Questo testo è completo, ma ancora da rileggere.
Questo testo fa parte della raccolta Scritti autobiografici e rari

VII

ORATIO ACCUSATORIA

ORATIO ACCUSATORIA

1 Non si doveva pregare piú Dio di cosa alcuna, giudici, nessuna in questo tempo poteva essere piú a proposito della republica, che esserci data occasione che questa nuova legge dell’accusare, ordinata con quello ardore che voi sapete di coloro che favoriscono la nostra libertá, fussi ne’ suoi princípi confermata con qualche notabile esempio; la quale poi che si è offerta piú opportuna ancora e maggiore che non aremo saputo immaginare, non può essere dubio a persona che non consiglio ed opera alcuna di uomini, ma la divina voluntá e disposizione ce l’ha mandata. Perché veduto con quanto sforzo si erano opposti questi cittadini grandi e che vogliono tenere soggiogati gli altri, perché sí santa legge non si ordinassi, era giá quasi opinione universale di tutta la cittá, che quello che con tante arte sue non avevano potuto ottenere direttamente appresso a molti che la non si vincessi. l’avessino a conseguire per indiretto apresso a pochi, provedendo che la esecuzione sua restassi vana con operare tanto con favori e con minacci ancora, che mai da’ giudici nessuno potente fussi condannato.

Alla quale opinione non so se piú vituperosa o perniziosa alla republica mi sono arditamente opposto io, anzi per dire piú el vero non io, ma lo onnipotente e sommo Dio, manifesto protettore della nostra cittá, avendomi messo in animo di chiamare in giudicio con inestimabile iubilazione di tutto questo popolo, non uno cittadino incolpato di oscuri e leggeri errori, non di qualitá sí piccole che e la pena sua facessi poco utile alla republica, e la assoluzione poco danno; ma messer Francesco Guicciardini, uomo rubatore de’ danari publici, saccheggiatore del nostro contado, uomo che ha esosa la vita privata, desideroso del ritorno de’ Medici, amatore delle tirannide, occupatore del vostro Palazzo, inimico capitalissimo della commune libertá, e finalmente pieno di sí gravi, di sí noti e di sí odiosi peccati che non è possibile che sia assoluto, e nondimeno sí potente che el condannarlo abbia a essere di grandissima utilitá sí per levare via ed estirpare questa peste della republica, sí molto piú per lo esempio e per chiarire al tutto ognuno che in questi nuovi giudici ha a potere piú, come è conveniente, la veritá, la religione e la severitá de’ giudici che qualunque altro rispetto o corruttele.

A questa impresa se non m’avessi spinto lo amore della republica, ed el desiderio grande che io ho di vedere bene assicurata la nostra libertá, ed el cognoscere che uno de’ vivi fondamenti che la possi avere è el terrore ed el freno di questa legge, siate certi, giudici, che nessuno altro rispetto mi arebbe mosso; perché né con lui ho particulare inimicizia, anzi da’ teneri anni ho avuto seco conversazione e benivolenzia, né le condizione mie sono i tali che io non abbia a tenere conto grande di tanti inimici che mi nasceranno da questa accusazione, né la natura mia come può sapere ognuno, è stata inclinata mai a offendere altri, né a pigliare piacere delle incommoditá di persona, né è tanta la laude che io spero se sará condannato, perché questo faranno per se medesimo, sanza alcuna industria dello accusatore, e’ suoi peccati sí enormi, sí pericolosi e sí chiari, quanto sarebbe el biasimo se fussi assoluto; perché piú resta negli uomini la memoria di quello che è molesto che di quello che piace, e sempre dove le imprese succedono male è piú avuto lo occhio allo evento che al consiglio.

Ma non mi lascia la natura del caso avere questa paura; perché se in messer Francesco fussi solo el peccato della ambizione ed el pericolo che da’ suoi cattivi fini porta la libertá della cittá, ma el resto della sua vita non fussi maculato da peccati gravissimi, o se per el contrario e’ costumi fussino corrotti, ma lo animo e le condizione aliene da turbare lo stato della republica, io dubiterei forse che o la integritá degli altri costumi lo difendessi da’ carichi della ambizione, o che el non essere lui formidoloso alla libertá facessi che a scusare gli altri peccati valessino piú che la giustizia, gli immoderati favori ed estraordinari mezzi che voi vedete che usano gli amici e parenti suoi. Ma concorrendo in lui tutte queste cose ed in modo che non si possi facilmente discernere quale sia maggiore o lo odio o el pericolo, nessuno è che abbia mai dubitato quali abbino a essere le vostre sentenzie, nessuno che non l’abbia tenuto per condannato el dí medesimo che fu chiamato in giudicio. Perché per cominciare da’ peccati della avarizia e delle rapine e sacchi fatti al paese, e’ quali io vi metterò in modo innanzi agli occhi, che piú sará maraviglia che questi giudici, che questo popolo ti possa guardare, ti possa udire, che non sarebbe se tutta la cittá non potendo sopportare tante sceleratezze e che una peste sí pestifera stessi tra noi, ti corressi furiosamente a casa o facessi sentire a te, alle facultá ed alle figliuole tue giustamente quelli medesimi mali che per tua colpa hanno sentito ingiustamente tanti altri; io dico che messer Francesco Guicciardini ha rubato in questa guerra somma infinita di danari nella nostra comunitá; ha per potergli rubare concesso a’ nostri soldati che vivino a discrezione nel nostro paese, che non vuole dire altro che avergli consentito che rubassino e saccheggiassino ogni cosa come di inimici; e quella autoritá che gli era stata data per difendere e conservare lo stato nostro l’abbia usata a metterlo in preda. Credo che el medesimo abbia fatto in quello della Chiesa; ma io non mi querelo delle ingiurie di altri, perché le nostre sono sí grandi che abbiamo da fare pure troppo a risentirci de’ nostri mali. Non parlo calunniosamente, non accusatoriamente, perché la cosa che ha tanti testimoni, tante chiarezze che non si può nascondere, non si può sfuggire. Non dice questo uno solo, non dua, non tre, non quattro, non sei, non dieci; non persone sospette, non inimiche, non persone che non avessino avuto da temere di darti calunnie false; ma lo dicono cento, dugento, trecento, cinquecento, mille uomini: lo dice finalmente uno esercito intero, uno esercito beneficato da te, uno esercito che stava a obedienzia tua, uno esercito che arebbe avuto timore di te a accusarti a torto, che arebbe sperato da te a scusarti falsamente. Lo dicono tante provincie intere: la Romagna suddita a noi, el Mugello, el Casentino, Val di Pesa, el Valdarno, l’Aretino, el Cortonese: diconlo tutti quelli che abitano intorno a queste cittá, le nostre ville, e’ nostri borghi; direbbonlo se sapessino parlare gli uccelli, le pietre, gli arbori, direbbonlo le mura e le torre nostre dalle quali si sentivano e’ pianti de’ poveri contadini, le stride delle meschine fanciulle.

Esaminerannosi moltissimi de’ vostri cittadini, persone degnissime di fede, e’ quali udirete testificare che non una volta, né dua, né tre, ma infinite hanno in diversi luoghi sentito dire a tutto lo esercito che non erano pagati, e che però avevano avuto licenzia di vivere a discrezione; e nondimeno vi si mostrerrá ne’ libri che lui medesimo produce, che è messo ogni mese a uscita la paga loro, (leggi la copia delle partite). Quello medesimo che dicono e’ cittadini vostri, diranno e’ vostri contadini, e’ cortonesi, e’ romagnoli, gli aretini, infiniti vostri sudditi; il che sento che ancora dicono e’ piacentini, e’ parmigiani, e’ bolognesi e tutta la Romagna della Chiesa; ne’ quali luoghi come nel paese nostro sono state infinite le rapine, moltissimi gli incendi, non pochi gli omicídi, violate innumerabili donne di ogni etá e qualitá, vecchie, giovane, fanciulle, maritate, vedove, vergini. Quante castella e terre vostre sono state saccheggiate con maggiore crudeltá che non arebbono fatto gli inimici!

Io vi priego, popolo, che udiate pazientemente, e che udendo tante indegnitá, tante iniquitá, tanti vostri danni, non vi concitiate a furore, non lapidiate questo morbo: contentiatevi, poi che la cosa è qui, che sia gastigato da’ giudici; perché se bene sarebbe stato forse piú utile e piú secondo la degnitá di questa cittá e piú terrore degli altri, innanzi che fussi accusato averlo a furore di popolo esterminato, averlo abbruciato in casa, averlo per eterna memoria tagliato a pezzi in sulle porte di questo palazzo, la autoritá del quale ha violato in tanti modi; quivi a’ piedi di quella Iudith, acciò che uno medesimo luogo fussi memoria dell’onore di chi ha conservato la patria, e del supplicio di chi l’ha oppressa; pure ora che la causa è introdotta, che el caso è in giudicio, sarebbe forse di malo esempio amazzarlo: mentre dice la causa, mentre che è innanzi a’ giudici, lasciate vi prego correre el giudicio. Avete giudici uomini prudenti, uomini virili, integri, amatori quanto si può della nostra libertá: non possono errare per non cognoscere quanto importi questa condannazione; non sono per temere minacci vani, non per lasciarsi corrompere a’ prieghi o altri mezzi; sanno la vostra voluntá; non è pericolo che la giustizia sia violata, non che della salute commune sia tenuto poco conto, non finalmente che se a loro non è mancato chi accusi, che se a me non manca materia di accusare, che a voi ed alla republica manchino giudici.

Io vi dico di nuovo che per la inaudita avarizia di messer Francesco è stato distrutto el paese vostro, sono state distrutte tante provincie, ripieno ogni cosa di rapine, di incendi, di violazione di donne, di vergine, di omicídi, saccheggiate tante vostre castella da vostri soldati con piú crudeltá che non arebbono fatto gli inimici. Testimonio di quello che io dico è Barberino, el Borgo a San Lorenzo e Decomano, testimonio el Pontasieve, testimonio San Casciano, testimonio quelle ricche e belle castella di Valdarno e quasi simile a cittá, Fighine, San Giovanni e Montevarchi, trattate con tanta impietá, con tanta crudeltá che ebbono invidia a Laterina, a Quarata, alla Chiassa ed agli altri luoghi dove stettono gli spagnuoli. Feciono cento volte peggio a’ sudditi nostri e’ nostri soldati chiamati, per chi ogni mese davamo le paghe a messer Francesco, che non feciono gli inimici. Non parlo del consumamento de’ grani e delle biade; non parlo de’ vini de’ quali quelli che avanzavano alla ebrietá militare, erano, sfondate le botte, sparsi per le volte e per le cantine che erano per tutto come laghi; non parlo delle bestie, delle quali quelle che non potevano mangiare erano condotte via a vendersi in altre provincie, ed infinite ne erano lasciate morte per e’ campi in preda a’ lupi: non parlo né mi lamento di queste cose.

Sia una licenzia militare, quando el paese è dato a discrezione, non solo in quello che si mangia, ma ancora in tutto quello che si può mangiare; abbino questo privilegio piú che le altre le discrezione di messer Francesco; ma le masserizie, le robe mobili delle case, di che le nostre ville ed e’ nostri palazzi erano forniti, le mercatantie di che quelle terre massime del Valdarno erano piene, andavano ancora loro sotto la medesima discrezione: non restò per le case e per le botteghe dove loro furono, cosa alcuna di qualunque sorte che si potessi portare via; dicevano essere loro date in pagamento. Né solo quello che si poteva portare, ma le bellezze ed ornamenti de’ vostri palazzi rompevano, distruggevano, rovinavano. Giá gli incendi quanti furono per tutto el paese! Vedevansi per tutto abruciare le case, sentivansi e’ romori delle cose che si rompevano e fracassavano, combattevansi per tutto le castella che non volevano aprire, le torre forti, le tenute, praticavasi ogni esempio di avarizia, di libidine, di crudeltá, in che ebbono maggiore facultá, perché nessuno era fuggito, ognuno o almanco la piú parte gli aveva aspettati come amici. E chi arebbe creduto altrimenti di un esercito nostro, menato da uno nostro cittadino? Chi arebbe pensato che uno figliuolo di Piero Guicciardini fussi una sentina di tante sceleratezze, che di uno padre tanto buono, tanto costumato, tanto catolico fussi uscita una pianta sí pestifera? Quanti furono gli sforzamenti delle donne, quante le bastonate e ferite degli uomini, quanti gli omicídi? Erano per tutto presi e’ vostri contadini, e’ vostri sudditi, e’ vostri fattori: erano constretti a ricomperarsi, a pagare la taglia a’ nostri medesimi.

Ma che mi dolgo io de’ contadini, de’ sudditi? Volessi Dio che tanta crudeltá si fussi saziata in loro, non fussi passata piú oltre. E’ nostri cittadini erano fatti prigioni, erano taglieggiati, erano tormentati, e’ nostri cittadini che avevano impegnato el suo, che s’avevano cavato el boccone di bocca per pagare gli accatti e l’altre gravezze perché e’ soldati avessino danari, e’ nostri cittadini che quando andavano per e’ nostri eserciti solevano essere alloggiati, essere carezzati, essere onorati da tutto el campo; ora da’ loro soldati medesimi, da quegli per chi avevano provisto le paghe, da quelli che avevano chiamati, che avevano alloggiati insino nelle nostre viscere, erano spogliati, erano assassinati, erano presi, erano legati, erano tormentati. Dimandate e’ soldati perché consumarono e’ vostri grani, e’ vostri vini, le vostre bestie: vi diranno che per non essere pagati era necessario vivessino di quello che trovavano; dimandateglí perché saccheggiorono e venderono le masserizie e le mercatantie, perché feciono e’ prigioni: vi diranno che perché pure bisogna al soldato altro che mangiare, gli era dato licenzia da messer Francesco di fare questo; dimandategli perché sforzorono le donne, perché abruciorono tante case, perché amazzorono tanti uomini, perché fracassorono e rovinorono tanti ornamenti, perché feciono tanti mali sanza alcuna loro utilitá: vi diranno a una voce che vedendo che messer Francesco non aveva alcuno rispetto, alcuna umanitá, alcuna pietá alla sua patria ed a’ suoi cittadini, credevano portassi loro odio e gli avessi per inimici, e però quanto peggio facevano, tanto piú pensavano di fare cosa che gli fussi grata.

