< Opere minori 1 (Ariosto)
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Egloga, poemetto storico
Elegie e Capitoli - Capitolo III Rime varie


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(poemetto storico.)




Delle precedenti edizioni di quest’Egloga, dell’occasione per cui venne composta e di ogni altra cosa che può chiarirne le non arcane allusioni, si è già parlato nelle note da noi scelte o rifatte o novamente fatte per la medesima. Del pregio intrinseco di essa, troppo alcerto superiore per ciò che a storia ha riguardo di quello che a poesia, giudicheranno facilmente i lettori. A noi par merito dell’opera il confermare il detto da tutti gli altri illustratori colla testimonianza dell’incerto ma informatissimo autore della Vita di Alfonso I, il quale ci accadde già di citare in altre pagine di questo volume. Con che altre circostanze, e in ispecie preparatorie, verranno a rannodarsi a quel fatto bruttissimo, e che parrebbe strano e incredibile, se più strana e più deforme non paresse la gelosia fanciullesca e la brutale crudeltà del prete Ippolito verso il suo bastardo fratello, cui la parzialità o l’indolenza vigliacca e colpevole del duca lasciata avevano senza alcuna punizione.


«Nel 1506 (scrive il supposto Pistofilo) avvenne che, per istigazione diabolica, il signor don Ferrante, fratello legittimo del... duca Alfonso, e don Giulio suo fratello naturale, consultando lungamente insieme, deliberarono d’uccidere esso duca; tratti anco in tal peccato dal traditore Albertino Boschetti, che al detto don Ferrante proponea il dominio di Ferrara e a don Giulio dava altre speranze: benchè fu detto che don Giulio s’indusse di volere acconsentire a tanto misfatto non per odio che portasse al duca, ma per altra speranza, e per potersi vendicare contra il cardinale Ippolito suo fratello; il quale, per causa di donne, secondo che s’intese, nella campagna di Belriguardo, stando esso proprio a vedere, gli avea con stecchi acuti fatto cavar gli occhi; benchè poi, per grazia di Dio e de’ rimedii umani, fosse sanato, non essendo gli occhi spiccati del tutto...

«Trattato, dunque, tal tradimento, ed aspettandosi l’opportunità d’eseguirlo, piacque a Dio, per la sua bontà infinita, obviare... a tanto peccato, che non potea succedere senza la morte e ruina di molti altri: e fu scoperta la cosa, e preso il detto conte Albertino, Gherardo de’ Roberti suo genero, ed un Franceschino da Reggio, cameriero del detto signor don Ferrante. Ed esaminati tutti tre, confessarono il fatto; e ritrovati conscii e partecipi del trattato in crimine lesæ maiestatis, furono condotti dal Castel vecchio sopra un carro, insieme, su la piazza di Ferrara; e quivi, sopra uno eminente tribunale, per mano di un mastro di giustizia, vestito di calze di scarlatto ed uno giupone di raso cremesino, furono l’uno dopo l’altro incoppati e squartati, e le teste loro poste in cima della torre del palazzo della Ragione; ove stettero molti anni.

«Preso che fu il conte Albertino, don Giulio se ne fuggì a Mantova; e don Ferrante, che non seppe o non ebbe tempo di fuggire, benchè ne fosse avvertito, fu distenuto e condotto in Castel vecchio; ed in breve fu anco condotto da Mantova don Giulio: e benchè per la confessione dell’uno e dell’altro avessino meritato la morte, nondimeno il signor duca Alfonso ebbe più rispetto alla fraterna pietade, che alla crudele deliberazione fatta da essi nella persona sua. Così, per riverenza di Dio, procedendo alquanto mitemente, elesse di servarli in vita, ma confinarli in perpetua carcere; e feceli porre ambedue in una camera della torre di Castel vecchio, verso settentrione, che guarda lungo la Giudecca, ove stettero con un servitor solo...; ed erano serviti e trattati benissimo del vivere e vestire, e secondo che essi stessi sapevano domandare: e furono dal signor duca molte delle loro robe distribuite a’ lor servitori...

