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(1846-1915).
Orazione detta nel Teatro del Popolo, il 21 marzo 1915, in Milano. |
Alessandrina Ravizza camminava un giorno lentamente per le vie di Milano, quando vide passare un carro funebre di terza classe, nudo di fiori, quasi vergognoso della sua povertà, seguìto solo da un prete.
Colui che riposava nella cassa greggia pareva non avesse avuto, nel mondo, nome, famiglia, affetti: nulla. Se ne partiva solo: solo, forse, aveva vissuto. Ma la tristezza di quell’abbandono anche dopo la morte gelava il cuore.
La Donna della Pietà si mise allora dietro il carro, e lo accompagnò, passo passo, fra la gente affrettata e indifferente, sotto la pioggia. Lo accompagnò al cimitero, vi restò fino a quando la terra fu gettata sulla cassa, a palate brutali e sorde. Chi la vide, pensò che fosse la madre o la sorella del morto.
L’una e l’altra era, sì: di quel morto, e d’ogni vivente.
E quando ella rifece, immobile nella bara, lo stesso cammino per andare a conoscere quel che in vita mai non aveva voluto conoscere: il riposo, — tutta una popolazione in dolore seguiva il suo corpo inanimato.
Confusa tra la folla, io venivo subito dietro il carro: di esso non appariva ai miei occhi che la parte superiore carica di ghirlande, oppressa sotto il peso di enormi masse di fiori. Ed a me sembrava che il feretro non fosse già condotto al camposanto dal pesante e misurato passo dei cavalli; ma che la folla intera lo portasse in trionfo sulle anonime spalle, sul proprio dolore offerto come un ultimo rendimento di grazie.
Nell’ora solenne, sotto il cielo piovorno che toccava i tetti, le vie lungo le quali la Santa di Milano passò fra corone di vessilli eran trasfigurate in un solo viso, d’un pallore e d’una intensità non mai veduti. Grappoli umani, con gli occhi spalancati, senza parola, senza gesto, senza respiro, sporgevan dalle finestre, dai balconi, dalle cancellate dei giardini, dai vani delle porte, dall’alto delle soffitte. Con ondeggìi, con risucchi, con improvviso spalancarsi e rinchiudersi di gorghi, il corteo, fiume d’anime, invadeva le strade, allagava i sobborghi inghiottiva nel suo lento avanzare ogni espressione di vita cittadina che fosse estranea all’immensità di quel cordoglio, alla magnificenza di quel rito.
Rito celebrato in silenzio.
Ma vi sono ammirevoli sinfonie di silenzio, ricche di accordi psichici profondi come baratri, violenti come raffiche: che dall’insensibile durezza delle pietre e degli asfalti salgono per la via delle anime a commovere l’aria sino alle stelle nascoste dietro le nubi.
La Santa di Milano ebbe, nella città ch’ella tenne tutta nelle mani per virtù di amore, le esequie che si convengono agli eroi.
Ma possiamo noi veramente, dinanzi ad una creatrice qual fu Alessandrina Ravizza, pronunciar la parola «dolore»?...
È, questo, un sostantivo comune, atto ad esprimere, da quando è viva l’umanità, una sensazione o un sentimento comune. Dolore, morte, dissolvimento, non esistono per le forze creatrici. Quando un segnacolo umano scompare così, non parte che per lasciar dietro di sè un irradiamento di luce, un sommovimento di coscienze, un vibrare di fluidi, un anelito di spiriti verso la grandezza e lo splendore degli orizzonti che esso medesimo rivelò.
Non dolore, dunque. Indegno di lei, indegno di noi.
Serenità: la consapevole e stoica serenità che fu, forse, la più ammiranda virtù di Alessandrina Ravizza: per la quale rifulse di stupendo equilibrio, pur nel vario tumulto d’una esistenza di battaglia.
Ed ecco, io l’ho dinanzi, quale mi apparve la prima volta che la vidi, or son molti anni: quale mi apparve, immutata, l’ultima volta che la vidi or son pochi mesi, nella Casa di Lavoro.
Il suo aspetto era quello di un essere che porti in sè stesso — e lo sappia — l’Assoluto della regalità.
Alta su tutto, la fronte: vasta bianca massiccia nell’aureola dei lievi capelli d’argento, dura infrangibile come fosse fatta di materia silicea, luminosa lontana come fosse fatta di materia astrale.
Dalla troppo grave pesantezza del corpo alla lentezza del gesto ieratico alle linee belle ma affloscite del viso, ogni particolare della persona straordinaria si riassumeva nella maestà di quella fronte.
V’era contenuto un mondo.