O ribalderia, o sceleratezza inestimabile, o impudenzia singolare, o incredibile pazienzia e dolcezza del popolo fiorentino! Tu doppo avere fatto tanti mali, offeso in tanti modi e sí atrocemente ognuno in publico ed in privato, doppo averci fatto peggio che non feciono mai gli inimici, doppo averci dato a sacco per tôrci e’ nostri danari, doppo l’averci assassinati ed amazzati con le arme nostre, con le arme che noi t’avavamo dato per nostra difesa, hai ardire tornare nella cittá, andare alla signoria, venire ogni dí con faccia piena di audacia in publico; chiamato in giudicio hai ardire di comparire, hai ardire di sperare di essere assoluto; e questo popolo è sí dolce, sí buono e sí paziente che non ti lacera? Credevo che non ti bastassi l’animo di entrare in Montevarchi o in Fighine, ed io ti veggo ogni dí in Palagio ed in piazza: veggoti ogni dí innanzi a’ giudici con tanta fronte, con tanta impudenzia come se tu fussi cittadino e non crudelissimo inimico di questa cittá, come se tu fussi defensore della patria e non sceleratissimo predone e corsale, come se tu fussi conservatore di questa libertá e non uno immanissimo e pestifero tiranno.

Ma non è maraviglia, giudici, che dove abitano tante sceleraggine non sia faccia, non sia vergogna, non vi sia segno alcuno benché minimo di animo modesto, di animo composto ed ordinato, di animo simile a quello degli altri; anzi sarebbe da maravigliarsi se fussi in contrario, perché non può essere né rispetto né vergogna dove è uno recettaculo, una sentina di sí enormi e dannosissimi peccati; e come dicono questi savi che mal volentieri si può avere una virtú che non se n’abbia molte, cosí uno vizio può difficilmente essere solo, e quanto uno peccato è maggiore, tanto meno può essere sanza molti e gravi compagni. E certo, giudici, quando io considero quanti e quanto atroci delitti concorrono in uno fatto medesimo, non so trovare né vocabulo che lo esprimi, né immaginare supplicio che basti a punirlo: perché non solo è suo peccato quello che ha fatto egli, ma non manco quello che lui ha permesso ed è stato causa, e molto piú quello che è stato di suo ordine, di sua commissione.

Direno che sia furto per avere rubato e’ danari delle paghe? Ci sono ancora tante rapine fatte per forza e publicamente da’ soldati, ci sono le violazione di tante donne, ci sono tanti omicídi. Direno che sia avarizia? Ci è in compagnia tanti esempli di lussuria e di crudeltá, ci è il sacrilegio, perché non manco sono andate a bottino le chiese ed e’ luoghi pii che e’ profani. Direno che sia uno peccato che abbia tre teste come dicono e’ poeti di Cerbero, lussuria avarizia e crudeltá? Ci è congiunto el tradimento: saccheggiato sí impiamente, sí sceleratamente tutto el nostro paese, assassinato tanti nostri cittadini con quella autoritá, con quelle arme che t’avevano confidato per sua difesa. Direno che sia parricidio? Oh, e’ non è stata offesa la patria sola, ma el publico, el privato, e’ sudditi, gli amici, e’ vicini. Non ci è nome che basti, non Demostene, non Cicerone lo saprebbono fabricare; è uno peccato che ha piú capi che l’Idra, uno morbo, una fiamma, uno fuoco, uno inferno; è uno peccato che non cento mannaie, non cento forche, non tutte le pene insieme che si possono dare agli altri peccati, sarebbono bastanti a punirlo. E tu ancora ardisci difenderti, ancora procuri la assoluzione? Quanto meglio faresti, quanto saresti piú laudato a rimuoverti dal giudicio, a non comparire piú qua, a non rinnovare ogni dí tante acerbe piaghe, a tôrti da te medesimo la sentenzia: mostrerresti pure non essere acciecato totalmente, d’avere ancora qualche vestigio di vergogna, d’avere qualche stimulo di conscienzia, e dove non puoi diminuire la pena, non cercheresti di accrescere piú la indignazione, non di concitare piú lo odio.

Perché io ti domando: con che speranza vieni tu a difenderti, in che confidi? Speri tu nella eloquenzia tua? Maggiore sono le tue sceleratezze che si possino scusare o negare. Speri tu di potere allegare qualche beneficio fatto a questa cittá? Oh tu sei uno esemplo di tutti e’ mali che può fare uno cittadino alla patria. Speri tu nella nostra buona natura, nella dolcezza di questo popolo e di questi giudici? Troppo sono fresche le ingiurie che tu hai fatto in universale ed in particulare a tutti; troppo sono grande a dimenticarsele; troppo è el pericolo ed el danno che s’arebbe del perdonarti. Nessuno è di questi giudici, nessuno è in tanto concorso e moltitudine d’uomini che non sia stato atrocemente offeso da te o per te; a chi saccheggiata la roba, a chi abruciata la casa, chi fatto prigione, chi tormentato; quelli che hanno patito manco, hanno per e’ furti e rapine tue pagato tanto di gravezza, che è bisognato o che patischino nelle cose necessarie, o che consumino el capitale che avevano disegnato per le dote delle figliuole, o che vi provedino con stocchi e trabalzi. Dirai che speri ne’ danari e mezzi tuoi? So bene che hai rubato tanto che aresti modo a corrompere dieci giudici, dua cittá intere, ma sono giudici troppo buoni, troppo integri, troppo amatori della libertá; cognoscono quello che non hai cognosciuto tu, quanto piú vale l’onore che e’ danari.

Speri tu impaurirgli o spaventargli? Ti veggo bene el volto pieno di audacia, ti veggo pieno tutto di superbia e di stizza; ti pare avere gli eserciti teco, ti pare che abbiamo tuttavia paura che tu non ci dia un altro sacco. So bene che queste sono le voglie tue, che questi sono e’ tuoi desiderii; ma è passato el tempo tuo: hai a vivere privato, hai a vivere abietto, hai a vivere odioso a ognuno, sanza forze, sanza autoritá, sanza grazia, peggio veduto che una fiera, peggio voluto che una biscia; sanza che, quando bene tutte queste cose potessino tornare, sono e’ giudici sí animosi e sí virili che non per questo mancheranno di fare quello che sanza eterna infamia non possono fare el contrario. Speri tu nel favore e riputazione de’ parenti, nello aiuto di tanti amici, ne’ diguazzamenti che per te fanno tutti e’ partigiani de’ Medici? Non vedi tu infelice che non è piú el tempo che si spendino queste monete? Che la cittá è libera, non piú sotto e’ tiranni? Che dominano le legge e la giustizia, non piú gli appetiti de’ privati? Che gli amici de’ Medici, per la memoria di quelli tempi e di quegli scelerati fini, affaticandosi per te ti offendono e ti nuocono? Che e’ parenti tuoi in tanto atroci peccati, in tanto odio universale, in tante grida di tutti, non solo non ti possono giovare, ma se fussono de’ giudici tutti e’ Guicciardini e Salviati sarebbono constretti a condannarti? In che speri tu adunche? Udiamo per l’amore di Dio queste sue egregie difese.

Allega che tutti e’ danari che si sono spesi in questa guerra sono andati in mano di Alessandro del Caccia, e che nessuno n’ha ricevuto lui, e che per e’ libri di Alessandro apparisce che e’ danari sono stati spesi ne’ soldati e negli altri bisogni, e che a’ libri e scritture si debbe credere piú che alle parole degli uomini, piú alle persone proprie che a quelle che non sono intervenute nel negocio; difesa certo notabile e conforme alla impudenzia tua, perché se la veritá non constassi per altra via io confesso che la necessitá ci sforzerebbe a credere a’ libri e ci staremo a quegli non tanto per la fede che noi gli prestassimo, quanto perché non aremo el modo di fare altrimenti. Ma dove la veritá è manifestissima, dove sono le pruove sí chiare ed evidenti, non bisogna che lui mi meni alle conietture. Dico che messer Francesco ha rubato e’ danari nostri, e vi do testimoni non uno, né dua, non a decine, non a centinaia, ma a migliaia: testimoni di ogni sorte, di ogni qualitá e di ogni nazione, e testimoni che non avevano interesse a dirlo, piú presto potevano avere rispetto a tacerlo; in contrario non veggo se non uno testimonio, Alessandro del Caccia. Chi ha ricevuto e’ nostri danari? Alessandro del Caccia. Chi dice che e’ danari nostri sono stati bene spesi? Alessandro del Caccia. Chi che messer Francesco non gli ha avuti? Alessandro del Caccia. Chi ha scritto in su questi libri, in su questi vangeli? Alessandro del Caccia.

Tutto questo giuoco è segnato come una caccia. Dunche in una causa privata, in una causa minima non è creduto uno testimonio solo, quando bene non vi siano altre pruove in contrario, e si ammetterá uno testimonio solo in una causa publica, in una causa di tanta importanza e dove in contrario sono le migliaia de’ testimoni, in modo che se noi vogliamo attendere el numero, che comparazione è da uno esercito a uno uomo? Se la degnitá delle persone, che sono quelle cose che si considerano ne’ testimoni, sará bene cosa grande che in uno esercito intero, tra tante nobiltá, tra tanti signori, tra tanti capitani non siano testimoni di maggiore degnitá che Alessandro del Caccia. El quale se tutte le altre cose concorressino, è sospetto in questo caso, perché non è da credere che abbia consentito che un altro rubi, che anche lui non voglia essere in parte della preda; e si crederrá a uno testimonio che scusando messer Francesco scusa sé, che non può accusare lui che non accusi sé? Si crederrá alle scritture tenute per mano di chi è stato compagno al furto? Come sia da maravigliarsi che chi non è stato ritenuto né dalla vergogna, né dalla paura, né dalla conscienzia a fare tanto assassinamento, non gli sia bastato l’animo a fare uno libro falso!

Dimmi Alessandro del Caccia, tu che sei mercatante, che sei uso a maneggiare danari, che sai quanto importano queste cose, parevat’egli onesto che una somma infinita di danari, tante centinaia di migliaia di ducati si maneggiassino cosí sobriamente, cosí asciuttamente ed in modo che se n’avessi a prestare fede a te solo? Come non si accompagnava el detto tuo con le ricevute di chi gli ha avuti, con le fede delle terze persone, con tante chiarezze come facilmente si poteva, che non si lasciassi luogo da dubitarne? Quello che e’ mercatanti cauti fanno nelle centinaia di ducati, non ti pareva conveniente doversi fare in sí grossa quantitá? Quello che tu eri solito fare negli interessi mediocri di Iacopo Salviati, non ti pareva debito farsi nello stato della tua patria? Avevavi accecati tutt’a dua tanto la avarizia ed el peccato, che voi credessi che uno furto sí smisurato e che toccava a tanti, non avessi a venire a luce? Credevi voi che in questa cittá fussisi poco ingegno, sí poco discorso, sí poca esperienzia che questi conti, che per loro non hanno lume alcuno ed in contrario hanno tante ripruove, vi fussino ammessi? Sono certo non ci stimate però sí poco che lo credessi; e se avessi pensato averne a rendere el conto qui, saresti stati o piú vergognosi a fare el male o piú ingegnosi a dargli colore. Ma la cosa giace qui, el punto è questo: credesti, poi che la guerra si maneggiava in nome del papa, poi che eri in campo come ministri suoi, averne a dare conto a Roma, dove le cose vanno alla grossa, dove si corrompe ognuno, dove el papa sarebbe stato come per el passato così liberale de’ danari di altri, come sempre è stato stretto de’ suoi, dove la autoritá di messer Francesco arebbe serrato la bocca a ognuno, dove el favore di Iacopo Salviati arebbe difeso Alessandro. E chi sa anche se Iacopo è a parte di questo furto, perché la preda è sí grossa che a pena si può credere che messer Francesco solo, benché abbia lo stomaco grande, l’abbia smaltita, che una rete sola l’abbia tenuta; né lui si stima sí poco che a Alessandro solo avessi voluto dare dieci soldi per lira. Questo è verisimile: avevano fatto tutt’a dua la lega intorno al papa; Iacopo aveva procurato di farlo venire a Roma, l’uno rimetteva la palla in mano all’altro; è credibile che come erano compagni alla ambizione, fussino ancora compagni alle prede.

Vedete, giudici, come tuttavia si chiariscono piú le cose, e come cercando uno delitto se ne truova dua, cercando uno ladro se ne truovono parecchi: col furto veggiamo la falsitá de’ libri, con messer Francesco ladro vediamo ladro Alessandro del Caccia, scorgiamo qualche pedata di Iacopo Salviati, siamo in luogo che tutto verrá in luce: cosí vuole la divina giustizia, così vogliono e’ peccati vostri. Strignete pure alla restituzione messer Francesco, come è conveniente, sendo lui el principale che si vede, sendo quello che aveva autoritá di dispensare el danaro, quello a chi toccava a fare pagare e’ soldati, che aveva a commettere tutte le spese: vedrete che per non volere pagare la parte di altri, sará sforzato a cavare fuora el libro segreto, a scoprire e’ compagni, a pregarvi che voi riscotiate da ognuno la parte sua. Allegherá che nel tempo che ha governato le terre della Chiesa è stata predicata la sua integritá, e che non è credibile che se ha cercato buono nome nelle terre di altri, l’abbia voluto cattivo nella patria; produrrá testimoni, fede, lettere di quelle comunitá, e vorrá che noi crediamo piú alle cose da lontano e che ci sono e’ monti in mezzo, che a quelle che abbiamo innanzi agli occhi.