«Fu poi anco condotto da Roma un Gian, che era partecipe del trattato; e fu, di ordine di papa Giulio II, consegnato a chi il prefato duca mandò per esso. Costui era stato suo cantore, ed era venuto in tanto favore seco, ch’esso duca gli avea dato e fatto avere beneficii per sino a ottocento scudi d’entrata. Condotto a Ferrara, fu posto in una gabbia di ferro, fuori della suddetta torre, dalla parte di settentrione, di mezzo verno, con un paro di calze di tela, un grigio semplice sopra la camicia; avendogli tagliato l’unghie de’ piedi sino sul vivo. E dopo che in essa gabbia fu stato alquanti giorni, ad imitazione di Giuda traditore, s’impiccò da sè una notte, con una tovaglia che serviva da mandargli in gabbia il mangiare. Ed è da sapersi che, quando fu condotto da Roma, a pena lo potero guidare salvo sino in Castello; chè i fanciulli ed il popolo, per l’amore che portavano al lor signore, lo volevano lapidare: ma non potè già fuggire che non gli fossero i peli della barba strappati, e di molte guanciate e pugni datogli nel mostaccio; poi appiccato per un piede in mezzo al Po, ad un alto stilo, sopra il ponte di Castel Tedaldo, fin che cadette nell’acqua.»

Anche Francesco Inghirami, primo fra gli editori dell’intera Egloga, compendiando le Antichità Estensi del Muratori, aveva fatto avvertire, «che la cospirazione ebbe origine da frivoli motivi; da gare, cioè, di bellezza, le quali giunsero a tale, che dal cardinale Ippolito si tentò di far cavare gli occhi a Giulio, che con essi le ferraresi donne vantavasi innamorare. Questi, concepito contro di quello un odio implacabile, cominciò a tramarne la morte. Pur nondimeno, nulla osava per timore del duca. Ma scoperto alfine che Ferrante lagnavasi d’esser nato un anno dopo Alfonso suo fratello regnante, più del quale stimavasi atto a governare, diedesi a stimolare l’ambizioso suo animo contro lo stesso duca; e su questo, ambedue di concerto, andarono ideando varie maniere di veleni o di ferite, per privarlo di vita.»




EGLOGA.1




TIRSI, MELIBEO.


     Tirsi.Dove vai, Melibeo, dove sì ratto;
Or che da2 paschi erbosi alle fresc’onde
3Col gregge anelo ogni pastor s’è tratto;
     Or che non pur crollar vedi una fronde;
Or che ’l verde ramarro all’ombra molle
6Della spinosa siepe si nasconde?
     Non odi che risuona il piano e il colle
Del canto della stridula cicada?
9Non senti che la terra e l’aria bolle?
     Melibeo.Tirsi, qualor bisogna andar, si vada;
Nè si resti per caldo nè per gelo,
12Nè per pioggia. nè grandine che cada.
     Anch’io saprei sotto l’ombroso velo