Fra lo sguardo di Alessandrina Ravizza e chi le stava dinanzi, fluttuava sempre una misteriosa immagine scôrta da lei sola: un sogno, una verità, l’ombra d’un sogno, l’ombra d’una verità.
Pareva assente, con quegli occhi astratti: era invece vicinissima, con la voce e la parola. Voce pacata e penetrante, parola che subito si insinuava nel segreto dell’anima, talvolta sfiorando con estrema delicatezza una gelosa ferita, talvolta (ove fosse necessario) diritta come un coltello, tagliando nel marcio, dando libero corso al pus velenoso, trovando immediatamente il nervo sensibile da far scattare, la colpa o la debolezza nascosta da estirpare, così come si estirpa una cisti.
Nel magnetismo di quell’energia consolatrice, un innumerevole popolo di miserabili senza legge, di donne senza focolare, di adolescenti sperduti, di pregiudicati dal libretto rosso, di maestri senza cattedra, di poeti senza fortuna, di cantanti senza scrittura, di vagabondi e refrattarî d’ogni risma, trovò il conforto di un’ora, il riposo di un giorno, la strada della salvezza, la redenzione della vita.
Nessuna miseria le fu estranea, sia del corpo, sia dell’animo, sia prodotta da singola fragilità o colpa dell’individuo, sia dallo squilibrio dell’assetto sociale. Ad ognuna ella oppose, serena, il suo insonne cuore, il suo coraggio senza limiti, il suo battagliero ottimismo, la sua vertiginosa passione di pietà e di giustizia, alla quale ben si sarebbe potuto consacrare il motto della salamandra: «Più ardo più godo».
Condensare in poche pagine la sua storia, non è possibile; poichè ella visse non già una sola vita, ma mille e più di mille.
Dire che ella nacque a Gatskina, in Russia, nel 1846, da madre slava e da padre italiano (un Mazzini, che si era rifugiato colà durante il periodo delle guerre napoleoniche, divenendo funzionario dell’impero), non ha importanza, non può che far sorridere. L’individualità di Alessandrina Ravizza non è tale da restringersi fra le colonne dei registri dello stato civile, e la sua ombra si riflette sull’umanità, al di fuori del tempo e dei confini.
Fu slava, e latina. Dell’intelligenza slava possedette l’intrepida logica e la furia mistica: del temperamento latino, la morbidezza del tatto, il senso dell’equilibrio, l’ala della poesia.
Da tali elementi, fusi nel crogiuolo del più assoluto ardore di dedizione che mai avvampasse in creatura femminile, risultò il capolavoro umano ch’ella potè incarnare.
Scesa a diciotto anni in Italia, vi restò. Se ad una simile Donna si può dare una patria, fu certo quella che il suo cuore scelse, e fu l’Italia.
Come si era svolta la sua adolescenza? In virtù di quale causa intima od influenza esteriore aveva potuto affermarsi in lei un così originale concetto della vita, un’individualità di così complessa e potente freschezza?...
Di sè ella non parlava mai. Non esisteva che per gli altri. Ma, quasi senza volerlo, nel bizzarro racconto cui volle apporre un ancor più bizzarro titolo: «La nota della lavandaia», diede la chiave del proprio mistero psicologico nella tolstoiana figura della piccola Vera.
Dipinse sè stessa nella delicata adolescente russa, che sulla scorza degli alberi andava religiosamente incidendo la parola «verità». Si chiama, propriamente, Alessandrina, la piccola Vera ribelle al giogo ipocrita di una delle tante istitutrici di qualità, esperte nell’arte di torturare la fanciullezza: l’acerba creatura senza requie, che vorrebbe ragionare, mentre le impongono: Devi credere: che morrebbe di esaurimento e di schifo del mondo, se, per miracolo, non trovasse la salute del corpo e dell’anima nella pace campestre della fattoria di Yegor Mathewievich.
Suoi compagni, laggiù, sono Wianka, il pastore figliuolo di tutti, scoperto in terra, un’alba di Natale, fra le gambe sanguinose d’una vagabonda morta nel darlo alla luce, e allevato nella fattoria con il latte d’una capra; e il carrettiere Fedor, biondo colosso innocente, luminoso negli occhi, nei denti e nell’anima. Wianka è un selvaggio, Fedor un mistico. Entrambi sono analfabeti. Ella insegna loro a leggere; essi insegnano a lei come non si possa esser felici e buoni che al contatto della Terra Madre.