Io non so di che qualitá tu sia stato nelle terre di altri, né mi curo di cercarlo, ma dico bene che sei stato tristo quivi. Non è miracolo che tu abbia continuato nel male, perché chi comincia a farne abito va sempre peggiorando; se sei stato quivi buono, tanto minore scusa meriti, tanto piú sei degno di odio, sendoti dato al male non in etá giovane, non quando eri povero, che arebbe pure qualche compassione, ma quando eri giá ricco, quando eri in su guadagni grossissimi, quando avevi giá passato quaranta anni, in modo che non si può averti né misericordia né perdono; e se in tale etá, in tale esperienzia hai cominciato a diventare tristo, né ti sei curato di perdere el nome di buono, quanto piú facilmente ora e con quanto minore rispetto, pure che n’avessi occasione, continueresti nel male! Rimuovi adunche questi tuoi testimoni lombardi e romagnuoli, queste tue carte mendicate dalle comunitá, perché né fo difficultá di accettare né durerei fatica di riprovarle. So bene come si vive in coteste cittá, so che quegli uomini che non ebbono mai né libertá né imperio, cognoscono solo lo interesse loro, ed el fare piacere a piú potenti di loro; non hanno nelle cose loro gravitá, non vergogna, non conscienzia; sono non manco servili con l’animo che con la necessitá; una raccomandazione in Lombardia di uno conte, uno priego in Romagna di uno governatore, uno cenno di uno vescovo non che di uno cardinale, gli farebbe ogni dí fare mille sagramenti falsi; e quello che fanno a casa loro e che si sanno per ognuno, che conto credete che tenghino di farlo negli interessi di altri, ed in luogo dove pensano che non sia ripruova? Non fui mai io in Lombardia né in Romagna, ma non sono però sí povero di amici, né ha alla fine sí poche forze la veritá, che se la importanza della causa consistessi in questo, non mi fussi dato l’animo affogarti nelle lettere e ne’ testimoni, ma per essere cose leggiere e di nessuno momento, mi pare perdere queste poche parole che io ci consumo drento, e mi incresce che tu abbia perduto la spesa e la fatica per condurre in qua tanti suggelli.

È adunche il furto chiaro ma non giá la quantitá, perché la non ha regola, non ha misura, non ha certezza; tanto ha rubato quanto ha voluto; pensate dunche quanto è stato; non vi aggiugne giá lo arbitrio mio, non lo capisce la immaginazione, come s’ha dunche a liquidare? Giudicherete che quello che non potrá fare constare legittimamente d’avere speso, tanto abbia a restituire, perché chi è debitore alla entrata è obligato a provare la uscita. Si farebbe cosí in ogni uomo buono, perché non è giusto che la negligenzia faccia male a altri che a sé; quanto piú si debbe fare in uno che s’ha certezza che sia tristo. Se questo modo di procedere non vi piacerá, giudici, le legge hanno provisto per altra via: vogliono che ogni volta che el danno è certo, ma la quantitá incerta, si stia al giuramento dello attore, né può lamentarsi di questo rigore chi con le ribalderie sue è stato causa che bisogni usare questo rigore. Avete udito, giudici, le rapine ed e’ mali causati dalla avarizia sua; non tutti, perché era cosa infinita ed impossibile, ma quegli che io v’ho saputo proporre. Udite ora e’ peccati della ambizione ed e’ pericoli che se non sí provedessi porterebbe da lui la nostra libertá.

Io dico che in questa cittá non è cittadino alcuno che abbia ricevuto tanti benefici da’ Medici quanto ha lui; nessuno che della ruina loro abbia perduto piú che lui; nessuno che del ritorno e grandezza loro fussi per guadagnare piú; nessuno finalmente a chi s’abbia a credere che per molte ragione dispiaccia piú la vita privata; perché gli altri tutti o hanno avuto da’ Medici manco di lui, o se alcuno ha avuto piú, non è stato dato a lui ma al parentado, a qualche antica servitú, a qualche beneficio fatto loro nel tempo delle sue infelicitá. Quelli che hanno avuto o danari o benefici o altra utilitá, se le tengono, né l’hanno perduto per la ruina loro, né sono certi d’avere a cavare utilitá del ritorno loro; e ciò che hanno avuto non è stato per modo che gli abbia dato causa o necessitá di spiccarsi con lo animo o colle opere dalla civiltá. Ma costui non aveva co’ Medici congiunzione alcuna di sangue, non alcuno vinculo o dependenzia se non una generale, che con loro aveva avuto anticamente la casa sua, la quale per molti anni e vari accidenti che erano occorsi, era giá quasi fuora della memoria degli uomini; e nondimeno ha avuto da loro undici continui anni, magistrati ed amministrazione onoratissime e grandissime, di che ha cavato guadagno ed utilitá inestimabile e tanta riputazione e grandezza che si può dire che sono giá molti anni e forse qualche etá, che non uscí di Firenze cittadino che stessi fuora maggiore e piú onorato di lui. Né gli ha avuti per tempo determinato, ma con certissima speranza d’avergli a tenere durante la vita del pontefice, apresso a chi era in tanto grado, che gli fussi concesso governare per sustituti una provincia grande ed importante come è la Romagna, avessi in tempo di guerra la cura di tutti gli eserciti ed arme sue, e nella pace fussi eletto a stargli apresso per consultore ed espeditore di tutte le faccende maggiore. Luoghi di tanta grandezza e di tanto profitto che non si può porre termine a questi guadagni uno, dua o tre migliaia di ducati l’anno, ma sono somme incerte ed infinite; e la riputazione non è minore, perché chi è sí grande apresso a uno papa è in notizia di tutta Italia, è osservato da tutta la corte, adorato da tutto lo stato della Chiesa, e finalmente è ancora grande e riputato apresso a tutti e’ príncipi del mondo; e per essere apresso a uno papa che aveva usurpato el governo di questa cittá, ci aveva cosí abundante quella autoritá e grandezza, che lui medesimo voleva, ed era in potestá sua disporre per e’ parenti ed amici suoi e per chi gli pareva, delli onori ed utili che ci sono. Perché come poteva negare tali cose el papa a uno che avessi in mano tutti e’ segreti e tutto lo stato suo? e come quegli che erano qua vicari suoi, poi che la indignitá in che era allora questa povera cittá mi sforza usare questo vocabulo, potevano fare di non consentire ogni cosa a uno che era di continuo agli orecchi ed in tanto credito con quello principe, da chi dependeva tutto el bene e la speranza loro?

Tutte queste cose adunche tanto utile, tanto grande, tanto onorevole ha perduto messer Francesco per la ruina de’ Medici; tutte e forse maggiore spererebbe recuperare per la esaltazione loro; ma mentre che stanno depressi, come desiderano tutti buoni, è restato sanza guadagni, sanza potenzia, sanza autoritá, fuora della memoria ed esistimazione de’ príncipi, e qui pari a tutti voi a chi gli pareva potere comandare, ed a molti de’ quali si sarebbe quasi sdegnato di parlare. E dove soleva dominare a nobile e magnifiche cittá, dove negli eserciti era obedito da’ principali signori e gentiluomini d’Italia, dove giá undici anni è stata la casa, la vita, la spesa e la corte sua non da privato ma da principe, ora gli sono mancati e’ guadagni, gli è mancata la autoritá, sta sottoposto alle legge ed alla esistimazione degli uomini, e bisogna ancora che aspro gli paia che viva in casa e fuora in dimostrazione ed in effetti cosí privatamente, cosí abiettamente come fa ciascuno di noi.

Non crediate, giudici, che quelle cittá che lui ha governato siano povere e debole come sono quelle del vostro dominio; non crediate che chi le governa per la Chiesa vi stia con poca corte, con poco braccio o con la autoritá limitata come stanno e’ vostri rettori; e’ quali per avere poco salario, per vivere obligati alle legge vostre, per avere vicina la cittá dove e’ sudditi ogni di hanno ricorso, si può quasi dire che in fatti ed in apparenzia siano poco meglio che privati. Ma immaginatevi cittá grande, abundanti, ricche, piene di nobilitá, piene di conti e di baroni, dove e’ governatori hanno gli emolumenti ordinari ed estraordinari grandissimi, dove hanno la autoritá molto maggiore: non sottoposta a legge o regola alcuna, è tutta in arbitrio loro. Per essere el papa lontano ed occupato in cose molto maggiore, non possono avere e’ sudditi ricorso a lui se non con grandissima spesa e difficultá, e con pochissimo profitto; in modo che reputano per manco male sopportare da’ governatori le ingiurie che gli sono fatte, che cercando el remedio perdere tempo e danari, e provocarsi piú chi di nuovo gli può ingiuriare; e però uno governatore ed è e pare signore di quelle cittá.

E certo se voi avessi veduto, giudici, messer Francesco in Romagna, come credo che qui siano presenti molti che l’hanno veduto, con la casa piena di arazzi, di argenti, di servidori, con el concorso di tutta la provincia, che dal papa in fuora, quale rimetteva totalmente ogni cosa a lui, non cognosceva altro superiore, con una guardia intorno di piú di cento lanzchenech, con alabardieri, con altre guardie di cavalli andare per la cittá in mezzo sempre di centinaia di persone, non cavalcare mai con manco di cento o centocinquanta cavalli, affogare nelle signorie, ne’ titoli, nello illustrissimo signore, non l’aresti ricognosciuto per vostro cittadino, per simile a voi; ma considerata la grandezza delle faccende, la autoritá smisurata, el dominio e governo grandissimo, la corte e la pompa, vi sarebbe parso piú presto equale a ogni duca che a altro principe. Cosí quando era negli eserciti, non vi immaginate vedere uno vostro commissario, che per non essere e’ campi nostri piú grossi, né la autoritá della cittá maggiore di quello che la sia, e per molti altri rispetti, può parere grande negli occhi di ognuno, ma non supremo: non era cosí lui, trovandosi con tutta la autoritá in mano di sí grande principe come era uno papa, capo sempre e principale delle leghe in eserciti grossissimi, e dove erano tutti e’ grandi capitani e signori di Italia, tanti gentiluomini, tanta nobilitá; dove avendo grandissima occasione di fare utilitá e riputazione a molti, era non solo onorato ma quasi adorato.

Infiniti erano e’ concorsi, gli spacci, le faccende, le lettere delli imbasciadori, [de] príncipi e de’ duchi, insino del re di Francia, che gli venivano. Giá lui con le dimostrazione, co’ pensieri, con le voglie, con tutte le azione non sapeva piú di privato; giá le parole, e’ modi, la alterezza, el volere essere ubidito ed inteso a cenni, non erano altrimenti che di uno che fussi nato e vivuto sempre da principe, e che sempre avessi a vivere principe e morire. Fastidiva il titolo di commissario come inferiore alla grandezza sua: faceva chiamarsi luogotenente, che non è altro che dire di essere el medesimo che el papa. E crediamo che chi ha perduto tanto, non sia malcontento della ruina de’ Medici? Chi spera recuperare tanto, non desideri dí e notte la grandezza loro? Chi è uso tanti anni a vivere cosí, possa stare sotto la vita privata, possa fermare el capo sotto uno de’ nostri cappucci? Uno di noi se esce de’ signori, sta uno mese innanzi che possa assettarsi alla vita di prima; e nondimeno è officio di dua mesi preso da noi con animo di lasciarlo; è limitato, accompagnato, e che a dire el vero ha di signore poco altro che ’l nome. E noi crediamo che uno che giá undici anni continui ha avuto tanta utilitá, tanta riputazione, tanta grandezza, tanta pompa ed onori, e nella quale ha sempre pensato e sperato piú quasi perpetuarla che finirla, possa sopportare pazientemente la vita privata, possa vedersi spogliato di tutte quelle cose che lo facevano differente dagli altri, possa sopportare che noi mediocri cittadini gli siamo pari, parliamo delle cose della cittá, o seco o sanza lui come di cosa commune; non si vergogni d’averci per compagni ne’ magistrati, possa tollerare d’avere a essere vegghiato e giudicato da’ nostri pari, d’avere a essere finalmente condannato da voi?

Non è cosí, giudici, non è. Non solo tutti e’ suoi pensieri e disegni non hanno altro fine che ritornare a quello che ha perduto; ma chi potessi sapere la veritá, tutti e’ sogni della notte non sono pieni di altro che di guardie, di staffette, di governi, di eserciti, di signori e di tiranni. E certo, come io sono naturalmente inclinato piú a pensare e desiderare el bene, che a interpretare male, se io non vedessi nel resto della vita sua manifesti effetti, se io non lo vedessi avarissimo, io mi lascerei facilmente persuadere che avessi lo animo quieto, e che essendosi goduto modestamente tanti anni quello bene che la fortuna gli aveva dato, ora si accommodassi facilmente a quello che succede, come prudente che è, e finalmente come buono non tenessi piú conto delle particularitá sue e degli oblighi che ha co’ tiranni, che del bene universale e della libertá della sua patria. Ma quando mi rivolgo nella mente le opere sue e la vita passata, e ricognosco e’ costumi e cattivi fini suoi, e quello che sempre è stata la natura sua, la ragione mi vince, e mi bisogna, ancora che io non voglia, acconsentire e confessare che lui non desidera e pensa a altro che potere satisfare alle cupiditá sue, e ritornare in quella vita dove pensa che consista la felicitá.

Ricordomi averlo cognosciuto e conversato seco quando era giovanetto: non si potrebbe dire quanto era inquieto, quando desideroso di governare gli altri compagni suoi, ed essere sempre el primo fra tutti, nelle compagnie o come diciamo noi nelle buche, pieno di sètte e di praticuzze, seminatore di discordie e di scandoli. Che io non finga queste cose vi farò constare, giudici, perché de’ compagni nostri vivono molti degnissimi di fede, quali mi rendo certo che esaminati non negheranno la veritá, e vi diranno piú oltre che tra noi tutti era tanto nota questa sua inquiete ed ambizione, che alcuni de’ nostri lo chiamavano Alcibiade, volendo denotare uno spirito cupido, inquieto ed autore di cose nuove; il che, o fortuna della nostra cittá, non solo è stato prudente ed oculato iudicio, ma piú presto profezia, perché non di minori mali è stato costui causa a Firenze che fussi Alcibiade a Atene. Chi adunche in sí tenera etá dimostra e scuopre questa natura, che si può credere che abbia a essere nel resto della vita? Non dice quello proverbio vulgato che el buono di si cognosce da mattina? E ragionevolmente, perché ognuno nella etá matura sa meglio coprire e simulare gli umori suoi; il che quegli che sono sí giovani non sanno fare, ma tutto quello che hanno insino nelle viscere, insino nel cuore apparisce sanza alcuno riservo. E se nella etá sí tenera, nella quale è quasi miracolo che sentissi el gusto della potenzia e degli onori, fu tale, che possiamo noi credere che sia stato poi e che sia ora, avendo ed eletto modo di vita ed avuto fortuna atta a destare la ambizione in ogni freddo e molle spirito, nonché in uno che da se medesimo ne ardessi?

