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Cantico del gallo silvestre
Elogio degli uccelli Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco - Preambolo


Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra il cielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell’uno e mezzo nell’altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo[1]. Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità che di lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso di ragione; o certo, come un pappagallo, è stato ammaestrato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli uomini: perocché si è trovato in una cartapecora antica, scritto in lettera ebraica, e in lingua tra caldea, targumica, rabbinica, cabalistica e talmudica, un cantico intitolato, Scir detarnegòl bara letzafra, cioè Cantico mattutino del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, né senza interrogare più d’un rabbino, cabalista, teologo, giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d’intendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si vede. Non ho potuto per ancora ritrarre se questo Cantico si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte le mattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l’oda cantare, o chi l’abbia udito; e se la detta lingua sia proprio la lingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qualche altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto; per farlo più fedele che si potesse (del che mi sono anche sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare la prosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica. Lo stile interrotto, e forse qualche volta gonfio, non mi dovrà essere imputato; essendo conforme a quello del testo originale: il qual testo corrisponde in questa parte all’uso delle lingue, e massime dei poeti, d’oriente.

Su, mortali, destatevi. Il dì rinasce: torna la verità in sulla terra e partonsene le immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falso nel vero.

Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre coll’animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama alla memoria i disegni, gli studi e i negozi; si propone i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nello spazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo è più desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua mente aspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sono soddisfatti di questo desiderio: a tutti il risvegliarsi è danno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nelle mani dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno, a conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L’una e l’altra insino alla vigilia del dì seguente, conservasi intera e salva; ma in questa, o manca o declina.

Se il sonno dei mortali fosse perpetuo, ed una cosa medesima colla vita; se sotto l’astro diurno, languendo per la terra in profondissima quiete tutti i viventi, non apparisse opera alcuna; non muggito di buoi per li prati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uccelli per l’aria, né susurro d’api o di farfalle scorresse per la campagna; non voce, non moto alcuno, se non delle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcuna banda; certo l’universo sarebbe inutile; ma forse che vi si troverebbe o copia minore di felicità, o più di miseria, che oggi non vi si trova? Io dimando a te, o sole, autore del giorno e preside della vigilia: nello spazio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendo e cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo infra i viventi essere beato? Delle opere innumerabili dei mortali da te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l’intento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transitoria, di quella creatura che la produsse? Anzi vedi tu di presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini del mondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in qual montagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto, in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano e scaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siede nell’imo delle spelonche, o nel profondo della terra o del mare? Qual cosa animata ne partecipa; qual pianta o che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta o sfornita di virtù vegetative o animali? E tu medesimo, tu che quasi un gigante instancabile, velocemente, dì e notte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammino che ti è prescritto; sei tu beato o infelice?[2]

Mortali, destatevi. Non siete ancora liberi dalla vita. Verrà tempo, che niuna forza di fuori, niuno intrinseco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; ma in quella sempre e insaziabilmente riposerete. Per ora non vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi è consentita per qualche spazio di tempo una somiglianza di quella. Perocché la vita non si potrebbe conservare se ella non fosse interrotta frequentemente. Troppo lungo difetto di questo sonno breve e caduco, è male per sé mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vita, che a portarla, fa di bisogno ad ora ad ora, deponendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con un gusto e quasi una particella di morte.

Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio ed unico obbietto il morire. Non potendo morire quel che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che sono. Certo l’ultima causa dell’essere non è la felicità; perocché niuna cosa è felice. Vero e che le creature animate si propongono questo fine in ciascuna opera loro; ma da niuna l’ottengono: e in tutta la loro vita, ingegnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patiscono veramente per altro, e non si affaticano, se non per giungere a questo solo intento della natura, che è la morte.

A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se ne producono e formano di presente: perocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione; destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore e di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso come effetto di errori, e d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza: questo per lo più racconsolato e confidente; la sera trista, scoraggiata e inchinevole a sperar male. Ma come la gioventù della vita intera, così quella che i mortali provano in ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamente anche il dì si riduce per loro in età provetta.

Il fior degli anni, se bene è il meglio della vita, è cosa pur misera. Non per tanto, anche questo povero bene manca in sì piccolo tempo, che quando il vivente a più segni si avvede della declinazione del proprio essere, appena ne ha sperimentato la perfezione, né potuto sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, che già scemano. In qualunque genere di creature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogni opera sua la natura e intenta e indirizzata alla morte: poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sì manifestamente, e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo. Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla morte, con sollecitudine e celerità mirabile. Solo l’universo medesimo apparisce immune dallo scadere e languire: perocché se nell’autunno e nel verno si dimostra quasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagione nuova ringiovanisce. Ma siccome i mortali, se bene in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano alcuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, e finalmente si estinguono; così l’universo, benché nel principio degli anni ringiovanisca, nondimeno continuamente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e la natura medesima, sarà spenta. E nel modo che di grandissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti, che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segno né fama alcuna; parimente del mondo intero, e delle infinite vicende e calamità delle cose create, non rimarrà pure un vestigio; ma un silenzio nudo, e una quiete altissima, empieranno lo spazio immenso. Così questo arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale, innanzi di essere dichiarato né inteso, si dileguerà e perderassi.[3]

Note

  1. Vedi, tra gli altri, il Buxtorf, Lexic. Chaldaic. Talmud. et Rabbin. col. 2653 et seq.
  2. Come un buon numero di Gentili e di Cristiani antichi, molti anco degli Ebrei (tra’ quali Filone di Alessandria, e il rabbino Mosè Maimonide) furono di opinione che il sole, e similmente i pianeti e le stelle, avessero anima e vita. Veggasi il Gassendi, Physic. sect. 2, lib. 2, cap. 5; e il Petau, Theologic. dogm. de sex dier. opific. lib. 1, cap. 12, § 5 et seqq.
  3. Questa è conclusione poetica, non filosofica. Parlando filosoficamente, l’esistenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine.
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