Ella ama le cose agresti, l’odore dei fieni, le belle mucche pezzate dagli occhi dolci, i contadini semplici come le mucche, il linguaggio del vento fra gli alberi, del silenzio nei prati, delle lunghe cantilene cantate da Fedor. Cerca, avida, in tutto questo, la verità: la cercherà, fatta donna, fuor d’ogni legge sancita, d’ogni convenzione chiaramente o tacitamente accettata, d’ogni forma sociale che stabilisca una regola e implichi una condanna per colui che non vi si assoggetti.
E si porrà all’infuori e al disopra di tutto.
E sarà Alessandrina Ravizza.
Sposetta ventenne, a Milano, ella divenne la «figlia del cuore» di Laura Solera Mantegazza. Le due fiamme arsero insieme. La mirabile organizzatrice che, prima in Italia, aveva introdotto il principio della cooperazione fra le operaie, e, vecchia ormai e malata, non aveva cessato un giorno di lavorare in fervida umiltà, lasciò, morendo, alla discepola, un legato: la Scuola Professionale Femminile, a pena fondata, se così si può dire, sulle basi di un tavolo, sei sedie, un nobile sogno, molta buona volontà — e, soldi, zero.
Il legato pesava; ma le giovani braccia eran forti.
Non v’ha di quel tempo chi non ricordi una straordinaria serata di beneficenza al vecchio teatro di Santa Radegonda, allora frequentatissimo. Serata che tutte le gazzette portarono alle stelle, che segnò un’epoca, che fu il sigillo dell’influenza morale e della popolarità di Alessandrina Ravizza. Vennero poi le «fiere annuali», vivacissime, indiavolate, attiranti tutta Milano, coronate con pazzi successi di simpatia e.... di cassetta.
Così la prima Scuola Professionale italiana per le fanciulle povere meravigliosamente fiorì.
Ecco, in un anno terribile, Milano sconvolta da una di quelle crisi industriali che gettano a mare un’intera popolazione. Con la miseria, con la disoccupazione, la crudeltà d’un inverno polare. Ed ecco Alessandrina Ravizza balzar fuori con le Cucine Economiche, e con le Cucine per gli ammalati poveri. Fondo di cassa: venti franchi. Cuoca, sguattera, aiutante, consigliera e socia: una rude popolana di Porta Garibaldi. Casa in cui le Cucine s’installarono: un bugigattolo di via Anfiteatro, covo di lôcch, rifugio di pregiudicati e di male femmine. Ma Alessandrina Ravizza non aveva paura dei lôcch, nè delle male femmine, nè dei budelli a doppia uscita, che puzzano di detriti e di delitto.
Il barabba classico, Togasso o Biscella, dai calzoni a campana e dal copricapo a visiera, calato sulla faccia tagliente come rasoio, si sberrettava davanti a lei, svegliando a scappellotti nella propria animaccia bislacca quanto vi poteva ancor dormire di cavalleresco. La donna da marciapiede si umiliava, serrando sul motto da trivio le labbra mal dipinte. Le lebbrose pareti, pratiche di vizio come vecchie lenone, si sbiancavano al passaggio di colei che non sapeva che cosa fosse paura. Compariva, illuminava, purificava. Nessuno toccò mai un capello alla «contessa del brœud», alla «sciôra Sandrina».
Possedeva l’immunità dell’amore.
Per riscossioni o invii di denaro, per missioni delicatissime, esigenti la più scrupolosa onestà, potè servirsi (anzi, servirsene fu la sua gioia) di certi avanzi di galera, da pregar Dio di non farceli incontrare ad un crocicchio, di notte. Ma quegli avanzi di galera si sarebbero lasciati ammazzare, per lei. Molti di loro fecero di meglio che morire: divennero, per lei, galantuomini.
Dopo l’insurrezione del 1898, l’ardentissimo appello d’una donna alle donne italiane apre una sottoscrizione di cinque centesimi a testa, per migliorare il vitto e le condizioni dei detenuti politici, chiusi in folla nelle prigioni. La stessa donna ottiene, dopo pazienti sforzi, che gli operai rivoluzionarî usciti dal carcere riprendano il loro vecchio posto nell’officina o nel laboratorio. La stessa, più tardi, non si dà pace finchè non riesce a far distribuire dal governo un’indennità di settantatrè mila lire ai ferrovieri licenziati in seguito alla famosa rivolta. Chi può essere?... Lei, sempre lei, Alessandrina Ravizza.
Mentre la sua opera sociale con tanta ampiezza si svolgeva, il suo appartamentino privato in via Andegari, nel centro più milanese di Milano, aveva l’aria d’un piccolo ministero. Gente e gente d’ogni classe, dalla signora in diamanti e pelliccia allo studentello in giacchetta logora, dal deputato all’operaio a spasso, dall’artista in altissima fama al ladro rilasciato dal carcere, riceveva udienza a quel dolce confessionale. Là ella rifulse nella sua inimitabile originalità. Là, ella fu «Sacha».