Difficile è repugnare alla natura, giudici, difficile spegnere quelli abiti che sono infissi nelle ossa, che t’hanno accompagnato col latte e con la cuna. Chi per necessitá o per accidente piglia vita contraria, a pena con lungo tempo mortifica la inclinazione naturale; ma chi piglia vita conforme, e vi ha drento successo, la nutrisce e la accresce ogni giorno, in modo che se era per natura verbigrazia ambizioso, diventa per natura e per accidente ambiziosissimo. Non avete voi udito di Cesare, in chi ancora fanciullo furono cognosciuti quelli semi, el frutto de’ quali fu poi la ruína della patria? Non so parlare per molto tempo degli anni che seguirono a quella etá, perché andò fuora di Firenze a studio, ma la ragione vi forza a credere che quale avete inteso essere stato el principio suo, quale vedete essere stato di poi el suo progresso, tale sia stato questo tempo della assenzia sua; perché sempre e’ mezzi corrispondono e participano della natura degli estremi.

Tornato da studio, insino al tempo che andò in Spagna, se bene visse principalmente attento alla sua facultá della legge, donde sperava cavare l’utile e l’onore, pure in quelle discordie che erano allora nella cittá tra el gonfaloniere e quelli cittadini principali, che in nome biasimavano la troppa autoritá che pigliava el gonfaloniere, ma in fatto non potevano tollerare el governo populare, dette qualche segno dell’animo ed inquietudine sua, ma in modo che potette apparire solo a chi lo considerò piú da presso: dall’universale della cittá e da chi non conversava seco non fu cognosciuto, perché per la etá non interveniva ne’ magistrati e consulte publiche, e la apparenzia del vivere suo pareva piena di gravitá e di modestia. Nondimanco ancora che fussi povero, prese per moglie con poca dota e quasi contro alla voluntá del padre una figliuola di Alamanno Salviati, che allora era uno di quelli che piú che gli altri si mostrava contro al gonfaIoniere; il che non fece per altro che per cominciare a mescolarsi nelle sedizione e guadagnarsi el favore degli amici de’ Medici; e si sarebbe scoperto piú questo suo pensiero se la autoritá del padre, al quale volessi Dio che lui fussi simile, che era uomo alienissimo da questi modi, non l’avessi constretto a procedere piú reservatamente che non arebbe fatto, in modo che per questo e per la brevitá del tempo che non fu piú di tre o quattro anni, per la professione del dottore nella quale secondo la etá aveva buono credito, per la grazia e riputazione del padre, per el numero de’ parenti, per la presenzia, per e’ costumi che parevano pieni di prudenzia e bontá, fu eletto in 28 anni con favore grande degli ottanta, imbasciadore in Spagna, e fattogli piú onore che mai fussi fatto a giovane alcuno della nostra cittá. E certo da questi semi della ambizione in fuora, che allora erano noti a pochi, erano le qualitá sue da tirarsi drieto credito, perché è copioso di quelle parte che sono necessarie alle faccende. Né crediate che se non ne fussi stato bene dotato, fussi sí giovane salito facilmente a tanto onore; e però è tanto piú pericoloso questo suo appetito di grandezza, perché se fussi accompagnato da ignavia e tarditá di ingegno, forse lo riprenderemo, ma sanza dubio non ne temeremo; ma dove concorrono tante parte quante sono in lui, è imprudenzia farsene beffe o disprezzarlo.

La imbasceria di Spagna, dove era al ritorno de’ Medici, ha fatto parlare molti, di sorte che se io l’avessi chiamato in giudicio per odio o per fine mio particulare, e non per affezione mera della republica, piglierei questa occasione, procederei da accusatore, lo officio del quale è non solo accrescere le cose vere ma colorire le dubie, fomentare tutte le suspizione, né lasciare intentata cosa alcuna per la quale possa darsi carico o molestia allo accusato; ma perché io non procedo da accusatore né cerco la vittoria ma el bene publico, mi dispiacerebbe che e’ peccati non veri fussino accettati per veri; però proporrò la cosa nudamente come è, e le conietture che ci sono, non pigliando carico di affermare quello che non so, né di confortare e’ giudici a crederne se non quello a che gli indurrá la veritá stessa della cosa.

Hanno, giudici, detto molti che benché fussi mandato in Spagna dalla republica e per la libertá della cittá, nondimeno che apresso a quello re favorí la tornata de’ Medici, e che fu in gran parte causa di indurlo a mandare lo esercito suo a rimettergli. Le conietture che loro allegano, perché di simile cosa non si può avere certezza, sono molte: che quando in quella corte venne la nuova del ritorno loro, el re si rallegrò con lui publicamente come con amico de’ Medici, il che sentirete dire da testimoni; dove vedendolo imbasciadore mandato dalla cittá, aveva a credere el contrario se non l’avessi prima sentito loro fautore; che doppo el ritorno loro ve lo lasciorono circa a uno anno, che pareva male verisimile non essendo confidato loro; che finalmente tornato di Spagna, ancora che mai non avessi veduto e’ Medici né fatto altra cosa per loro, fu da loro accarezzato ed onorato con tanta dimostrazione, che a qualunque noto ed interessato con loro non sarebbe stato fatto piú segni di benivolenzia e di fede. Conietture che certo paiono potenti, ma io non le accresco, non le riscaldo, non voglio che vaglino piú che conforti la veritá.

Ma quando questa imputazione fussi vera, di che io mi rimetto alla veritá ed alle prudenzie vostre, non potrebbe nessuna orazione dimostrare abbastanza quanto fussi grande questa sceleratezza; nessuno benché acerbissimo supplicio potrebbe essere pari a tanta iniquitá, a tanto enorme ribalderia, a tanto inaudito tradimento. Perché se nessuno eccesso che possino fare gli uomini è maggiore che essere operatore di tôrre la libertá della sua patria, perché contiene in sé tanti tristi effetti quanti non si possono immaginare nonché esprimere, quanto si aggrava per le circunstanzie, avendo fatto questo uno di chi la cittá si era fidata, uno che aveva accettato di essere suo ministro, uno che contro a lei ed in pernicie sua abbia usato quel nome, quella autoritá di che lei con somma confidenzia l’aveva vestito ed onorato per beneficio suo! Non lo chiamo tradimento, non assassinamento, non parricidio, perché sono minori vocabuli che non si conviene.

Ma sia quello che si voglia, io non posso sanza grandissima indignazione ricordarmi della sua singulare ingratitudine, ed anche non maravigliarmi del suo corrotto gusto e giudicio; che avendo in sí giovane etá conseguito dalla patria sua con commune consenso di coloro che secondo le legge n’avevano autoritá, tanto onore che mai piú dalla cittá libera fu dato a uno sí giovane, e del quale e’ vecchi sogliono onorarsi grandemente, e potendo da questo principio essere certo che non gli mancherebbono tutti e’ primi gradi e quella autoritá che può avere uno cittadino nella republica; dimenticato di tanto beneficio, di tanta affezione che gli era stata dimostrata, di tanta fede che era stata avuta in lui, e di prudenzia e di bontá, abbi potuto diventare amico e ministro delle tirannide, e sostenuto di essere ancora lui instrumento ed aiutare di tenere el piede in sul collo alla patria sua, ed a quella patria con la quale aveva tutte le obligazione commune che hanno gli altri cittadini e particularmente questa sí rara, di sí rara demostrazione ed onore che gli era stato fatto; che abbia tenuto piú conto e stimato piú quello favore e grandezza che gli potevano dare in Firenze e’ tiranni (che non si può avere sanza indegnitá, sanza pericolo, sanza continuo ed acerrimo stimulo della conscienzia) che non stimato ed apprezzato quegli onori ed autoritá che poteva conseguire dalla cittá libera, che sono sicuri, sono gloriosi, ed a chi non ha corrotto lo stomaco, con infinita satisfazione dell’animo.

Non posso certo ricordarmene sanza dispiacere, perché se bene ho ora in odio e’ vizi tuoi, se bene ho paura del pericolo che portiamo tutti da te, non però voglio male da te; anzi ricordandomi che tutti siamo uomini, che siamo cittadini di una medesima patria, e della conversazione che in quelli primi tempi ebbi teco, ho dolore, t’ho compassione che la natura tua e gli abiti cattivi abbino potuto tanto in te, che quelle dote che tu hai di lettere, di ingegno, di eloquenzia, le quali io confesso che sono molte e grande, tu l’abbia volte a cattivo cammino; e dove avevi facultá di essere uno de’ rari ornamenti della nostra cittá, di essere glorioso e di autoritá grata a ognuno, e vivere con benivolenzia singulare apresso a’ tuoi cittadini, abbia piú presto, per appetito male misurato ed erroneo, voluto essere instrumento di offendere ed oscurare el nome della patria, farsi inimico a tutti e’ cittadini, odioso si può dire a se medesimo, e finalmente detestabile nella memoria degli uomini. Ma passiamo alle altre cose sue.

Tornato di Spagna fu ricevuto da Lorenzo de’ Medici quale non aveva mai veduto, che allora era venuto al governo nostro, con grandissime carezze e con tanto onore e dimostrazione di confidenzia, che non sanza ragione accrebbe el sospetto a quegli che avevano dubitato che mentre che era imbasciadore non avessi venduto e tradito la nostra libertá. Fu fatto subito de’ diciassette, che erano tutti de’ piú intimi e piú onorati amici loro; ebbe tutti e’ gradi che poteva avere per la etá; fu chiamato alle pratiche strette dove intervenivano pochissimi, e nessuno che non avessi piú di lui almanco dodici o quindici anni; né desiderò cosa per e’ fratelli, parenti ed amici che non ottenessi. Quale fussi allora el vivere suo, e con che mezzi si conservassi nella benivolenzia e favore del tiranno, non si può sapere particularmente, perché per l’ordinario le azione di quelli tempi non appariscono come ora ne’ consigli e publicamente: sono cose che girano in privato per le camere ed in pochi, ma si può cognoscere benissimo per gli effetti. Perché l’averlo accettato negli intimi quando tornò di Spagna, si potrebbe dire che fussi proceduto da essersi ingannati; ma el continuare nell’onorarlo, lo accrescere ogni dí segni di amore e benevolenzia, mostra manifestamente che lo trovorono amico ed utile alla tirannide, che è quello solo che el tiranno osserva; el quale non studia in altro se non chiarirsi dello animo degli uomini, ed adoperar quegli che truova confidati e desiderosi della sua grandezza: cosí è necessario dire che trovassino lui. Però non solo mentre che stette in Firenze gli feciono quegli onori e piaceri che voi avete inteso, ma non molto poi, non lo dimandando né vi pensando lui, lo mandorono governatore di Modena: a che concorsono tutti e quegli di Roma e quelli di Firenze, perché per le arte medesime era grato a tutti ed in spezie madonna Alfonsina, donna come sappiamo tutti avarissima ed ambiziosissima, la quale fu quella che lo propose, ed a chi fu sempre molto grato. Che se è vero quello che è verissimo, che ogni simile ama el suo simile, vi può mostrare abastanza che ancora lui fussi infetto di ambizione e di avarizia, della quale quella donna fu una fonte ed uno esemplo.

Da questo principio fu come uno corso degli onori e grandezza sua, perché diventò ogni dí piú grato e piú confidente a’ tiranni; in modo che ebbe poco di poi el governo di Reggio, ebbe quello di Parma, fu mandato commissario generale con suprema autoritá nella guerra contro a’ franzesi; ebbe la presidenzia di Romagna, ed in ultimo fu chiamato dal papa a Roma perché stessi apresso a lui come consultore e secretario suo, donde fu poi mandato luogotenente suo in questa pestifera guerra, con tanta potestá, con tanta riputazione che parve che uscissi fuora non uno instrumento, non uno ministro del papa, ma uno compagno, un fratello, uno altro se medesimo. Le quali cose sí grande e sí rare non si può credere che gli avessino date da principio ed accresciute ogni di doppo l’averlo provato, se non l’avessino trovato confidentissimo e tutto loro, tutto tirannico: massime che se uno di loro solo gli avessi fatto questi favori, si potrebbe dubitare che fussi proceduto da qualche falsa opinione, da qualche similitudine di natura, da qualche conformitá di influsso; ma quando io veggo che è stato grato, che è stato accetto, che è stato confidatissimo a tutti, a Leone, a Clemente, a Giuliano, a Lorenzo, insino a madonna Alfonsina, donna come sapete propriissima ed inumanissima, non debbo giá credere che tutti si siano ingannati, che tutti avessino qualche inclinazione simile alle sue, che tutti fussino nati sotto una medesima stella di lui. La conformitá di natura, lo influsso è l’averlo trovato amatore delle tirannide, inimico della libertá della sua patria; questo è stato el vinculo, questa è stata la coniunzione, questo è stato el mezzo di approvarti, di farti tanto grato a loro; della quale se tu fussi mancato, saresti mancato della principale parte, del primo fondamento che negli uomini desiderano e cercano e’ tiranni; e non avendo quello che loro vogliono e stimano piú che altro, non saresti stato loro tanto grato, tanto accetto, non saresti stato un altro se medesimo.

Sento, giudici, quello che lui risponderá in questo luogo per offuscare una cosa chiarissima: che forse ricercavano appetito tirannico in quelli che adoperavano in Firenze, ma che lui gli serviva di fuora in cose dependenti dalla Chiesa, le quali appartenevano a loro come a príncipi, non come a tiranni; narrerá la integritá, la fede, la sufficienzia sua, e’ pericoli corsi molte volte, e cercherá tirare a sua laude e suo onore quello che è eterna sua macula, eterno suo vituperio.