D’un olmo antico o d’un fronzuto faggio
15Godermi sin che si temprasse il cielo:
     Ma più che venti miglia ho di vïaggio,
E qui, prima che sia l’ora d’aprire
18Alle lanose torme, a tornar aggio.
     Mopso non lungi mi dovría seguire,
Ch’ambi a condurre andiam pecore e buoi,
21Che Titiro a Feréo3 solea notrire.
     Tirsi.Cómprili tu, che gli abbiano esser tuoi?4
O pur di Mopso? pur altri t’invia,
24Forse più ricco spenditor di voi?
     Melibeo.Io so ben che tu sai che nè la mia
Nè la condizïon di Mopso è tale,
27Ch’abbi a pensar che per noi questo sia.
     Tanto di chi ne manda il poter sale,
Che dietro lui la nostra umil fortuna
30A mille gradi non può batter l’ale:
     Mandaci Alfenio,5 Alfenio che raduna
Ciò ch’esser di Feréo prima solea,
33Campo, pasco, orto, ovil, bosco e lacuna.
     Così, se al pensier l’opra succedea,
Feréo non a lui solo é mandre e ville,
36Ma, quel ch’è più, la vita tôr volea.
     E cadean con Alfenio più di mille,
E davamo ancor noi forse in le reti,
39Se Feréo le tendea ben come ordìlle.
     Io ho da dirti mille altri secreti,
Da farti uscir di te; ma quella fretta
42Che gir mi fa, mi fa tenerli cheti.
     Tirsi.Sinchè sia giunto Mopso almeno aspetta:
Intanto quel che puoi narrar mi narra,
45E stiamci qui su questa fresca erbetta.
     Se ’l fai, ti do la fede mia per arra
Di star un giorno integro a tuo comando,
48O vogli con la falce con la marra.
     Melibeo.Villan sarei s’io tel negassi, quando
Mi preghi tanto: ma non stiam qui fermi;
51Gli è meglio passo passo andar parlando.

     Tirsi.Non so a cui possa o debbia fede avermi,
Se con quei che ci son tanto congiunti
54Non possiam star securamente inermi.
     Melibeo.Li mal consigli che v’ha Jola6 giunti,
A quella cupidigia di Fereo7
57I molli fianchi han stimulati e punti.
     Ma che sia Jola d’ogni vizio reo
Maraviglia non è, chè mai di volpe
60Nascer non vidi pantera nè leo.
     Egli ha cui simigliar nelle sue colpe,
Che la malignità patema ha inclusa
63Nell’anima, nell’ossa e nelle polpe.
     Tirsi.Nol partorì ad Eraclide Ardeusa,8
Nascosamente compressa da lui
66Nelli secreti lustri di Padusa?9
     Melibeo.Così fu mai d’Eraclide costui,
Come son’io d’un asino o d’un bue:
69Nacque nel suo, ma il seme era d’altrui.10
     Emofil, tra’ pastori orrida lue,
Più ghiotto a’ latronecci ed omicidi.

72Ch’al pampino le mie capre o le tue,
     Fe come il cucco l’ova in gli altrui nidi,
Avendo dal padron la ninfa in cura:
75Miser pastor, che l’agna al lupo affidi!
     Contempla le fattezze e la statura
Di Jola, ed indi Emofil ti ricorda,
78E così il ramo all’arbor raffigura.
     Pon mente come l’un con v altro accorda
L’invida mente e l’ostinata rabbia,
81D’oro, di sangue e d’adulteri ingorda.11
     Tirsi.Non perchè da te solo inteso l’abbia;
Ma per spiarne tutta tua credenza,
84Fingendo ammirazion strinsi le labbia.
     Udito l’ho da più di dieci, senza
L’ancilla della giovine: or tu vedi
87S’io ’l so, se per udir se n’ha scïenza.
     Ma lascia Jola ed all’inganno riedi;
E come me n’hai môstro il capo e il petto,
90Fa ch’io ne veda ancor le braccia e’ piedi.12
     Che altri aveano a questa impresa eletto
Io vedo, chè due soli erano pochi
93A dare a tanta iniquitade effetto.
     Melibeo.Il comodo che aveano in tutti i lochi
D’Alfenio, come quei ch’erano seco
96Sempre in convivî, in sacrificî, in giuochi,
     Fe che vide Feréo con occhio bieco,
Che pochi più bastavan, con breve arme,
99A mandarlo cultor del mondo cieco.
     E non pur lui, ma che pensasse parme
Uccider gli altri due suoi frati insieme,13
102Per quanto da chi ’l sa, posso informarme.
     Tirsi.Oh desir empio! oh scolorata speme
Che al nefario pensier Feréo condusse,