Penetrò il segreto di migliaia d’esistenze, trovò una consolazione per ciascuna, scoperse una via per tutte. Gli instabili, i decaduti, i depressi, gli inconsistenti, i vergognosi del proprio dolore, ebbero in lei quella che li comprese com’erano, li salvò nell’unico modo possibile, uno per uno e ciascheduno secondo la sua natura, il suo tormento, la sua necessità.
La mente sovrana di lei era un registro infallibile, nel quale ogni postulante stava fotografato, accasellato, distinto nelle più singolari caratteristiche del suo caso personale. Il documento umano fu la passione di Alessandrina Ravizza: sempre partì da esso per arrivare alla sintesi.
A Parigi, una sera d’estate del 1900, ella assisteva ad una lezione della novissima Università Popolare, inaugurata in quegli stessi giorni. E vide un grosso cocchiere di piazza, il quale, immobile presso la porta, con il mento appoggiato al pomo della frusta, beveva le parole dell’oratore con la medesima avida golosità con la quale avrebbe ingollato un bicchier di vino. La Donna pensò: Ecco. Fino a ieri, alla bettola. Oggi, alla scuola.
La visione del bravo brumista dal naso bitorzoluto divenne, da quella sera, ossessionante nel suo cervello sempre in ebullizione. Personificò, per lei, il popolo, che non solo necèssita di pane per il corpo, ma di fosforo per lo spirito. L’automedonte parigino assunse ai suoi occhi gigantesche proporzioni: fu, non più un uomo, ma una classe.
Immediatamente tornata in Italia, ella cominciò a darsi dattorno, a formare, con la forza dell’argomentazione e della fede, un compatto nucleo di zelatori, nel nome del chiaro avvento: l’Università Popolare in Milano.
Perchè in Parigi sì, in Milano no?...
Novembre: l’idea è divenuta metallo in fusione.
Dicembre: Enrico Annibale Butti — nobile artista, nobile cuore — tiene, nell’affollato salone dell’Albergo Milano, un eloquente discorso sull’argomento che ormai appassiona tutte le anime non vili.
Gennajo: altri oratori, altri e più efficaci discorsi: Luigi Gasparotto, Innocenzo Cappa.
Il denaro?... — Ma quando la Ravizza vuole, il denaro c’è. Non si sa bene da qual parte sgorghi; ma zampilla, ma splende, ma c’è. È il suo segreto, questo. Lo caverebbe dalle pietre. — Dunque, niente timore, e avanti!...
Primo di marzo del 1901: data memorabile. Nel teatro Olimpia, davanti ad un pubblico attento e raccolto come in un tempio, Gabriele d’Annunzio inaugura, con la lettura della Canzone di Garibaldi, l’Università Popolare di Milano.
Nell’opera bella Alessandrina Ravizza non fu, certamente, sola. I migliori fra coloro che io vorrei chiamare «costruttori intellettuali» furono con lei, per innalzare il monumento di coltura popolare del quale Milano va giustamente superba. Anni ed anni di vita intensa, di instancabile attività, ne fecero una delle più importanti palestre di pensiero della patria. I più illustri cultori dell’arte, della scienza, della filosofia, italiani e stranieri: professori e maestri più modesti di fama, pur non meno coscienziosi e ferventi, dissero, in quelle aule, la loro parola al lavoratore del ferro, del legno, della macchina, del cuoio, del libro.
La più nobile forma della fraternità.
La reale comunione degli spiriti.
Vennero ad ascoltare, a imparare, con gli operai, anche gli studenti, gli impiegati, i professionisti. E gli artisti, anche, vennero.
E, nella gioia del libero sapere, tutte le classi, là dentro, si cementarono.
E la Condottiera, che aveva posta la prima pietra, ne esultò; e il suo elastico spirito si volse ad altre mète.
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Fondata un’opera, ella (ove se ne eccettui la Casa di Lavoro) possedeva il genio, ed anche la virtù, di lasciarla vivere di vita propria. Trasfuso in essa il germe fecondatore, additatone l’indirizzo ideale, costruitone lo scheletro dell’organismo, non le imponeva a lungo la propria presenza, la propria autorità, come un dogma o una catena. La dominava, l’incitava; ma dal largo e dall’alto. Le diceva: «Respira, muoviti, e lavora: non a me tu devi obbedire; ma all’idea che ti trasse dall’ombra, ed alla inevitabile legge dell’evoluzione».