Io vi confesso, giudici, che questa difesa mi spaventerebbe, mi farebbe vacillare lo animo, perché la è, prima facie, verisimile e magnifica; ma mi conforta la prudenzia vostra, la notizia che io so che voi avete delle cose, el cognoscervi tali che non vi lascerete ingannare dagli estrinsechi, ma vorrete penetrare insino alle midolle. Non è nessuno di sí poca notizia del mondo, di sí poca esperienzia, che non sappia che, come ancora io accennai poco fa, la prima cosa che ama e che ricerca uno tiranno in uno suo cittadino è el cognoscerlo amatore e confidato allo stato suo, e cerca con ogni diligenzia, con ogni industria chiarirsi e scoprire se ha questo animo o no; e ragionevolmente, perché essendo el suo primo fondamento, el suo primo obietto el conservare la tirannide, bisogna che questi siano e’ suoi primi pensieri, la sua prima cura. Leggete in Cornelio Tacito scrittore gravissimo, che Augusto insino al dí che morí, insino al punto che spirava l’anima, ancora che per la vecchiaia ed infirmitá avessi giá consumato el corpo e lo spirito, lasciò per ricordo a Tiberio successore suo, chi erano quegli di chi non doveva fidarsi. Però impossibile è che gli sia grato o che vòlti riputazione a uno cittadino el quale non creda che sia amico suo, che sia desideroso di mantenere la sua tirannide; perché come bene disse Salamone a quello scolare secondo la novella di colui, sono reciproche queste cose, l’amore e la opinione di essere amato; né può uno tiranno fare grande e riputato uno se non l’ha per amico, se non pensa d’aversene a valere, se crede che gli abbia a essere contrario; perché in una cittá solita a essere libera non si può considerare mezzo alcuno: ciascuno di necessitá o ama la libertá o ama el tiranno, e chi ama l’uno, bisogna che odii l’altro.

Né è buona o vera distinzione dalle cose di Firenze a quelle della Chiesa, perché se tu gli avessi veduto malvolentieri grandi a Firenze, aresti avuto anche per male la grandezza del pontificato; e se tu amavi quella, amavi anche di necessitá questa altra, perché erano congiunte e connesse in modo insieme, che non potevano ruinare nell’una che non ruinassino nella altra. E se loro non avessino bene cognosciuto e fatto paragone dello animo tuo, t’arebbono intrattenuto in Firenze come uno altro tuo pari; ma che necessitá avevano di adoperartisi estraordinariamente, massime che tu sei seculare ed uxorato, ed e’ luoghi dove loro t’hanno posto erano tutti debiti e soliti darsi a prelati? Dirai la carestia degli uomini virtuosi e sufficienti come tu; moderata certo difesa e degna dirsi in tanto concorso di uomini, acciò che questi piú giovani imparino da te parlare modesto e conveniente a cittadini; ma è bene debito che la ambizione sia accompagnata dalla arroganzia, né ci possiamo sdegnare e maravigliare che dove sono tante altre macule, sia ancora la superbia; anzi se la è, come è veramente, madre della ambizione, è molto onesto che noi la vediamo insieme con la figliuola.

Ho confessato e confesso di nuovo che le dote tue sono rare, e che tu hai qualitá da fare faccende, in modo che se el papa non avessi facultá di eleggere ministri se non di una cittá sola, potrebbe forse passare questa risposta; benché né anche sanza difficultá perché io t’ho per uomo virtuoso, non giá per miracoloso. Ma potendo el papa ed essendo consueto eleggere ministri di ogni qualitá e di ogni nazione, ed avendo sempre intorno infiniti che cercano queste cose, troppo presummi di te medesimo, troppo credi che noi ti stimiamo, se pensi darci a credere che la necessitá l’abbi indotto a disprezzare e’ prieghi e le ambizione di tanti che erano in corte, e venire a cavare da’ libelli e di uno studio te che eri lontano dagli occhi suoi, che pensavi a ogni altra cosa, che eri sanza notizia e pratica alcuna di governi e di cose di Chiesa. Però rimuovi, lieva via, ti priego, questa difesa come vana, come arrogante, come piú atta a dimostrare la tua natura e la immoderata opinione che hai di te, che a darci indizio alcuno di virtú o diminuire in parte alcuna questa suspizione.

Ma perché consumo io tanto tempo, perché cerco io sanza bisogno tanto di conietture, come se manchi la facultá di allegare effetti, esperienzie2 certe ed inescusabile, e non una sola, ma piú? Dimmi, non si sa egli che doppo la morte di Lorenzo, el cardinale de’ Medici che oggi è papa, sendosi fermo al governo di Firenze, volle che tu restassi qui, con lasciarti e’ governi in mano e tenervi per sostituto Luigi tuo fratello? Non ti voleva giá qua per niente: non per adoperarti nelle cose della Chiesa e del papato, ma per ministro a mantenere la sua potenzia, per uno in chi potessi riposare e’ segreti della tirannide. Si sa bene el fondamento che faceva di te; sono penetrati benché fussino occulte gli ordini delle intelligenzie che s’avevano a fare; sássi bene el disegno che aveva di fare parentado teco; e se non ti fermasti non fu perché quello che io ho detto non sia vero, ma perché succedendo la guerra ti volle adoperare in quello che importava piú allo stato suo. Poi la morte del papa ed altri accidenti ed in ultimo la elezione sua al papato variorono tutti questi pensieri. Ma dimmi piú oltre, nella stanza tua di Roma non intendevi tu e non maneggiavi tu le faccende di Firenze come quelle di fuora? Perché quivi non si deliberava niente di importanza, ma tutto si riferiva a Roma, e di quivi veniva la legge in ogni cosa benché minima. Dunche come puoi tu negare che el papa non abbia con -fidato in te cosí intrinsicamente delle cose di Firenze come di quelle di fuora? E come possiamo noi credere che avendoti lui maneggiato tanti anni in faccende sí grandi ed in tanto diverse, che non abbia avuto mille volte occasione e facultá di cognoscerti insino alle piante de’ piedi, e che t’abbia eletto per instrumento confidantissimo alla tirannide, perché con mille paragoni t’ha cognosciuto e veduto tale?

Ma vegnano finalmente a quello che abbiamo veduto tutti noi, che ha per testimonio tutta questa cittá, a quello che allora guardamo con gli occhi pieni di lacrime, con l’animo pieno di desperazione, ora ce ne ricordiamo con inestimabile desiderio di vendetta. Chi fu quello che el dí di san Marco ci tolse el nostro Palazzo? Chi fu quello che ci spogliò della recuperata libertá? O di da non se ne ricordare mai sanza pianto! O fatto da fame una memoria, uno esemplo che duri quanto dureranno le prietre e la memoria di questa cittá! O cittadino, se tu meriti questo nome, piú detestabile, piú pernizioso alla nostra republica che non fu mai né Alcibiade a Atene, né Silla o Cesare a Roma! Loro oppressono una libertá invecchiata e che moriva, tu opprimesti la nostra el dí medesimo che la nasceva e risuscitava; loro mossi da qualche ingiuria e da qualche pericolo e dagli sdegni che avevano con gli altri concorrenti loro, cercorono di farsi capi della loro cittá; tu non ingiuriato da nessuno, onorato e chiamato da tutti, vendesti per schiavi, rimettesti in servitú la patria, te ed ognuno; loro accompagnati da parte della cittá e da molti se bene cattivi cittadini, pure cittadini, oppressono l’altra; tu solo di tutta questa patria rimettesti el giogo in sul collo a ognuno.

Non era uomo in questa cittá di ogni qualitá ed etá, che non fussi corso al Palazzo insino a’ piú stretti e piú intrinsechi amici de’ Medici, o non volendo discrepare da quello che facevano gli altri, o non avendo ardire di opporsegli; el sommo magistrato, del quale era capo tuo fratello co’ modi legittimi ed ordinari della cittá gli aveva dichiarati rubelli; era una allegrezza di ognuno in se medesimo, una congratulazione fra tutti inestimabile; e’ vecchi per smisurato gaudio piagnevano, e’ giovani saltavano, nessuno capeva in se medesimo. Sentivansi voce di tutti: abbiamo pure recuperata la nostra libertá, abbiamo pure riavuto l’anima, siamo pure vivi, siamo pure liberi, non siamo piú in servitú, non siamo piú schiavi, siamo usciti delle tenebre, siamo usciti di Egitto. O dí lieto, o dí giocondo, o dí di eterna memoria, nel quale Dio ha pure finalmente visitato el popolo suo!

In questi romori, in questi concorsi, in questi ed altri maggiori segni di letizia, sendo e’ soldati giá dispersi, e’ Medici a cavallo per fuggire, el marchese di Saluzzo di animo di lasciare correre el duca di Urbino di dare la spinta; tu solo fermasti la ruina, tu rimettesti animo a’ tiranni, tu ristrignesti e’ soldati, pregasti quelli signori, e tutti insieme, ma tu come capitano, tu come la ruína di tutti, ne venisti alla piazza; né potendo quello innocente popolo disarmato, atto piú alle mercatantie ed alla pace che a combattere, opporsi a tanto impeto, resistere a tanto furore, combattere con uomini armati e persone militari, lo cacciasti di piazza, ve ne facesti signori. Né dando requie a tanta ribalderia, cominciasti subito a fare trarre al palazzo; a quello palazzo nel quale consiste la maiestá di questa cittá, a quello palazzo che è armario delle legge, recettaculo di tutti e’ consigli publici, che è difesa e fondamento della libertá e gloria nostra, a quello palazzo a’ cenni del quale non soleva essere cittadino alcuno sí grande e sí superbo che non ubidissi, che non si umiliassi; alla voce del quale solevano inginocchiarsi gli uomini, tremare insino alle pietre; la riverenzia di chi farebbe inginocchiare ancora te, farebbeti tremare, se tu fussi cittadino, se pure uno uomo, non una fiera, uno monstro, se in te non fussi piú durezza che in una prieta, piú impietá che in una tigre, piú invidia che in uno Lucifero; ed el quale non ti bastò avere circundato, non averlo combattuto, che con scelerato pensiero, con effetto ancora piú scelerato, con fraude, con insidie, con tradimento cavasti dalle mani nostre.

Ricordatevi quando, ottenuto da noi di potere venire a parlarci, venne su col signor Federigo; proposeci tanti pericoli, la ruina nostra e di tutta la cittá sí manifesta: tante gente d’arme, tante artiglierie, tante fanterie; el popolo parte dissipato, parte avere preso le arme per e’ Medici; empiè falsamente ogni cosa di minacci e di terrore; el volto era tutto ardente, gli occhi pieni di arroganzia, le parole piene di furore, lo spirito tutto fiamma e tutto fuoco; credavamo fussi la pietá della cittá, el desiderio di liberarci dal pericolo; pensavamo si ricordassi di essere fiorentino, fussi conforme di animo a’ fratelli, a’ cognati, a tanti parenti, a tutta la nobilitá della cittá che era quivi. Avevamogli, doppo el tumulto levato, scritte lettere pregandolo che venissi a soccorrere la sua patria, che menassi alla salute nostra gli eserciti pagati da noi; non sapevamo che sotto questa effigie di uomo fussi tanta malignitá, tanto veneno; credevamo che in questo corpo fussi una anima, non uno spirito di diavolo. Credemo non al signor Federigo, quale sapevamo che era forestiere, e che non amando la patria sua non poteva amare la nostra; a te credemo, a te prestamo fede, credemo alle tue belle parole, a’ tuoi giuramenti. Tu ci persuadesti che fussino e’ pericoli dove non erano; che gli apparati fussino grandi, che erano piccoli; che el popolo fussi spento e rivoltato, che non aspettava altro che la notte giá vicina per tornare alla salute nostra; tanto che sotto quelle fede che sai quanto ci furono osservate, ci inducesti a lasciare el Palazzo, a rimettere el collo sotto el giogo, a desperare in perpetuo, se Dio miracolosamente non ci avessi soccorso, della nostra libertá. Questa fu tutta tua opera, queste sono le egregie pruove che tu hai fatto in questa guerra; questo el trionfo che tu n’hai cavato, orribile inimico della tua patria, la quale non ti può perdonare tanta atrocitá, né te la perdonerebbe tuo padre se fussi vivo.

E si disputa ancora se tu se’ amico del tiranno? Sono cose cosí chiare che non conviene se ne dica piú; per tutti e’ segni, per tutte le opere ed azione tue si scorge la immoderata ambizione. È piú chiaro che el sole, che impossibile è che tu ti quieti sotto la vita privata, che tu non desideri tornare a quella grandezza che tu hai perduta, e che per conseguirla non è cosa di sorte alcuna che tu non tentassi. E certo questo appetito tuo mi darebbe poca molestia se io vedessi che ti potessi succedere sanza el ritorno de’ Medici in Firenze; perché come disse Neri di Gino al conte di Poppi, quando feciono al ponte d’Arno la capitulazione per la quale lui si uscí dal suo stato, io vorrei che tu fussi uno signore grande ma nella Magna. E’ tuoi guadagni, la tua riputazione, queste tue prosopopeie, che tu fussi signore nonché presidente di Romagna, che tu consigliassi e governassi tutti e’ papi che sono e che saranno, a me darebbe poca molestia, pure che tu potessi ottenerlo sanza la nostra servitú. Ma né papa Clemente può piú essere grande né ricuperare el dominio che aveva la Chiesa, che è conquassato e lacerato come voi vedete, se non ritorna nello stato di Firenze, se non può fare le guerre co’ nostri danari; e quando pure potessi avere quello sanza questo, a te non può riuscire l’uno sanza l’altro, perché puoi essere certo che la cittá che ragionevolmente è gelosa della sua libertá e che dagli esempli passati ha imparato a vivere in futuro, non permetterá mai che tu o altri cittadini vadino a servirlo, né consentirá mai che abbiate commerzio con chi dí e notte non penserá mai a altro che rimetterci quello giogo sotto el quale e’ passati suoi e lui ci hanno fatto, bontá de’ tristi cittadini, crepare tanti anni. Però non potendo tu pervenire a quello fine nel quale ti pare che consista el sommo bene, sanza questo mezzo, chi dubita che tu desideri e che sia per cercare e quello ed ogni altra cosa che ti conducessi al disegno tuo?

Piú dico, giudici, che per le medesime ragioni, posposti ancora tutti gli intressi e speranze del papato, non è da dubitare che ami e’ Medici in Firenze; perché l’abbiamo visto in questa medesima inclinazione innanzi che andassi a’ governi: non è uso alla equalitá né alla civilitá; è nutrito ne’ pensieri ed azioni tirannici; non cognosce lo amore della libertá, non la riputazione che può avere uno cittadino in una cittá libera, non che contento che frutto sia nella vita privata, nella tranquillitá dello animo, nello amore e benivolenzia de’ suoi cittadini.