105Di spegner tre con lui nati d’un seme!
     Dirai ch’egli d’Eraclide non fusse,
Se nella ripa di Sebeto amena
108La castissima Argonia14 gliel produsse?
     Melibeo.Il vero a forza a non negar mi mena;
Nè stran mi par, quando d’eletto grano
111Il loglio nasca e la sterile avena.
     Ma perchè chiesto tu non m’abbi invano,
Chi altri al tradimento è che prestasse
114Favore, col consiglio con la mano;
     Al canuto Silvan15 gran colpa dàsse;
Al gener16 più, che quasi per le chiome
117Il rimbambito suocero vi trasse.
     L’altro non so se Boccio17 è detto, come;
Gano18 è l’estremo, anzi il primiero in dolo,
120A cui forse era Ingan più proprio nome.
     Tirsi.Che Gan sia in colpa, ho più piacer che duolo;
Perchè fra tutti gli uomini del mondo
123M’era, nè so la causa, in odio solo:
     Se però parli d’un carnoso e biondo
Che solea Alfenio tra’ suoi cari amici
126Stimar più presto il primo che ’l secondo.
     Melibeo.Io dico di quel biondo che tu dici;
Come nel corpo d’esca, sonno ed ocio,
129Così grasso nell’anima di vici:
     Di quel che, di vil servo, fatto socio

Aveasi Alfenio, e facea cosa raro
132Senza lui, di piacere o di negocio.
     Comperòllo già Eraclide, e tal paro
Ho di buoi di più prezzo che non ebbe
135Colui che gliel vendè, quantunque avaro;
     A cui di sua ricchezza non increbbe:
E con pubblica invidia odi parlarne,
138Ma ’l fine arà ch’a sua vita si debbe.
     Spero veder la sua putida carne
Pascer i lupi, e gl’importuni augelli
141Gracchiarli intorno, e scherno e straccio19 farne.
     Tirsi.Come si son così scoperti, s’elli
Non eran più?20 Perc’han tardato farlo,21
144Se aveano ognora i comodi sì belli?
     Melibeo.Feréo fu come il sorco come il tarlo,
Che nascoso rodendo fa sentirse
147Da chi non avea cura di trovarlo.
     Tacendo, ne potea libero girse;
Ma ’l timor ch’egli avea d’esser scoperto
150Fu tanto, ch’egli stesso andò a scoprirse.22
     E rende a’ suoi seguaci or questo merto,
Che tratti gli ha come pecore al chiuso,
153E poi la notte al lupo ha l’uscio aperto.
     Nè meno ancor fu dal timor confuso
Quantunque volte per conchiuder venne
156Con l’opra quel che avea ’l pensier conchiuso:
     Onde sin qui tra ferro e tôsco indenne
È giunto Alfenio, mercè quel vil côre
159Che la man pronta sul ferir ritenne.
     Siamo adunque obbligati a quel timore,
Che dal ferro difese e dal veneno
162La nostra guardia e ’l nostro almo pastore.
     Com’è nostro pensier ch’ora abbia fieno