L’opera, per Alessandrina Ravizza, apparteneva all’umanità, che aveva il diritto e l’obbligo di rinsanguarla, con la corrente sempre viva delle giovani forze.
Per questo il nome di lei si trova legato ad una quantità d’istituzioni. La sua versatilità fu sfaccettata al pari di un prisma; ed ogni faccia rifletteva il sole. Al rapidissimo balenar dell’idea succedeva, pur rapidissima, immediata, l’azione: ottenuto l’intento, il lungimirante spirito si volgeva ad altro.
Ma quel che sorse per volontà di lei, conservò, e conserva — convien dirlo — l’indelebile impronta della sua originalità spirituale. Ovunque passò, lasciò una traccia: ovunque la fiamma del suo gran cuore splendette, un rogo di passione si accese.
V’era una chiesa in via Lanzone, un’antica chiesa longobarda senza più altare, annessa al piccolo ospedale sifiliatrico dai leggiadrissimi portici, che ora il piccone abbattè.
Alessandrina Ravizza la riconsacrò, ma scuola, per bambini luetici e donne perdute. Io la vidi colà sorridere nell’esercizio d’una pietà per molti inutile — per lei tanto più necessaria quanto più vana.
Gli scrostati affreschi della vôlta parevano attendere ritmi di preghiere: e che altro non erano, se non preghiere, le canzoncine dei bimbi?... Un Cristo di gesso tendeva da un alto zoccolo le braccia: Lasciate i pargoli venire a me. — Sull’assito che celava l’abside, il giovanissimo pittore Mario Moretti Foggia aveva dipinti a tempera inverno con neve, primavera con fiori, estate con mèssi, autunno con frutti. Dappertutto, rose in fasci, seggioline e tavolinetti di candido ferro smaltato. Bianchezza, innocenza. Tutta quella leggiadria l’aveva voluta lei, per loro: per i piccoli condannati.
Appunto per questo: perchè eran condannati senza aver commesso nulla di male.
Pietà inutile?... Esiste forse, la pietà inutile?...
Si stringevano intorno a lei, i fanciulli convalescenti (ma non guariti) dell’inguaribile malattia per la quale padre e madre si vorrebbero (ma non si possono) maledire: per la quale gli zelatori della selezione umana imporrebbero, nel nome della salute pubblica, una mortale iniezione di morfina: i frutti d’alberi marci, destinati alla piaga purulenta, alla cecità tentennante, alla follia degenere: a divenire null’altro che cenci nel mondo il quale non richiede, non esige che forza.
A lei guardavano, ed erano consolati: per lei imparavano a leggere, a scrivere, a conteggiare; e avevan libri, giocattoli, fiori, alberi di Natale scintillanti di lumi e di doni. E cantavano i cori in cui si dice che la vita è bella. E ne ebbero gioia.
E gioia ebbero, con essi, le sventurate che dalle corsie dell’ospedale sifiliatrico entrarono nella Chiesa-Scuola, accolte con chiara e semplice tenerezza: compitarono sui libri parole di grazia: si sentirono, la prima volta nella vita, circondate di rispetto: videro forse per la prima volta, negli occhi della Purificatrice, che il cielo era azzurro anche per loro.
Tolto l’altare; ma sempre quello, nei secoli, il Vangelo: sulle labbra della Ravizza ardente così da distruggere la carne malata e mettere a nudo i cuori che l’ascoltavano.
La chiesa fu lasciata intatta, a storica memoria; ma dell’ospedale non esistono più, ora, nemmeno le pietre. Sorgono a quel posto un ginnasio e un liceo, per l’adolescenza bella e sana, che dovrà rinvigorire la muscolatura d’Italia.
La via mutò nome. Tutto cambia.
Ma le tristi inferme e gli ancor più tristi fanciulli dalle vene guaste furono, con la loro diletta Scuola-Laboratorio, trasportati in luogo più arioso e più adatto alla moderna igiene, nel Padiglione Dermatologico di via della Pace; e affidati alle cure della più degna discepola di Alessandrina Ravizza: Bambina Venegoni, che da lei ricevette la lampada accesa, e sa che nelle sue mani non si spegnerà.
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Alessandrina Ravizza fu la prima donna che, in tempi ormai già lontani, riuscì, con abito non religioso, a varcar le soglie delle carceri, per compiere ufficio di carità materna verso i giovinetti pei quali ancora non esisteva la condanna condizionale; e che, per crimini in cui, certo, la loro acerba responsabilità non aveva gran parte, venivano ammassati in luridi cameroni, dove i più esperti in corruzione riuscivano a rovinare i più ingenui.