Ma dirá forse qualcuno, forse cadrá ancora nel pensiero vostro, giudici: tutte queste cose sono verissime ed è impossibile non confessare che a chi ha lo stomaco depravato e corrotto non piaceranno mai sapori e cibi contrari a quegli co’ quali insíno a ora è vivuto e nutrito; pure lo animo sanza le forze importa poco, né si debbe tenere conto della sua mala intenzione perché non ha facultá di metterla in effetto: lui, quello che e’ sia stato per el passato, è ora privato cittadino, sottoposto alle legge nostre come qualunque minímo di questa cittá, non ha piú autoritá di soldati, né governo di popoli a chi comandare. In che può egli offendere la nostra libertá? Questa sua immoderata ambizione, questo ardore di grandezza serve piú presto a farlo vivere con perpetuo cruciato e tormento, che a satisfare alle sue prave cupiditá; è piú presto supplicio suo che nostro pericolo. Il che volessi Dio che fussi cosí, e che io avessi preso invano in uno tempo medesimo fatica, pericolo ed inimicizie. Ma chi lo crede si inganna, perché in lui concorrono molte cose alle quali è necessario avere buona considerazione.

Principalmente ha, come voi sapete, nella cittá molti parenti ed amici, nel contado molto credito; di fuora, per le cose grande che lungo tempo ha maneggiate, ha riputazione e molte amicizie; è noto nelle corte di tutti e’ príncipi, ha esperienzie assai negli stati; concorre in lui lingua, animo ed ingegno e molte parte che, come se lui fussi buono cittadino sarebbono grate ed utili alla patria, cosí essendo el contrario sono pericolose. La libertá nostra è nuova; la cittá ancora non bene unita, gli animi di molti cittadini dubi; el governo, come di necessitá accade ne’ principii, piú presto insino a ora confuso che ordinato; pieno ogni cosa di sospetto e di varietá. Non abbiamo a temere di uno tiranno uomo privato, ma di uno papa, che benché al presente paia afflitto, può ogni ora risurgere: le cose di Italia in tanta agitazione e travagli che da mille anni in qua non furono mai tante. Non ci bisogna solo considerare el mondo come sta ora, ma possono nascere ogni ora molti accidenti che augumenterebbono sanza comparazione le difficultá, e’ sospetti e pericoli. In questo stato adunche di cose tanto incerto, tanto sospeso, è bene debole, è bene male pratico chi non cognosce e non considera quanto sia pericoloso avere in casa uno inimico che abbia qui séguito, fuora riputazione, e che possa essere creduto quando prometterá piú ancora che non sia in potestá sua di osservare, che abbia animo a tentare cose nuove, ingegno a saperle ordinare, lingua e penna da poterle persuadere, e che sia in grado che dí e notte non pensi altro che a rimettere la tírannide, che a suffocare la nostra libertá.

Non erano né di esperienzia né di credito né di parte alcuna da comparare a messer Francesco quegli che nel 12 cacciorono el gonfaloniere: e’ tiranni parevano spenti, la cittá amatrice come ora del vivere populare, quale era molto piú ordinato e fondato che non è di presente, le cose di Italia finalmente assai piú sedate, piú sicure che non sono ora; e nondimeno se co’ loro giovani inesperti e di poca ríputazione potettono così facilmente mutare el governo, se quello piccolo seme per non essere curato e stimato produsse si pestiferi frutti, che potrá fare costui che ha tante qualitá, tanto credito e tante occasione? Che fará questo arbero che ha sí profonde radíce, cosí grandi e sparsi rami? Non pareva certo che allora la libertá nostra si potessi perdere, tanto aveva messo barbe e fondamenti: uno gonfaloniere a vita integro ed amatore del popolo, uno consíglio grande durato tanti anní, uno governo che per essere giá ínvecchiato e cancellata la memoria delle mutazioní piaceva quasi a tutti e non era temuto da persona.

E veramente non si poteva perdere, non ci poteva essere tolto, se si fussino stimati e’ pericoli, se si fussi ovviato a’ principii, se la troppa sicurtá o la troppa bontá non ci avessi fatto essere piú che el bisogno negligenti o rispettosi. Perché in Piero Soderini, giudici, furono molte parte, molte eccellente virtú che lo feciono degno di tanto grado: prudenzia, ingegno, eloquenzia eccellente esperienzia grande, nettezza ed integritá quanto si potessi desiderare; modestia grandissima cosí in non ingiuriare altri, come in non permettere che e’ suoi l’ingiuriassino; diligenzia singulare in conservare e’ danari publici; tanto amore alla libertá ed al popolo quanto a se stesso; el medesimo umanissimo pazientissimo catolico; aveva innanzi fussi gonfaloniere, affaticato assai per la patria; era noto in tutta Italia, grato in Francia donde allora dependevano le cose nostre, di casa nobile ed onorata, di padre e fratelli che furono uno ornamento di questa cittá; lui di bella e grata presenzia, lui sanza figliuoli, stato alieno da tutte le discordie e sedizione che furono in quello tempo.

E però concorrendo in lui tante dote di natura e di accidenti, fu eletto gonfaloniere con favore inestimabile e con aspettazione molto maggiore: alla quale sarebbe stato sanza dubio pari, se a tanti doni del corpo e della fortuna e dell’animo si fussi aggiunta una qualitá sola. che fussi stato o piú suspizioso a dubitare de’ cattivi cittadini, o se ne dubitava, piú animoso e piú vivo a assicurarsene. Ma mentre che, o credendo quella bontá negli altri che era in lui, o non gli parendo giusto per e’ sospetti soli, insino che le congiure non erano scoperte, insino che le cose non si potevano piú dissimulare, battere persona, o parendogli forse non a proposito della cittá, o privatamente a sé pericoloso el manomettere cittadini, non ovviò a’ principii, non medicò le cose quando era facile, lasciolle scorrere in luogo che quando volle provedervi non fu a tempo. E questa sua o negligenzia o pazienzia o pusillanimitá fu causa di fare morire lui in esilio, e di tenere noi quindici anni in una servitú sí crudele, sí insolente e sí vituperosa. Sursono a tempo suo molti accidenti, de’ quali ciascuno che fussi stato medicato assicurava in perpetuo la nostra libertá; perché la pena di uno non solo giova con lo effetto levando via el male che machinava lui, ma molto piú per lo esempio, faccendo che per paura tutti gli altri simili si astengono da pensare di machinare contro allo stato.

Filippo Strozzi, el quale io non nomino per odio o per offenderlo perché gli sono amicissimo e, come penso che sia assai noto, molto obligato, Filippo Strozzi dico, ancora garzone tolse per moglie la Clarice, figliuola di Piero de’ Medici. Funne fatto dagli amatori della libertá molto romore, mostrando quanto era di malo esempio che uno nostro cittadino facessi sanza licenzia e consenso del publico, parentado con quelli rebelli che aspiravano alla tirannide; quanto era pericoloso lasciargli congiugnere con persone nobile e potenti; quanto era pernizioso che gli altri avessino a pigliare animo di intrinsicarsi con loro piú innanzi, e ristrignere ogni dí seco le pratiche ed el commerzio; non essere verisimile che questo garzone avessi preso tanto animo da se medesimo, ma che era da credere che fussi stato consigliato e fomentato da quelli che ogni di piú pigliavano ardore dalla pazienzia nostra, e non altro effetto che per andare ordinando la strada al ritorno de’ Medici.

Allegossi in contrario la etá del giovane, che non era credibile che pensassi tanto oltre; che non ci era legge che proibissi questo parentado, se non uno statuto antico che metteva pena pecuniaria assai leggiere; che quivi non appariva congiura, non pratica alcuna contro allo stato; essere uno semplice parentado fatto o per leggerezza o per avarizia praticato da frati e simili instrumenti, e non da cittadini: volere dire che fussi fomentato da altri e che avessi maggiore fondamento, essere uno indovinare, uno calunniare gli uomini al buio; non convenirsi in casi di tanta importanza; aversi a giudicare le cose criminali per pruove non per conietture; non essere questo delitto contro allo stato, ma trasgressione solo di uno statuto, e sí oscuro nelle parole sue che si poteva disputare in ogni parte, e però o eleggendo in dubio, come si debbe, el senso piú mansueto, doversi assolvere; o volendo pure andare al rigore, non si potere condannare se non secondo quello statuto; volerlo trapassare essere cosa tirannica, detestabile in una cittá libera, dove e gli uomini hanno a vivere ed e’ magistrati a giudicare secondo le legge. Che piú? Ingannorono gli uomini imperiti sí belle parole, el gonfaloniere la natura sua, in modo che fu condannato leggermente ed anche in capo di pochi mesi fu restituito; e dove se si trattava da caso di stato come per ogni conto si doveva, la pena sua arebbe spaventato gli altri, la impunitá dette grandissimo animo e licenzia, e quello che poteva essere fondamento di assicurare la libertá, fu el principio e la origine della ruina.

Cognoscesti tutti Bernardo Rucellai, cittadino certo notabile di lettere, di ingegno, di esperienza e di grandissima notizia di cose, ma piú ambizioso ed inquieto che non è a proposito di una cittá libera. Fu molti anni inimico de’ Medici: eransi lui ed e’ figliuoli travagliati a cacciargli; di poi o per sdegni che ebbe con Piero Soderini ancora innanzi che fussi gonfaioniere, o piú presto per la natura sua impaziente di questa equalitá, volse lo animo al ritorno loro, cominciò a essere uno refugio de’ malcontenti, uno corruttore de’giovani, e’ quali facilmente si lasciono ingannare dalle cose cattive quando hanno colore di buone. Cominciò quello orto suo a essere come una academia: quivi concorrevano molti dotti, molti giovani amatori di lettere, parlavasi di studi, di cose belle. Era udito come una sirena perché era ornatissimo ed eloquentissimo, né si vedeva estrinsecamente cosa alcuna che si potessi biasimare o riprendere; nondimanco e la natura dell’uomo e la riputazione che aveva ed el concorso di tanti malcontenti e giovani faceva paura a chi considerava piú drento; in modo che molti savi facevano instanzia che vi si provedessi, allegando non essere a proposito tollerare uno uomo di autoritá, ambizioso, malcontento e di séguito; bisognare nelle cose degli stati tagliare e’ princípi e le origine, le pratiche e le congiure maneggiate massime dagli uomini prudenti e di esperienzia; non si potere facilmente provare o scoprire, né essere sicuro aspettare tanto che ogni uomo le cognoscessi: essere necessario prevenire e con la pena di uno o di dua fermare la salute di tutti.

In contrario si allegava non essere onesto fare cattivo giudicio degli uomini, se non quanto mostrava la esperienzia; non essere utile disperare e’ cittadini grandi; partorire cattivi effetti el toccare sanza necessitá el sangue, o mandare in esilio persona; non bastare e’ sospetti e le conietture, ma ricercarsi evidenzie manifestissime e che si toccassino con mano; altrimenti essere modi da spaventare ognuno, da fare che nessuno si tenessi sicuro, da fare che tutti quelli che o per bontá o per non si mettere in pericolo non pensavano a alterare la cittá, per necessitá e per paura vi volterebbono lo animo. Fu approvata questa opinione dalla incredulitá o poco animo del gonfaloniere; e dove col partire Bernardo era tagliata la pianta che produsse el veleno con che morí la nostra libertá, el tollerarlo gli dette facultá di tenere stretti ed uniti e’ malcontenti, di corrompere l’animo di molti giovani, in modo che di quell’orto, come si dice del cavallo troiano, uscirono le congiure, uscinne la ritornata de’ Medici, uscinne la fiamma che abruciò questa cittá; e si scoperse finalmente tutto in modo che potette essere cognosciuto da ognuno, ma in tempo che non potette essere proveduto da nessuno.

Sento ora, giudici, in simili casi e pericoli dirsi le medesime cose e difese: perché non crediate che messer Francesco e chi parlerá per lui, confessi le congiure, confessi che gli abbia animo di procurare el ritorno de’ Medici, e facci instanzia che appartiene alla clemenzia vostra el perdonarli per questa volta, che è utile col fare tanto beneficio guadagnarsi lui e tanti parenti suoi, che questo esemplo di misericordia, che tanta bontá e dolcezza vostra assicurerá ed obligherá in eterno molti che ora hanno paura della invidia o dello sdegno. Non si diranno, no, queste cose, perché le si dicono a padri non a giudici, ma si dirá: che fa egli? E’ vive privatamente, non si sa sua pratica alcuna, non si vede alcuno suo andamento che meritamente lo faccia sospetto; sta basso ed abietto quanto sia possíbile: perché vogliamo noi credere el male dove facilmente potrebbe essere el bene? Ha travagliato tanto, ha corso tanti pericoli, che non è maraviglia che ora ami la qiete, la sicurtá, che voglia godersi quello che con tanta fatica ha acquistato; non si dovere sanza grandissime cagione volere fuora uno per inimico, chi si possa avere drento per amico; che se co’ sospetti soli si condanna lui, el medesimo temeranno tanti altri che erano amici de’ Medici; dispererassi tanta nobilitá, e questo stato che noi possiamo tenere con la benevolenzia, cerchereno di metterlo in pericolo con lo odio.

Dirannosi queste cose e molte altre, come è communemente piú ingegnoso chi difende el male che chi favorisce el bene; le quali ragione quando si allegheranno, giudici, in superficie belle, piacevole, dolce, utili e sicure, ma in effetto brutte, amare, insidiose, pericolose e velenose, è uficio vostro ricordarvi e tenere sempre fisso nella memoria, che messer Francesco è beneficato eccessivamente da’ Medici, che è stato sempre instrumento e ministro loro, che è malissimo contento, che desidera che tornino, perché è ambizioso, perché ha perduto della ruina loro grandissimi onori ed utili, e spera recuperarli della esaltazione; che è impossibile che si accommodi alla vita privata, a essere equale a quelli a chi soleva essere superiore; che ha offeso tanto el publico, massime nel cavarci del nostro Palazzo, nel tôrci la libertá recuperata, che o dubita continuamente della pena, o dispera di avere mai nel vivere libero autoritá; che e’ pensieri, e’ disegni, le azione, le opere sue sono sempre state di sorte che non ci può essere scusa, non colore, non dubio alcuno che e’ sia per procurare sempre opportunamente ed importunamente di tôrvi la vostra libertá, la quale lui reputa sua pena, sua infamia e sua servitú.