E stalla il gregge, ora salubri paschi,
165E quando fiume o canal d’acqua pieno;
     Così gli è cura sua che non si caschi
In peste, in guerra, in carestía; che ’l grande
168Del minor le fatiche non intaschi.
     Hai sentito che alcun mai gli dimande
Cosa che giusta sia, che da sè vôto,
171O poco satisfatto lo rimande?
     Tirsi.Io credo che già a quel chiedere a vôto
Più non si può; nè dal padre traligni,23
174A cui fui, sua mercè, come a te noto.
     Lodando il figlio, Eraclide mi pigni;
Del quale io, sebben nato ed uso in boschi,
177Trovai gli effetti in me tutti benigni.
     Melibeo.Oltra che umano sia, vô che ’l conoschi
Pel più dotato24 uom che si trovi; e volve25
180Gli Umbri, gl’Insubri, gli Piceni, i Toschi.
     Che saggio e cauto sia, te ne risolve
Questo, che al varco abbia saputo accôrre
183Quei che aver se ’l credean sotto la polve.
     Chi sa meglio espedir, meglio disporre
Quel che convien? non è intricato nodo
186Che l’alto ingegno suo non sappia sciôrre.
     Qual forte usbergo è del suo cor più sodo?
A cui fortuna far può mille insulti,
189Ma non che sia per sminuirne un chiodo.
     Vedi tu in altri costumi sì culti?
Gli puoi tu in sì vil cosa esser cortese,
192Che amplissima mercè non ti risulti?
     Hai tu sentiti i ladri nel paese,
Di che prima solea dolerse ognuno,
195Poscia ch’egli di noi custodia prese?
     Mira che qui può quel che può nessuno,
Nè però vuol conceder contra il giusto
198Cosa a sè che negata abbia ad alcuno.

     Io non ti loderò l’aspetto augusto,
Nè quell’altro che fuor vedi tu stesso,
201Il26 corpo alle fatiche atto e robusto.27
     Tirsi.Quanto è miglior, tanto più grave eccesso,
E meritevol di maggior supplicio,
204Chi ha cercato ucciderlo, ha commesso.
     Melibeo.Ben si può dir che ’l ciel ne sia propicio;
Chè non pur d’un di tre, di quattro ed otto,
207Ma vietato abbia un gran pubblico esicio.
     Una tanta ruina, e sì di botto
Non è quasi possibil che si spicchi,
210Che molta turba non v’accoglia sotto.
     Prima ai nemici, e poi veníano a’ ricchi,
Fingendo nôvi falli28 e nôve leggi,
213Perchè si squarti l’un, l’altro s’impicchi.
     Ch’era di ciò cagion, credo tu ’l veggi,
Per non pagar del sao gli empi seguaci,
216Ma delli solchi altrui, delli altrui greggi.
     Veduto aresti romper tregue e paci;
Surger d’un fôco un altro, e di quel diece,
219Anzi d’ogni scintilla mille faci.
     Qual cosa non faría, qual già non fece,
Un popular tumulto che si trove
222Sciolto, ed a cui ciò ch’appetisce lece?
     Tirsi.Queste son strane, e veramente nôve
Nuove che narri, e viémmene un ribrezzo,
225Che ’l cor m’agghiaccia e tutto mi commôve.
     Deh! se dovunque vai trovi aura e rezzo,
Che credi tu ch’avría fatto la moglie,
228Se ’l caro Alfenio tolto era di mezzo?
     Melibeo.Come tortora in ramo senza foglie,
Che poi ch’è priva del fido consorte,
231Sempre più cerca inasperar le doglie.
     Tirsi.Sarebbe stato, appresso il caso forte
Del giusto Alfenio, e quella orrenda e vasta
234Ruina che traea con la sua morte,
     Gran duol veder che la sua donna casta,

Saggia, bella, cortese e pellegrina,
237In stato vedovil fosse rimasta.
     Io mi trovai dove in due rami inclina
Il destro corno Eridano,29 e si dôle
240Che tanto ancor sia lungi alla marina.
     Godeasi la lucertola già al sole,30
E i pastorelli in le tepide rive
243Ivan cercando le prime vïole.
     Quando in maniere accortamente schive,
Giunse Licoria in mezzo onesta schiera
246Di bellissime donne, anzi pur dive:
     Dove sposòlla Alfenio; ove l’altera,
Pomposa e mai non più veduta festa
249Il padre celebrò, ch’ancor vivo era.
     Io vidi tutte l’altre, e vidi questa,
Or sole ad una ad una, e quando in coro,
252E quando in una e quando in altra vesta.
     Quale è il peltro all’argento, il rame all’oro,
Qual campestre papavero alla rosa,
255Qual scialbo salce al sempre verde alloro;31
     Tal’era ogn’altra alla novella sposa:
Gli occhi di tutti in lei stavano intenti
258Per mirarla, obliando ogn’altra cosa.
     Quivi di Ausonia tutta i più eccellenti
Pastori eran; quivi era il fior raccolto
261Delle nostrali e dell’estrane genti.
     Tutti la singular grazia del volto,
Le leggiadre fattezze, il bel sembiante,
264E quel celeste andar laudavan molto.32