Una nota di cronaca, breve e brutale, l’aveva spinta al difficile passo: un precoce delinquente di quattordici anni s’era suicidato in carcere, appiccandosi ad una sbarra della feritoia. Tutta l’adolescenza abbandonata fra il marciapiede, la bettola e la prigione, si concentrò, per lei, in quel piccolo suicida.
Travide in un lampo il bene da compiere: si considerò investita del còmpito di riparazione che la società doveva a quei deviati: andò, come sempre, fino in fondo.
Fu la più bella delle sue gesta di carità.
Passò le giornate in compagnia di adolescenti criminali, nella penombra piena di brividi delle prigioni: ebbe con loro i dialoghi lapidarii che il cuore non scorda più, udì da loro le verità corrosive che brucian le labbra di chi le dice e il volto di chi le ascolta. Penetrò, con il proprio istinto psicologico che non fallava mai, nell’intimo di quelle animule, pozzi profondi d’acqua avvelenata. Decifrò, con acuta avidità scientifica, la nevrosi del futuro barabba. Ricevette, da bocche quasi infantili e già decrepite, rivelazioni straordinarie sulle speciali leggi, sulla disciplina feroce della società sotterranea.
Ma non le bastò.
Seguì fuor del carcere, nella vita, i suoi piccoli delinquenti. Mostrò loro il bene, come si apre una finestra a chi asfissia, come si indica una sorgente di fresca acqua a chi è arso da troppo calore. Li convinse con il genio della persuasione. Fu la mamma, solo e divinamente la mamma. Li amò, li capì, li difese, se li contenne nel cuore, li considerò come usciti dal suo proprio grembo — sterile come quello di quasi tutte le donne destinate alla maternità cerebrale.
Nel libro dal vero «I miei ladruncoli», nel quale ella riuscì a raccogliere, con sobria efficacia, molti preziosi documenti di criminalità infantile, narra lei stessa in qual modo potè scoprire le trame di una vera e propria associazione a delinquere fra ragazzi, chiamata la scuola del furto: con inviolabili articoli di statuto, leggi senza scappatoie, tenebrose lotte intestine, e un re: el re di lader.
Era costui Pasqualino, detto Lino, detto anche el Schisc, vagabondo di mestiere, alloggiato la notte nel principesco Albergo del Verde, quando il verde c’era: Piazza Castello, seconda panca a sinistra del viale: oppure, nel cavo tronco di un albero secolare, presso il dazio di Porta Tenaglia.
Nel raggio d’influenza di colei che, con subitanea, selvaggia passione, egli chiama «la mia mamma», el re di lader si ravvede, rinuncia al cattivo potere: senza per questo, s’intende, tradire i suoi compagni, e sicuro del complice silenzio di Alessandrina Ravizza.
E vorrebbe, sì, lavorare: entrare nella Nave-Scuola del Garaventa, dove tanti discoli furono accolti, e trovarono la salute del corpo e dell’anima nella disciplina del Maestro, nell’alito salso del mare.
Ma si ammala, orrendamente, di tigna.
La casa di cura, dunque, invece della Nave-Scuola. E la cuffia di pece, e le pinze martirizzanti.
Solo?... Ah, no. La sua «mamma» è con lui. Si è, per restargli accanto, isolata dal mondo, assoggettandosi al rigore di un’assoluta segregazione.
Chi ripeterà le parole pronunciate in tante ore d’oscuro e accettato supplizio, fra la madre senza macchia e il figlio d’anima, delinquente e tignoso?... — Aiutami tu, Santo Francesco: canta per me uno de’ tuoi più innocenti fioretti.
Lo Schisc, sovrano volontariamente decaduto da un regno di rapina, appoggiava, seduto su di uno sgabello, in grembo a lei la testa umiliata dal ripugnante male, fasciata di bende antisettiche. — Ma il male era bello, e le bende una corona. — Conversavano essi, sottovoce. Forse, dei piccoli complici sparsi pei budelli tentacolari della metropoli, senza dimora fissa, senza stato civile, con un solo terrore: quello della questura. Quanti!...
Quel dall’occhio: malaticcio, senza parenti, nato dal rigagnolo per generazione spontanea, macchiato sotto l’orbita destra da una ributtante piaga, della quale egli approfittava per vivere di mendicità, riducendosi a dormir la sera all’Osteria delle Due Sedie, — una per la testa e l’altra per i piedi, il tutto a due soldi.
Gonin, la spia: Rico, il vicerè, rivale e nemico acerrimo dello Schisc: piccola belva dalla bassa fronte capelluta, dall’occhio torbido feroce, carne da galera, non privo d’una certa diritta linea nell’innata crudeltà.