Tutte queste cose bisogna, giudici, che abbiate fisse innanzi gli occhi, e quanto piú efficace saranno le parole, gli argumenti, le lusinghe, e’ prieghi, le persuasione, le esclamazione ed e’ terrori, tanto piú sempre voltiate a queste el cuore, e’ pensieri e lo animo. Bisogna che piú oltre vi ricordiate che ne’ giudici delle congiure, delle machinazione contro allo stato, non si procede come in quelli delle cose private, o delle publiche ancora di minore importanza. Gli altri delitti si credono quando sono scoperti, si puniscono quando sono commessi, non si condanna la voluntá, non el tentare ancora sanza le opere; questo solo, per la grandezza sua, si crede innanzi si sappia, questo si gastiga innanzi sia commesso, in questo è punito non solo chi ha operato, chi ha tentato, ma ancora chi ha voluto o consentito, e quello che è piú chi solamente ha saputo.

Fu a tempo de’ maggiori nostri, tagliato el capo a messer Donato Barbadori perché aveva avuto notizia di una congiura e non l’aveva revelata; a’ dí miei fu per la medesima causa tagliato la testa a Bernardo del Nero, cosa introdotta non solo dagli statuti vostri, ma ancora dalle legge commune, le quali e tutti e’ savi che hanno fondato le republiche, hanno studiato piú nella provisione che non si commetta, che nella vendetta, e però in questo hanno introdotto, cosí nel cercarlo come nel gastigarlo, molti esempli singulari, mossi non manco da giustizia che da prudenzia; perché principalmente questo è delitto contro alla patria, alla quale siamo piú obligati che a’ parenti, che al padre, che a noi medesimi. Ordinarono le legge supplicio crudelissimo a chi amazza el padre; quanto piú merita chi amazza la patria, con la quale abbiamo maggiore vinculo, ed offendendo quella non si offende uno solo, ma infiniti, non si toglie la vita a uno che aveva a vivere pochi anni, ma a chi poteva averla lunghissima e forse perpetua! Gli altri delitti quando sono commessi possono essere facilmente puniti, perché non si spengono e’ ministri delle legge; ma mutati gli stati, oppressa la libertá, chi gli muta non solo resta in grado di [non] temere di essere gastigato del male che ha fatto, ma con autoritá di offendere chi non ha mai fatto se non bene. Gli altri delitti sono particulari, questo universale; negli altri delitti se bene la pena non emenda al danno, pure fa satisfazione o pari o poco minore della offesa; ma che è el tôrre la vita a uno scelerato che abbia occupato una libertá, a comparazione di tanti mali, di tanta ruina di che è stato causa? Però a cercare questo delitto con tutte le severitá non bisognano indizi o molto leggieri, a punirlo non bisogna le opere, basta l’avere voluto, l’avere saputo, a assicurarsene basta l’avere sospetto, el cognoscere che lui abbia commoditá, abbia facultá.

Cosí hanno fatto sempre coloro che sono stati maggiori e piú savi che noi, coloro della virtú de’ quali possiamo piú presto maravigliarci che aggiugnervi pure coi discorso. In Roma doppo la cacciata de’ Tarquini...3 e’ re, doppo avere tolto loro e’ beni, avere fatto morire una congiura di giovani nobilissimi che trattavano di rimetterli, doppo l’avere con molte buone legge, con molti buoni ordini stabilito la loro libertá, non parve loro abastanza avere punito e’ peccatori, avere levato via e’ sospetti, l’avere proveduto dove era ogni spezie di pericolo a tutto quello che poteva nuocere non solo con lo effetto ma con lo esemplo; che ancora giudicorono necessario tôrre ogni autoritá che4 cosa che potessi dare ombra alla libertá, e che fussi meglio essere incolpati di diligenzia superflua, che lasciare apparire vestigio alcuno di negligenzia. Però mandorono in esilio Lucio Tarquinio consorte de’ re’, non ostante che fussi inimico loro capitale, perché l’adulterio e la violenzia per la quale erano stati cacciati fu commesso nella moglie sua, e non ostante che lui, mosso da tanta ingiuria, fussi de’ principali a scoprirsi con Bruto a cacciargli, e che come manifesto amatore della libertá, fussi insieme con lui stato fatto console. E tennono piú conto [di] quella utilitá che parve loro che tornassi alla republíca di cacciare via el nome de’ tiranni, di spegnerne ogni memoria che restava nella cittá, che di fare ingiustizia a uno cittadino e rendere sí cattiva remunerazione a chi era stato uno de’ primi instrumenti a fargli diventare liberi; e ragionevolmente, perché s’ha a tenere piú conto della sicurtá di tutti che della salute di uno solo.

Gli ateniesi, da’ quali non solo tutta la Grecia ma ancora molte nazione forestiere imparorono l’umanitá, la dottrina e le buone arte, oltre a essere sempre presti e veementi in punire chi machinava contro alla libertá, giudicorono che non fussi bene sicuro avere drento nella cittá quelli cittadini che o per nobilitá e molti parentadi, o per eccessive ricchezze, o per riputazione di cose fatte, paressi che avanzassino gli altri, giudicando, come è verissimo, che e’ veri amici della libertá sono e’ cittadini mediocri o di minore qualitá, e che quelli che si discostano dalla mediocritá verso la grandezza, abbino piú presto causa, semi o occasione di cercare di opprimere gli altri che di amare la equalitá, e che alla sicurtá della republica appartenga non solo che non vi sia chi non voglia, ma né anche chi possa conculcarla. E però ebbono una legge che sempre in capo di dieci anni si mandassino a partito nel consiglio del popolo tutti e’ cittadini, e quello che pareva a piú numero fussi mandato in esilio; donde sempre era cacciato non uno che avessi mala fama, non uno che fussi provato che avessi machinato contro alla republica, perché a questo provvedevano e’ giudici ordinari, ma uno che avessi piú qualitá e piú riputazione che gli altri, e spesse volte quelli che l’avevano acquistata con le virtú e con lo affaticarsi e mettersi a pericolo per la patria. Perché sempre e’ savi governatori delle republiche hanno cognosciuto che le libertá hanno molti inimici, molti pericoli, ed a comparazione di quegli che le oppugnano pochi e caldi defensori; e però che a conservarle è necessaria estrema diligenzia e vigilanzia, non aspettare che e mali creschino o ingagliardischino, ma provedere a’ principii ed alle origine; levare via le piante troppo eminenti e che fanno ombra alle altre; medicare non solamente e’ sospetti, ma tutte le cose che potrebbono per l’avvenire fare mai sospetto; e finalmente per essere pietoso di uno solo, non usare crudeltá nella salute di tutti.

Ma che cerco io gli esempli forestieri potendo allegare e’ nostri medesimi? A’ tempi degli antichi nostri messer Corso Donati, cittadino di grande virtú e riputazione e che aveva fatto piú che nessuno altro in favore del governo che reggeva, tolse per moglie una figliuola di Uguccione della Faggiuola, forestiere, capo di parte e potente, per il che venne in sospetto che non volessi occupare la libertá; ed a questo la provisione che vi si fece per quegli antichi nostri uomini veramente savi, veramente virili, non fu osservare gli andamenti suoi, non cercare pruove e testimoni, non fare diligenzia per chiarirsi se era uno parentado semplice o fatto con pensiero di turbare lo stato della cittá; ma pensando che le cose che consistono nello animo non si possono facilmente scoprire, che el differire le provisione potrebbe talvolta essere pericoloso, che ancora secondo le legge nelle cause private non che in quelle che va tanto interesse, e’ sospetti qualche volta hanno forza di pruove; ma el medesimo giorno che in loro nacque el timore lo oppressono, faccendo nel medesimo dí accusarlo, nel medesimo dí citarlo, nel medesimo dí condannarlo; e quello che è piú, sanza alcuno intervallo di tempo, el popolo tutto armato andò alle case sue a fare la esecuzione, né gli parve avere assicurato la sua libertá se non quando lo vedde tagliato a pezzi per le strade.

La quale prudenzia di cosí savie republiche se fussi in noi, o se noi avessimo quello vigore e generositá di animo che ebbono giá gli avoli e bisavoli nostri; se fussimo gelosi di questa nostra sposa, come per infiniti rispetti doverremo essere, come pure tante esperienzie ci doverrebbono avere oramai insegnato, non si procederebbe in uno caso sí brutto, sí atroce, sí vituperoso, pieno di sí pessimi esempli, con tante cerimonie, con tanta maturitá. Non si farebbono tante diligenzie di fare pruove e di esaminare testimoni; non starebbe qui el popolo ozioso, come se el caso fussi di altri, a udire orazione, a aspettare lo esito di questo giudicio; non si darebbe facultá di difendersi secondo gli ordini delle legge a chi sempre è stato inimico delle legge, non di godere e’ benefici della libertá a chi ha sempre cercato di opprimerla; non sarebbe, messer Francesco, udita la parola tua, la quale hai sempre adoperata per tôrre a tutti noi la facultá di potere parlare; non ti sarebbe lecito fermarti per difendere in questa piazza della quale armata mano cacciasti sí crudelmente questo popolo, non ti sarebbe consentito el guardare questo Palazzo del quale con mille fraude, con mille inganni sí sceleratamente privasti e’ nostri cittadini.

Quello dí medesimo che doppo la cacciata de’ Medici tornasti contro alla opinione di ognuno insolentemente di campo in questa cittá, dico quello dí, quell’ora medesima sarebbe el popolo corso furiosamente a casa tua; arebbe col fare di te mille pezzi esequito quella sentenzia che tu hai meritato giá tanti anni, quella sentenzia dico, che ti si legge scritta nella fronte; arebbe saziato gli occhi del piú onesto, del piú giusto, del piú desiderato e piú aspettato spettaculo che avessi mai questa cittá, e fatto del sangue tuo quello sacrificio che si doveva alla patria ed alla nostra libertá. Almanco quando, dimenticato di quello che pochi dí innanzi avevi fatto, ardisti non so se piú impudentemente o piú superbamente entrare in Palazzo, la signoria t’arebbe fatto saltare a terra delle finestre, né comportato mai che tu tornassi a basso per quelle scale per le quale eri sí frescamente salito a spogliarci della recuperata libertá. Con questi modi si stabiliscono le republiche, con questi modi si danno esempli che bastano per molte etá e memorie degli uomini.

Francesco Valori, quando io ero giovane, cittadino buono e di grandissima autoritá, essendo el popolo in tumulto per le cose del frate, mentre che con uno mazziere innanzi andava per comandamento della signoria da casa sua in Palagio, fu amazzato per la via da’ parenti di Niccolò Ridolfi e di quelli altri e’ quali lui poco innanzi aveva procurato che si punissino, perché avevano congiurato di rimettere Piero de’ Medici. E noi tutti, uno popolo intero, non abbiamo avuto ardire di fare per la salute nostra sí giustamente contro a uno tale scelerato, quello che pochi privati bastò loro l’animo di fare ingiustamente contro a sí buono e sí notabile cittadino, e ci maravigliamo poi che sí spesso si trovi chi abbia ardire di cercare di opprimere la nostra libertá, chi pigli ogni dí animo di fare machinazione e congiure, poi che è lasciato vivere chi sí manifestamente, cosí crudelmente ce l’ha tolta; e non solo lasciato vivere, ma permesso che usi la patria, usi la civilitá, usi tutti e’ benefici e le legge della libertá, non altrimenti che è permesso usare a chi l’ha fondata. Ma poi che si vive cosí vediamo se vorrá allegare altra difesa.

Ricorderavi come amatore della republica, o lui o altri per lui, che è mala cosa mandare in esilio cittadini, avere fuorusciti, che vengono molti tempi che sono dannosi alle cittá e danno animo a’ príncipi di travagliarle. Dirá che piú si guadagnano e’ cittadini co’ benefíci, che non si spengono con le pene; essere piú utile avergli drento amici, che fuora inimici; che la condannazione sua dispererá molti, temendo ogni dí el medesimo di sé, che la assoluzione assicurerá ognuno e fermerá gli animi che stanno sospesi; quello che in ultimo non gli parrá potere ottenere con questa ragione, cercherá di ottenere co’ prieghi, con la misericordia, con la compassione. Deplorerá le sue calamitá e persecuzione, allegherá mille esempli della vostra mansuetudine; pregherravi che non pigliate natura e costumi nuovi, che non vogliate discrepare da voi medesimi, da Dio finalmente esempio e fonte di misericordia. Cose che potrebbono forse essere udite se si potessi sperare che tu diventassi dissimile di te medesimo, o se questa facilitá non fussi per essere la totale ruina di questa cittá: perché se bene e’ peccati tuoi sono inestimabili, se passano sanza comparazione tutti e’ peccati insieme che da cento anni in qua si sono commessi da cittadini di questa cittá, a chi ha passato ogni esemplo di peccare non conviene che giovino gli esempli della misericordia. Io che sono lo accusatore tuo volterei questa voce a peccare per te, né sarei manco caldo in pregare che sono stato in accusare. Darei questo a’ parenti tuoi, dareilo alla conversazione che giá ebbi teco, dare’ lo a’ meriti di tuo padre; ma se vi sei incorrigibile, se questa mansuetudine che tu alleghi è crudeltá contro alla patria, chi è quello che non vede che per la salute tua non si debbe distruggere la salute nostra?

Le cose nostre passate, provate con tanto danno nostro, ci debbono ammunire delle future, e quello che non è stata potente a insegnarci la ragione, ci doverrebbe pure insegnare la esperienzia. Non doverremo piú confondere e’ vocabuli delle cose, doverremo pure oramai sapere che è differenzia da bontá a dappocaggine: quella conserva e’ buoni, questa perdona a’ tristi. E’ padri nostri nel 94 usorono questa misericordia agli amici de’ Medici, perdonando loro tutte le cose passate, esaltandogli sanza distinzione a tutti gli onori; né però mutorono opinione, anzi si dette animo agli altri di tentare cose nuove, sperando con questi esempli anche loro la impunitá, donde seguí la perdita della nostra libertá, e quella misericordia fu causa che fumo di nuovo conculcati e che di nuovo andamo in bocca di Faraone. Se si fa ora el medesimo, seguiranno gli effetti medesimi, ma con piú infamia nostra, perché felice è chi impara a spese di altri, pazzo è chi impara alle sue. Che fanno questi esempli altro che dare animo a’ tristi di machinare, altro che fare che in ogni tempo non manchino a’ tiranni satelliti e ministri? Chi è quello che non voglia essere amico de’ tiranni, se mentre stanno in Firenze si gode lo stato e grandezza loro; cacciati che sono, non ne va altro che avere per qualche mese uno poco di grido drieto sanza effetto, e per una volta o due qualche decina di ducati piú che non vorrebbono di balzello? Studiano tutte l’altre cittá di fare esempli che non si cerchi di restituire e’ tiranni, che, quando sono drento, che e’ cittadini non gli seguitino e non gli fomentino; e noi facciamo ogni cosa perché, quando sono fuora, ci sia chi apra le porte a fargli tornare, e quando sono drento, chi le serri perché non possino andarsene. Non è questa misericordia, non mansuetudine, è dissoluzione di governo, è equivocazione di ordine, crudeltá di se stesso. Quando non abbiamo la libertá, non pensiamo, non desideriamo, non suspiriamo altro; quando l’abbiamo, perdiamo ogni memoria di conservarla.