     Ma chi notizia avea di lei più innante,
Estollea più l’angelica beltade
267Dell’altissimo ingegno, e l’opre sante.33
     Davano a lei quell'inclita onestade,34
Che giunta con beltà, par che si stime
270Al nostro tempo ritrovarsi in rade.
     Locavan fra le glorïose e prime
Virtuti d’ella, il grande animo, sopra
273Il femminil contegno, alto e sublime;
     Ond’esce quella degna ed util opra,
La qual non pur nei buoni irraggia e splende,
276Ma negl’iniqui par che ’l vizio copra:
     Parlo della virtù che dona e spende;35
In che fulge ella sì, che d’ogn’intorno
279I raggi vibra, e i prossimi n’accende.
     Tant’altre laude sue dette mi fôrno,
Che pria che ad una ad una fuor sian spinte,
282Temo che tutto non ci basti un giorno.
     Melibeo.Son queste cose indarno a me dipinte,
Chè se per l’altmi dir tu note l’hai,
285Io per esperïenza le ho distinte.
     Ma volta gli occhi, e là Mopso vedrai;
Sicchè non poter star più teco dôlmi:
288Onde conchiudo brevemente ormai:
     Che come ben confan le viti e gli olmi,
Confanno i due consorti; e Dio gli scelse
291Maggior degli altri, quanto tra gli colmi
     Dell’umil case escon le terre eccelse.