El fiœu de nissun: un altro abbandonato, bello ed aristocratico nei lineamenti e nel tratto, come (e forse lo era) il figlio d’un patrizio.
Quel dalle smorfie: borsaiuolo audacissimo, di agilità rocambolesca, Gavroche del vicolo milanese, funambolo del ladroneccio, ammaestratore di rane e di gamberi con grande spavento delle serve del Verziere, clown dalla scarna mobilissima maschera, atta ad ogni più buffa e più tragica trasformazione.
Eugenio: il pallido, floscio, spaurito Eugenio, che non aveva mai potuto imparare a rubar bene, perchè tremava sempre di paura; e al quale i compagni fischiavan sul viso, beffardi:
— Va là!... tu sei fatto per essere onesto!...
E gli altri?...
Oh, andare a cercarli. Poterli ritrovare. Poterli portar via, farne una colonia di coltivatori della propria terra, di contadini liberi e forti....
Sognavano, madre e figlio. Un sogno mirabile. Una casa immensa, con focolari accesi, con letti bianchi, con gaie tavole apparecchiate, con porte aperte, nella quale potessero venire accolti, in libertà, senza domande, senza connotati da registrare, senza rimproveri, senza sermone, i piccoli vagabondi figli di nessuno, nati non si sa dove, vivi non si sa perchè, costretti a dormire all’Osteria delle Due Sedie, all’Albergo del Verde o al Caffè dei Piedi Umidi: a rubar per mangiare: a finire, un bel giorno, in scatola o all’ospedale.
Anche i grandi, però. Anche i vecchi. Anche quelli macchiati di sangue. Tutti, con il fascio delle loro colpe, non più gravi, forse, dei loro dolori: con il marchio dei proprî delitti, non più orribile, forse, di quello delle ingiustizie che, sin dall’infanzia e già prima di nascere, hanno dovuto subire.
E senza sermone. Già. Lo Schisc disprezzava incommensurabilmente le prediche moraliste. «Hin tucc cialâd»1, diceva. Egli l’aveva udita, la voce del miracolo. Sapeva la sua dolcezza.
O Madre!...
Nella cella di segregazione d’una clinica, dal martirio di un discolo infetto di tigna e dalla carità della Donna senza riposo, nacque il germe della Casa di Lavoro.
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Vi è, in ogni vita di pensiero e d’azione, il periodo della sintesi. Si giunge, nella più varia e lussureggiante sinfonia musicale, al punto nel quale idee melodiche, accordi, dissonanze, sapienze d’ispirazione e di stile si raggruppano, aderiscono fra loro, fondendosi in un unico pieno d’orchestra, — culmine e coronamento dell’opera canora.
Alessandrina Ravizza, già avanzata negli anni, non stanca, no (poichè non lo fu mai), ma avente dietro di sè una foresta spessa e viva d’istituzioni da lei create, di umane esistenze per lei scavate dal terriccio impuro e deterse dell’indegnità, — compose in sè la propria sintesi, toccò il culmine della propria sinfonia vitale, entrando a dirigere la Casa di Lavoro.
Il vecchio sogno s’era fatto realtà, per volere e nella sede della Società Umanitaria, fondata in Milano dal filantropo Mosè Loria, al solo scopo di promuovere e aiutare le energie del popolo.
Spirito libero se altro mai ve ne fu, Alessandrina Ravizza non avrebbe potuto incanalare tanto impeto fattivo fra le strettoie d’un’istituzione di beneficenza propriamente detta, fosse pure opera sua: Casa A, Casa B, Casa C, disposta ad accogliere la tal classe di miseria, ma non la tal’altra: la tal classe di miseria, dico, ben riconosciuta, provata, vivisezionata, messa a protocollo, chiusa in prigione fra gli articoli d’uno statuto.
Sulla soglia, sempre aperta di giorno e di notte, della Casa di Lavoro, ella si trovò, per incanto, al suo posto ideale. Là ella fu, non solo una forza, ma un simbolo.
— Picchiate, e vi sarà aperto.
Il disoccupato picchiava, entrava, senza che alcuno gli chiedesse di quali strade fossero la polvere e il fango che gli imbrattavan le scarpe, o se in tasca avesse le sue carte in regola.
Gli bastavan, per essere accolto, i connotati della disperazione.