Ricordatevi, giudici, quanto ci è parsa lunga e grave questa ultima servitú; ricordatevi quante orazione, quante lacrime, quanti voti abbiamo fatto per recuperarla; ricordatevi che non la virtú, non le opere nostre, ma Dio miracolosamente ce l’ha restituita. Quando togliemo l’arme per recuperarla, ci caddono prima di mano che l’avessimo prese; quando ci pareva essere piú soggiogati, piú oppressi, Dio, dico, di nuovo miracolosamente ce l’ha renduta; non ce l’ha data perché ce la lasciamo cadere; non ci ha dato facultá di conservarla perché per dapocaggine la perdiamo. Non vogliamo tentare Dio, non dargli causa di voltare gli occhi da noi: non vuole sempre fare miracoli, vuole che anche gli uomini si aiutino per se stesso5. Perdonate, io sono contento, a messer Francesco, se non siate certi che e per la natura sua sará pernizioso come prima, e per la misericordia vostra piú animoso al male che prima. Abbiategli rispetto per non spaventare troppo o disperare gli amici de’ Medici, se non cognoscete che e’ sono incorrigibili, e che è pazzia cercare di piegare con la dolcezza quelli che è necessario tenere legati con la rigiditá. E’ fisici valenti quando hanno curato lungamente uno infermo co’ rimedi freddi, se veggono che non giovano, pigliano la via contraria ed adoperano e’ caldi. Noi abbiamo voluto sanare tante volte la cittá con la mansuetudine e con la clemenzia; veggiamo che questo infermo è sempre piggiorato, procuriamo la severitá e la asprezza. Manco male è che gli amici de’ Medici spaventino, che e’ piglino animo; meglio che si desperino, che se avessino causa di sperare troppo; meglio e piú sicuro è che stia fuora chi sarebbe pericoloso drento. Vorrei che sanza danno publico si potessi lasciare stare ognuno nella cittá; ma di dua mali si debbe eleggere el minore, e lo inimico che è fuora ti fa paura, quello che è drento ti fa male.

Avete udito e’ peccati di messer Francesco: paionvi cose nefande, inaudite, nuove; paionvi cose che con difficultá vi aresti potuto immaginare, cose che avete orrore a sentirle dire. Che direte quando gli arete uditi tutti, quando arò messo in luce quello che è la fonte e la origine di tutti gli altri, quello che passa ogni esempio di ambizione e di avarizia?

Era presidente di Romagna, con tanto piede che vi teneva el fratello per sustituto; stava lui fermo apresso al papa a consigliare ed espedire tutte le faccende dello stato, le quali quanto siano grande in uno pontificato è difficile a pensare, piú difficile a dire. Trovavasi in tanta riputazione, in tanta autoritá, in tanti guadagni, che non che mai l’avessi sperata, non aveva mai avuto ardire di desiderarla: perché la veritá è che sono gradi che passano la misura di cittadini fiorentini, non da uomini privati ma da personaggi grandi; gradi che nonché gli altri ma e’ cardinali sogliono tenersene onorati; e nondimeno né tanti onori né tanta utilitá né tanta grandezza bastorono a questo animo corrotto, a questa fonte di tutta la cupiditá. Per andare capo degli eserciti, per trionfare della Lombardia, per farsi vedere in excelsis a quegli popoli che aveva governato tanti anni; per parere quello che governassi la pace e la guerra, per parere unico apresso al papa, e come io credo anche per avere commoditá di rubare tanto tesoro; per qualunque di queste cose o per tutte insieme, perché uno peccato sí grande bisogna che abbia piú di una origine, tanto parlò, tanto disse, tanto arguí, tanto esclamò, tanto subornò gli altri, che indusse el papa alle arme, a pigliare questa guerra perniziosa, a accendere questo fuoco del quale è giá abruciata mezza Italia ed innanzi finisca abrucierá el tutto.

Non aveva bisogno el papa di fare questa deliberazione, perché non vi era né inimicizia né, pericolo; la guerra non era con lui, ma tra lo imperadore ed el re di Francia; ciascuno di loro lo riguardava, ciascuno l’onorava; non erano piú per combattere in Italia ma fuora; piú conservava lo officio suo, piú la sua autoritá a conservarsi neutrale; era el suo debito trattare la pace tra loro, pensare alla guerra contro agli infedeli, provedere alla Ungheria a chi giá si accostava quello fuoco del quale pochi mesi poi abruciò. Era piú secondo la natura sua, che come hanno mostro poi gli effetti ed era anche cognosciuto insino allora, era aliena dalle difficultá e dalle molestie: ma la ambizione, la avarizia di messer Francesco, la sua inquieta natura, lo animo suo immoderato lo spinse a una deliberazione vituperosa, pericolosa e di infinita spesa e travaglio; e quello che per noi fu peggio, fu causa di mettervi anche drento la nostra cittá.

El grado, le forze, le facultá, la consuetudine sua non comportava che si implicassi nella guerra tra questi príncipi grandi, ma che, come avevano sempre fatto e’ nostri padri, attendessi a schermirsi e ricomperarsi da chi vinceva, secondo le occasione e le necessitá. Non era uficio nostro volere dare legge a Italia, volerci fare maestri e censori di chi aveva a starci, di chi aveva a uscirne; non mescolarci nella quistione de’ maggiori re de’ cristiani; abbiamo bisogno noi di intrattenerci con ognuno, di fare che e’ mercatanti nostri che sono la vita nostra, possino andare sicuri per tutto, di non fare mai offesa a alcuno principe grande se non constretti ed in modo che la scusa accompagni la ingiuria, né si vegga prima la offesa che la necessitá. Non abbiamo bisogno di spendere e’ nostri danari per nutrire le guerre di altri, ma serbargli per difenderci dalle vittorie; non per travagliare e mettere in pericolo la vita e la cittá, ma per riposarci e salvarci. Potavamo oziosi stare a vedere le guerre d’altri, ed alla fine comperare la pace e la salute nostra con infiniti danari manco, che non abbiamo el primo dí comperato la guerra e la ruina. Avevamo mille modi di salvarci, ora non è nessuno: se vince lo imperadore andiamo a sacco, se el re di Francia e viniziani restiamo in preda ed in servitú; apresso all’uno de’ re siamo in grandissimo odio, apresso all’altro in disprezzo, abbiamo dissipato tanto tesoro che oramai è dissipato el publico, el privato; abbiamo avuto nel paese nostro gli eserciti amici ed inimici, l’uno e l’altro ci ha trattato crudelissimamente; abbiamo avuto paura che questa povera cittá non vadia a sacco, al fuoco ed a quegli estremi mali, e ne siamo tuttavia in piú pericolo che mai; crescono ogn’ora le spese ed e’ disordini; non possiamo gittare in terra questo peso, e standoci sotto crepiamo.

Tutte queste cose hanno una fonte medesima ed una origine: messer Francesco l’ha mosse, messer Francesco l’ha procurate, messer Francesco l’ha fomentate, messer Francesco l’ha nutrite. Voi vi dolete che e’ Monti non rendono, che le fanciulle non si maritono: messer Francesco ne è causa; e’ mercatanti si lamentano che non si fa faccende: messer Francesco ne è causa; e’ poveri cittadini che per e’ danni ricevuti, per le immoderate gravezze che si sono poste e pongono, hanno impegnato le entrate, hanno fatto debito, sono in estrema necessitá: vedete qui chi ne è cagione; la cittá tutta è spaventata per e’ pericoli del sacco: vedete qui donde procedono. Ma che piango io e’ mali soli di questa cittá? La calamitá, la ruina di tutto el mondo non nasce da altri che da te. Per te è sbandito da tutti el nome santo della pace, el mondo tutto è in guerra, in arme, in fuoco. Per te è stata data in preda agl’infideli l’Ungheria; per te è andata Roma a sacco con tanta crudeltá, con tanta ruina universale e particulare di tanti nostri cittadini; per te gli eretici dominano e’ luoghi santi; per te hanno gittate a’ cani le reliquie. Tu la peste, tu la ruina, tu el fuoco di tutto el mondo; e ci maravigliamo che dove abiti tu, inimico di Dio e degli uomini, inimico della patria e delle provincie forestiere, sia pieno di morbo, sia pieno di carestia, venghino tanti flagelli?

Volete voi che el morbo vadia via, volete voi che torni la abundanzia, volete voi recuperare la pace, e mandare agli eretici, agli infedeli questi terrori? Cacciate via messer Francesco in Costantinopoli o in Paganía6, meglio sarebbe nello inferno. Rallegrerassi questo paese, rasserenerassi questa aria; rideranno insino alle prietre; dove abiterá lui, abiteranno sempre tutti gli spaventi, abiteranno tutti e’ mali, abiteranno finalmente tutti e’ diavoli. Le quali cose essendo cosí, giudici, vedete che qui non si tratta o di mediocri o di oscuri peccati, non si tratta di interessi piccoli, ma della libertá, della salute, della vita vostra; non di punire uno cittadino, non uno uomo, ma uno morbo, uno monstro, una furia.

A me privatamente non importa piú el fine di questo giudicio; importa a questo populo, a questa cittá, alla salute nostra e de’ nostri figliuoli. Io ho satisfatto assai alla esistimazione mia, avendolo accusato in modo che resta condannato nella opinione di ognuno; quello che resta, tocca a voi, giudici. Sono stato solo a accusarlo; ho presa io, debole cittadino, tutta la inimicizia addosso a me: l’ho presa voluntariamente, non aspettava questo da me la patria, non avevo obligazione propria di farlo; nessuna imputazione mi sarebbe stata data, nessuna querela sarebbe stata fatta se io non l’avessi accusato. Che avete a fare voi che siate molti, che siate sí qualificati e sí onorati cittadini? Vi stringe el debito dell’uficio al condannarlo; questa necessitá ed el numero vi cuopre dalle inimicizie; el popolo v’ha eletti a questo giudicio, ed avendovi messo in mano la somma della republica, ha dimostrato grandissima fede in voi, alla quale non corrispondere è somma sceleraggine. Vedete quanto concorso, quanta espettazione; ognuno cognosce che in questa sentenzia si contiene la vita sua, la salute sua e de’ figliuoli. Assoluto lui, è ruinata questa legge la quale è el bastone della libertá; non ci resterá piú reverenzia, non terrore; resteranno sanza pene le insolenzie, le rapine, le congiure; non bisognerá piú legge, non magistrati, non giudci. Tutte queste cose o dalla assoluzione sua hanno a pigliare la morte, o dalla condannazione la perpetuitá; nelle sentenzie vostre consiste la libertá o la tirannide, consiste la salute o la ruina di tutti.

Anzi ci consiste piú presto la salute vostra, giudici, particularmente, e di quelli che con tanta impudenzia aiutano questo scelerato, perché se camperá delle mani vostre, non camperá da quelle del popolo; se le arme vostre non lo amazzeranno, lo amazzeranno e’ sassi e le arme di questa moltitudine, la quale se comincia a farsi ragione da se medesima, chi vi assicura che lo sdegno giusto, che la desperazione non la traporti; chi, che la si contenti del sangue di questo monstro, e non si vendichi contro a chi a dispetto del cielo e della terra lo vuole difendere, contro a chi mette nella guaina quella spada che nuda gli è stata messa in mano per fare giustizia? Non mancherá chi stimoli, chi riscaldi el popolo; io, se mancheranno gli altri, sarò el confortatore, el concitatore. Perché che abbiamo noi piú a fare al mondo? A che proposito piú vivere se ci è di nuovo tolta la nostra libertá? Vadia prima in confusione el tutto, rovini prima ogni cosa, faccisi prima uno nuovo caos, che noi sopportiamo e vediamo piú tanta indignitá. Io lo dico un’altra volta, sarò se bisognerá el confortatore, el concitatore, sarò el primo a pigliare sassi, a gridare popolo, a gridare libertá.

Ma lo fará lui medesimo sanza che altri lo riscaldi. Non vedete voi giudici, quanto ognuno è commosso, quanto ognuno è infiammato? Non vedete voi che ora con grandissima difficultá si ritengono, non vedete voi e’ moti e gesti, non sentite voi giá e’ mormorii e’ romori? Troppo pure ora è el pericolo che quella tanta pazienzia non si volti in grandissima rabbia, in grandissimo impeto; che questi nugoli, che questa tempesta si sfoghi non solo contro gli autori del male ma ancora contro agli adiutatori, fautori e consenzienti, contro a chi potendo non ará proibito. Non gli tiene fermi altro che la speranza del giudicio vostro; come questa manchi loro, vedrete da per se medesimo concitato ogni cosa; vedrete el popolo in furore, dal quale se gli altri priegano Dio che ci liberi, guardate voi giudici di non lo accendere. Vogliate provederci, giudici, con la vostra prudenzia, e faccendo quello che si aspetta alla fede, alla bontá e sapienzia vostra, come ciascuno meritamente spera da voi, essere piú presto causa del bene, della libertá, della salute di questa patria, che mancando del debito vostro, a voi medesimi ed alla espettazione che s’ha di voi, dare occasione a qualche pericolosissimo scandolo, ed essere finalmente causa con gravissima vostra infamia e pericolo, con infinito danno di questa cittá, che dove ora a spegnere questo fuoco basta poca acqua, non sia per bastare tutta quella che è in Arno ed in Tevere e finalmente in mare.




Note

  1. Alla redazione definitiva l'A. fece precedere l'annotazione: causa stili eadem oratio ordinata.
  2. Queste due parole sono di lettura assai incerta.
  3. Parola d’incerta lettura.
  4. Cosí il testo.
  5. Cosí il testo.
  6. Parola d’incerta lettura.
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