  1. È soggetto di questo componimento un tristissimo fatto della storia ferrarese; cioè la congiura ordita contro il duca Alfonso I da due suoi fratelli, don Ferrante e don Giulio, figliuolo naturale di Ercole I. Di questa parlarono il Giovio nella Vita d’Alfonso, il Guicciardini nel libro sesto della sua Istoria, e più diffusamente il Muratori nell’Antichità Estensi; nè potè tacerne lo stesso Lodovico nel Furioso: come può vedersi al c. III, st. 60-62.
         L’Egloga con che pur volle serbarcene la memoria, importante per alcuni dati storici intorno alle persone dei congiurati, giacque inedita nella Magliabechiana sino all’anno 1807, nel quale il Baruffaldi pubblicavane i primi sessantatrè versi, sopra una copia trasmessagli da Francesco Del Furia; e un altro e più lungo saggio n’era esibito nel Poligrafo di Milano circa il 1815, illustrandone la parte istorica Luigi Lamberti, e Urbano Lampredi la letteraria. Fu per intero poi messa a luce in Firenze nel 1820 da Francesco Inghirami, nel volume primo della sua Nuova collezione d’opuscoli. Il Molini la ristampò, con sue note, tra le Poesie varie di Lodovico Ariosto, all’insegna di Dante, 1824. Nel 1835, lo stesso Lampredi, supponendola tuttora inedita, la riprodusse in Napoli con più estese dichiarazioni.
  2. Il Baruffaldi e il Molini leggevano: di paschi erbosi. II Lampredi fece la correzione che noi seguitiamo. Il Manoscritto ha veramente: da paschi; e l’errore sembra proceduto dalla stampa procurata dall’Inghirami.
  3. Sotto questo nome nascondesi don Ferrante o Ferrando, che fu, come scrivono, tratto da don Giulio nella congiura.
  4. I beni di don Ferrante e quelli di don Giulio furono confiscati.
  5. Il duca Alfonso.
  6. Cioè Giulio d’Este, fratello naturale dei suddetti. Egli si rifugiò a Mantova presso il duca, marito di sua sorella; ma questi avendo conosciuta la verità della congiura, lo rimandò in catene a Ferrara. Tanto egli, quanto Ferrante, furono condannati alla morte, e già avevano la testa sotto la mannaja, quando il duca Alfonso loro commutò la pena in una perpetua prigionia. — (Molini.)
  7. Questo Ferrante ci viene da tutti gli storici descritto qual uomo ambizioso e superbo. Essendosi fino dai più verdi anni esercitato nel mestiere dell’armi, ora per Carlo VIII re di Francia ed ora per la repubblica veneta, mal soffriva che il reggimento dello stato rimanesse in mani di Alfonso, amatore delle arti pacifiche, e, al parere di lui, troppo schivo del fasto e del severo contegno che a principe si convengono. Per la qual cosa, fu a Giulio assai facile impresa il tirarlo nella iniqua determinazione di togliere vita e trono al regnante fratello. — (Lampredi.)
  8. Per Eraclide è da intendersi il duca Ercole I, padre dei sopra nominati. Ardeusa, come dichiarò il Lampredi, citando le Memorie storiche del Frizzi, accenna ad una Isabella di Niccolò Arduino, damigella della duchessa Eleonora, poi moglie di un Giacomo Mainetto, la quale partorì don Giulio a dì 15 marzo del 1478.
  9. Accenna forse a qualche luogo più appartato del territorio di Ferrara, pel quale scorre il Po.
  10. Diversa opinione ebbe di poi Lodovico espressa nel Furioso, dove, alludendo a questa congiura (vedi c. III, st. 60-63), scriveva:
                                  O buona prole, o degna di Ercol buono,
                             Non vinca il lor fallir vostra bontade.
                             Di vostro sangue i miseri pur sono:
                             Qui ceda la giustizia alla pietade.
  11. Congettura il Lampredi (ma, al parer nostro, con debole fondamento) che la persona qui vituperata sotto il nome di Emofilo, fosse un Buonvicino delle Carte, già fattore del duca Ercole, e privato per suoi ladronecci dell’offizio nel 1475.
  12. Personifica poeticamente la congiura con membra umane; e dice che avendone mostrata una parte, bisogna farne vedere il rimanente. — (Molini.)
  13. Dalle parole del Poeta si deduce che Ferrante avesse deliberato di uccidere, oltre Alfonso, anche gli altri suoi fratelli, Ippolito cardinale e Sigismondo. — (Lampredi.)
  14. Eleonora d’Aragona, figlia di Ferdinando I re di Napoli, la quale partorì in Napoli don Ferrante, il 28 settembre 1477.
  15. Albertino Boschetti, conte di San Cesario, sul Modenese, principal motore e fomentatore della coogiura, come racconta il Muratori. — (Lampredi.)
  16. Gherardo Roberti, genero e complice del suddetto. Era capitano dei balestrieri. Egli fuggì, ma fu preso a Carpi. — (Molini.)
