veder barconi, piccoli bastimenti da pesca e qualche grande naviglio proveniente da Hellewoetsluis, grande porto marittimo, posto sulla riva destra del braccio della Mosa chiamato Haringvliet, presso la foce, dove s’arrestano quasi tutti i bastimenti che fanno il viaggio delle Indie. La pioggia cessò, il cielo, a poco a poco, quasi a malincuore, si rifece in parte sereno, e subito le acque e le rive ripresero i loro colori vivi e freschi, e risentimmo l’estate.
In breve tempo il bastimento giunse vicino al villaggio di Moerdijk.
Là si vede uno dei più grandi ponti del mondo.
È un ponte di ferro, lungo un miglio e mezzo, sul quale passa la strada ferrata che va a Dordrecht e a Rotterdam. Di lontano presenta l’aspetto come di quattordici enormi edifizi eguali e schierati a traverso il fiume, parendo un edifizio ognuno dei quattordici archi altissimi che sormontano in forma di volta il piano su cui scorrono i treni. A passarci su — ci passai pochi mesi dopo ritornando in Olanda — non si vede altro che acqua e cielo, da tanto che è largo il fiume; e si prova un sentimento quasi di paura, come se si fosse sul mare, e il ponte dovendo finire tutt’a un tratto, il treno avesse da un momento all’altro a dare un tuffo nell’acqua.
Il bastimento voltò a sinistra passando dinanzi al ponte, e infilò uno strettissimo braccio della Mosa, chiamato Dordsche kil, fiancheggiato da dighe, che ha più l’aspetto di canale che di fiume. Era già la settima svoltata che si faceva dopo il passaggio della frontiera.
Passando per il Dordsche kil cominciammo a vedere intorno a noi qualche cosa che ci annunziava la vicinanza d’una grande città. Lunghe file di alberi sulle sponde, cespugli, casette, canali a destra e a sinistra, e un via vai di barche e di barconi. Fra i passeggieri si vedeva un certo movimento, si sentiva dire qua e là: — Dordrecht, — vedremo Dordrecht; — pareva che tutti si disponessero a qualche spettacolo straordinario.
Lo spettacolo non si fece aspettare, e fu straordinario davvero.
Il bastimento svoltò un’ottava volta, a destra, ed entrò nell’Oude-Maas, o vecchia Mosa.
Dopo pochi minuti si videro le prime case dei dintorni della città di Dordrecht.
Fu come l’apparizione improvvisa dell’Olanda, la soddisfazione istantanea di tutte le nostre curiosità, la rivelazione di tutti i misteri che ci tormentavano la fantasia; fu come lo svegliarsi in un mondo nuovo.
Si vedevano da tutte le parti altissimi mulini a vento che giravano le braccia; casine sparpagliate lungo le rive, di mille forme strane, come villette, padiglioni, chioschi, capanne, cappelle, teatrini, coi tetti rossi, le mura nere, azzurre, rosee, cinerine, con contorni bianchi come la neve intorno alle finestre e alle porte. In mezzo alle case, canali e canaletti; davanti alle case e lungo i canali, gruppi e file di alberi; bastimenti fra casa e casa; barchette davanti alle porte; vele in fondo alle strade; antenne, bandierine di bastimenti e braccia di mulino sporgenti confusamente di sopra gli alberi e di là dai tetti; ponti, piccoli scali, giardinetti sull’acqua, mille cantucci, bacinetti, seni, sbocchi, crocicchi di canali, nascondigli di barchette, un andare e venire di uomini, di donne e di bambini dal fiume alla riva, dai canali in casa, dai ponti sui barconi; uno spettacolo vario e mobile; per tutto acqua, colori, cose piccine, forme fanciullesche, tutto lustro e fresco, un’ostentazione ingenua di leggiadria, un misto di primitivo e di teatrale, di gentile e di ridicolo, un po’ chinese, un po’ europeo, un po’ di nessun paese; con un’aria beata di pace e d’innocenza.
Così mi apparì per la prima volta Dordrecht, una delle più vecchie, e insieme delle più fresche e allegre città dell’Olanda; regina del commercio olandese nel medio evo; madre feconda di pittori e di dotti; onorata dalla prima assemblea dei deputati delle Provincie unite nell’anno 1572; sede in vari tempi di sinodi memorabili; e particolarmente famosa per quell’assemblea dei teologi protestanti del 1618, che fu come il Concilio Ecumenico della Riforma, e definì la terribile controversia religiosa tra Arminiani e Gomaristi, fissando la forma della religione nazionale, e dando principio a quella serie di torbidi e di persecuzioni, che finì col malaugurato supplizio del Barnewelt e il sanguinoso trionfo di Maurizio d’Orange. Dordrecht è ancora presentemente una delle più floride città commerciali delle Provincie unite per la sua agevolissima comunicazione col mare, col Belgio e coll’interno dell’Olanda. A Dordrecht arrivano le immense provvigioni di legna che scendono per il Reno dalla Foresta Nera e dalla Svizzera, i vini del Reno, la calce, i cementi, le pietre; nel suo piccolo porto è un via vai continuo di vele, di nuvoli di fumo e di bandierine, che le portano i saluti di Arnhem, di Bois-le-Duc, di Nimega, di Rotterdam, di Anversa e di tutte le sue sorelle misteriose della Zelanda.
Il bastimento si soffermò pochi minuti a Dordrecht, e in quei pochi minuti, guardando le case più vicine, vidi mille piccole cose nuove, inaspettate, prette olandesi, che mi misero addosso una gran smania di scendere, di toccare, di sapere. Ma pensando che avrei visto le stesse cose e molte altre di più a Rotterdam, vinsi la curiosità e stetti a bordo. Il bastimento partì, voltò a sinistra (era la nona svoltata) ed entrò in uno stretto braccio della Mosa chiamato de Noord, uno dei mille fili della inestricabile rete di acqua che copre l’Olanda meridionale.
Il capitano mi si avvicinò; io lo cercavo per pregarlo di spiegarmi sulla carta la situazione di Dordrecht, che, così a occhio, mi pareva singolarissima. È singolarissima in fatti. Dordrecht è posta sull’estremità d’un tratto di terra separato dal continente, che forma un’isola in mezzo alle terre, un crocicchio di fiumi, metà fatto dalla natura, metà dall’uomo, un pezzo di Olanda circondato e imprigionato dalle acque, come un battaglione sopraffatto da un esercito. Da una parte lo cinge il fiume Merwede, dall’altra la vecchia Mosa, dall’altra il Dordsche kil, dall’altra l’arcipelago di Bies-bosch, attraversato dalla nuova Merwede, largo corso d’acqua formato dalla mano dell’uomo. L’imprigionamento di questo spazio di terra su cui giace Dordrecht, è un episodio d’una delle grandi battaglie dell’Olanda coll’acqua. L’arcipelago di Biesbosch non esisteva prima del secolo decimoquinto, e si stendeva in quel luogo una bella pianura sparsa di villaggi popolosi. Nella notte del 18 novembre del 1421, le acque del Waal e della Mosa ruppero le dighe, distrussero più di settanta villaggi, annegarono quasi centomila abitanti e frastagliarono quella pianura in più di cento isolette, lasciando ritta, in mezzo a tante rovine, una sola torre, chiamata casa Merwede della quale si vedono ancora gli avanzi. Così Dordrecht fu separata dal continente, e fece la sua comparsa sulla terra l’arcipelago di Biesbosch, il quale tanto per mostrare che ha una ragione qualunque di esistere, offre del fieno, delle canne e dei giunchi a un piccolo villaggio che si formò come un nido di rondini sur una delle dighe circostanti. Ma non è tutta qui la singolarità della storia di Dordrecht. La tradizione racconta, molti credono e qualcheduno sostiene che Dordrecht, tutta la città di Dordrecht, si noti bene, colle sue case, coi suoi mulini, coi suoi canali, abbia fatto, al tempo di quella memorabile inondazione, una breve passeggiata, si sia cioè trasportata di sana pianta da un luogo all’altro come l’accampamento d’un esercito; e che per conseguenza gli abitanti dei paesi vicini che si recarono dopo la catastrofe alla loro città, non ce l’abbiano più trovata, e sian rimasti, figuriamoci come! E questo prodigio si spiega col fatto che Dordrecht è fondata sur uno strato d’argilla, e che questo strato d’argilla sarebbe scivolato sulla massa di torba che forma la base del suolo. E io la scrivo qui come l’ho udita e come l’ho letta.
Prima che il bastimento uscisse dal canale de Noord, la mia speranza di vedere il primo tramonto di sole in Olanda, fu delusa da un altro improvviso cangiamento di tempo. Il cielo si oscurò, le acque si fecero livide e l’orizzonte scomparve dietro un velo denso di vapori.
Il bastimento sboccò nella Mosa e voltò, per la decima volta, a sinistra.
In quel punto la Mosa, che travolge con sé prigioniere le acque del principal braccio del Reno, il Vaal, e riceve quelle del Leck e dell’Yssel, è larghissima e le sue sponde son fiancheggiate da lunghe file di alberi e sparse di case, di officine, di opifici, di arsenali, che spesseggiano via via che ci s’avvicina a Rotterdam. Per poco che si conosca la storia fisica d’Olanda, la prima volta che si vede la Mosa, e che si pensa agli straripamenti memorabili, alle devastazioni, alle trasformazioni, alle mille calamità e alle vittime infinite di quel fiume capriccioso e terribile, si guarda con una sorta di curiosità inquieta, come si guarda un brigante famoso, e si giran gli occhi sulle dighe con un sentimento quasi di soddisfazione e di gratitudine, come, al veder passare un brigante ammanettato, si giran gli occhi sui carabinieri. Mentre io cominciavo a cercar cogli occhi Rotterdam, un passeggiere olandese raccontava che quando la Mosa è gelata, la corrente che sopraggiunge dai paesi men freddi, investe lo strato di ghiaccio che copre il fiume, lo spezza, ne solleva con un terribile fracasso dei massi enormi, li scaglia contro le dighe, li ammonta in mucchi smisurati che arrestano e fanno straripare le acque. Allora segue una battaglia strana. Alle minaccie della Mosa gli Olandesi rispondono col fuoco. Accorre l’artiglieria, e a scariche di mitraglia risolve in una tempesta di scheggie e in una pioggia di brina le torri e le barricate di ghiaccio che si oppongono alla corrente. “Noia” concluse il passeggiere “che abbiamo noialtri Olandesi soltanto, questa di dover pigliare i fiumi a cannonate.”
Quando si arrivò in vista di Rotterdam, imbruniva e piovigginava; quindi vidi appena come a traverso un velo una confusione immensa di bastimenti, di case, di mulini a vento, di torri, d’alberi, di gente in moto sui ponti e sulle dighe; lumi da ogni parte; una gran città d’un aspetto non mai visto prima d’allora; e che la nebbia e l’oscurità mi nascosero ben presto. Quando mi fui accomiatato dai miei compagni di viaggio, ed ebbi messo in ordine il mio bagaglio, era notte. “Tanto meglio;” dissi salendo in una carrozza “vedrò per la prima volta una città olandese di notte, che dev’essere uno spettacolo nuovo.” E in fatti il Bismark, quando fu a Rotterdam, scrisse a sua moglie che di notte vedeva dei fantasmi sui tetti.