  17. Franceschino Boccaccio da Rubiera, altro congiurato, cameriere di don Ferrante. Tutti i tre suddetti furono decapitati e squartati. — (Molini.) — Il creduto Pistofilo chiama costui Franceschino da Reggio. V. sopra, pag. 264.
  18. Fu costui un tal Giano, guascone, che il duca Ercole trovò fanciullo in Francia a mendicare, e seco condusse e fecegli insegnar a cantare, poichè aveva bellissima voce. Si rese prete, e divenne cantore in corte d’Alfonso, e suo confidente. Scopertasi la congiura, gli riuscì fuggire, e rimase nascosto per molto tempo. Fu poi trovato a Roma al servizio del cardinal Sangiorgio, e spedito prigione a Ferrara, ove nell’ingresso poco mancò che non fosse fatto in pezzi dal popolo furibondo. Confessò il suo fallo, e fu esposto al pubblico in una gabbia di ferro, ove non potendo più soffrire gli insulti del popolo, si strozzò da sè medesimo. — (Molini.)
  19. Così il Manoscritto e le stampe, ma credo con ridoadanza di un c, e nel significato di strazio; come l’Ariosto costumò di scrivere anche fuori di rima, e può vedersi poco indietro in ocio, vici, negocio.
  20. Cioè, più di sei.
  21. Eseguire il misfatto da essi meditato.
  22. Primo ad avvedersi della trama fu, secondo il Muratori, il cardinale, per certi atti di soverchia confidenza che avea veduto praticarsi da Giano verso il duca, il quale, fatto chiamare don Ferrante, ebbe da lui la confessione della congiura, non solamente in parole ma ancora in iscritto, benchè in questa venissero taciute «in suo pro molte gravissime circostanze.»
  23. Accettiamo l’emendazione che di questi due versi aveva fatta il Lampredi; non potendo cavarsi costrutto migliore dal Manoscritto, il quale ha, scorrettamente, come confessa il Mulini che lo ricopia:
                             Io credo che sia quel chiedere a voto
                             Più non si po, nel patre traligni.
  24. Così legge il Lampredi; e il Molini, col Manoscritto e coll’Inghirami, che se ne scusa: datato.
  25. Il Molini spiega: «e cerca pure gli Umbri ec.»
  26. Nel Manoscritto: El; che male dall’Inghirami, copiato dagli altri, fa sciolto in E ’l.
  27. Il Muratori parla della robusta complessione di Alfonso. — (Lampredi.)
  28. Così il Manoscritto e la stampa dell’Inghirami. Erroneamente il Lampredi faceva imprimere: fatti.
  29. Cioè, a Malalbergo. I particolari tutti dell’incontro e del ricevimonto fatto a Lucrezia Borgia (dal poeta indicata sotto il nome di Licoria), sono descritti in varie lettere della cognata di lei Isabella d’Este, scritte al marchese di Mantova suo marito, a pubblicate nell’Archivio Storico Italiano, Appendice tomo II, pag.300 e seg.
  30. Era il primo di febbrajo 1503.
  31. Questi versi si trovano quasichè testualmente ripetuti, al medesimo proposito, nel Furioso, c. XIII, st. 70.
  32. Della straordinaria bellezza di Lucrezia fanno discorso gli storici. Il Frizzi racconta che Alfonso, il quale da prima si era mostrato oltremodo avverso al parentado propostogli, come prima la vide, rimase così colpito dalla singolare avvenenza di lei, che ne fu preso di caldissimo amore. Con egual dilezione l’amò egli poi sempre, mentre ella visse, ed amarissimamente ne pianse la morte, accaduta a dì 24 di giugno del 1519, essendo lei nel quarantunesimo anno di sua età. — (Lampredi.)
  33. Farebbe opera, come a noi pare, giusta e pietosa chi imprendesse a purgare la memoria di questa donna, se non dalle colpe vere o probabili, almeno dalle calunnie dei romanzisti oltramontani.
  34. L’autore della Vita inedita di Alfonso, più volte citato, così parla di lei, nel cap. V di essa Vita: «Fu... di venusto e mansueto aspetto; prudente, di gentilissime maniere negli atti, e nel parlare di molta grazia e allegrezza; et al suo sposo e signore obsequentissima. E come, allora in Ferrara, venendo a marito questa singolarissima signora, le gentildonne e cittadine usavano abiti ne’ quali mostravano le carni nude del petto e delle spalle, così essa... signora introdusse il portare ed uso di gorgiere, che velavano tutta quella parte, dalle spalle sino sotto alli capelli. E non solo nel vestire, ma anco ne’ costumi e religione, dètte questa principessa ottimi esempi alla cittade e sudditi.»
  35. Fra le molte virtù che adornarono la duchessa Lucrezia, si celebrò ancora la somma sua liberalità verso i letterati ed i poveri, come notò il Frizzi. — (Lampredi.)


Note

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