Nel palazzo di via Manfredo Fanti, grigio, severo, ma illuminato di verde dai centenarî platani del cortile, trovava letto, cibo, assistenza, lavoro. S’intende, il più semplice, il più adatto ad essere compiuto anche da mani inesperte, o avvezze ad altra fatica: casse d’imballaggio, attrezzi di legno, mobili rozzi, scatole di cartone, sacchetti per droghieri e farmacisti, buste, Pinocchi verniciati, lavori di copiatura. Ripartendo tre settimane dopo, egli andava quasi sempre verso un piccolo posto di guadagno, che Alessandrina Ravizza gli aveva potuto scovare, sconvolgendo mezza la città.
La valanga della disoccupazione anonima, abbattendosi contro di lei con illimitata diversità di provenienza, di sostanza, di espressione, di sentimento, la colpì in pieno cuore solo per saggiarne la resistenza bronzea, e farne meglio vibrare tutte le corde dell’energia.
Là ella decifrò l’inedito della miseria umana, lo condusse a divenir materia degna di salvazione.
Uomini senza patria, capaci di molto bene e di molto male, in perpetuo pugilato con la civiltà che non li vuole e ch’essi non sanno comprendere: giramondo, che non osano mostrare la fedina criminale: nemici inconciliabili della burocrazia: rifiuti degli uffici di collocamento: perseguitati dalla mala sorte, pei quali la robustezza dei muscoli è una ironia, l’abilità al lavoro un soldo fuori corso, l’ingegno un pericolo, il diploma uno straccio inutile, — costituirono intorno ad Alessandrina Ravizza, nella cittadella di via Manfredo Fanti, una specie di cenciosa guardia del corpo, sempre diversa e sempre l’uguale.
Ella li penetrò fino al midollo, li assaporò nella loro infetta sostanza di dolore, li saturò della sua dolcezza, li rimandò raddrizzati e consolati. Chi collaborò con lei fra quelle mura afferma che ella giornalmente compiva miracolo.
Figure d’indimenticabile pallore, di sinistra aridità, di significato eterno passarono dì là, bevvero alla sorgente, scomparvero: il Professore: il Pretespretato: il vecchio Profeta: la Rondinella sarda.
Il libro di memorie «Sette anni nella Casa di Lavoro» dalla Ravizza lasciato inedito, e pubblicato per cura della Società Umanitaria dopo la sua morte, documenta in quanto è possibile, nella loro crudità, quelle esistenze misteriose, sporcizie vagabonde, deformità morali e fisiche, trascinate fra la strada e l’asilo notturno: rughe più taglienti delle cicatrici, confessioni più taglienti delle rughe.
Ma si possono documentare le sabbie delle spiagge, le acque dei mari?...
Quando fu necessario — per dare immediato soccorso — violare disposizioni burocratiche, dare un graffio a qualche regolamento statutario, Alessandrina Ravizza lo fece, impavida.
Diceva: — Questo non mi riguarda. Chi soffre non deve aspettare. Chi soffre può morire.
E andava avanti.
Le casse di risparmio, le banche non esistevan, per lei, che sotto forma di fulgide cornucopie, pronte a versar piogge d’oro sulla testa dei nullatenenti.
E fu gaia, fra tanti spasimi: la sua risata sana, gagliarda, omerica, agiva come un tonico, squillava come una diana.
Ai potenti della terra, associazioni o individui che fossero, re di corona o di censo, governi di stato o monopolii di denaro, si rivolse da uguale ad uguale. Le sue richieste, le sue raccomandazioni avevano assai volte il tono sicuro ed alto del creditore che reclama il dovuto. Per un lurido straccione dalle scarpe slabbrate ella avrebbe forzate le porte delle reggie. Non ricevette mai un no. Appariva investita d’un diritto divino: portava sul petto la croce di guerra della miseria.
In fondo, a somiglianza della massima parte de’ suoi patrocinati, anch’essa essa era una fuoruscita. Aveva il loro sangue nelle sue vene.
Nessuno meglio di lei comprese ed amò i vagabondi per i sentieri dell’utopia, i ribelli alle solite quattro pareti con le solite quattro sedie intorno alla tavola, i sognatori per i quali la strada è preferibile alla casa, la scorciatoia alla strada, il bosco alla scorciatoia, le stelle dei cieli ai comignoli dei tetti: gli evasi dall’equilibrio comune, i rappresentanti del libero istinto, che non conosce nè accetta catene.
Ma al disopra del normale ella s’innalzò, in un senso elevatissimo di moralità e di poesia: per creare, non per distruggere: per l’ideale d’una nuova filosofia della vita, in un benessere umano senza coercizioni: per bisogno di più largo volo, di più chiara luce, di più serena bellezza.
Uomini e donne d’ogni partito onoreranno colei che a nessun partito appartenne. Vorremo noi chiamarla anarchica?... No: nemmeno. Chi oserà classificarla?... Fu Alessandrina Ravizza.
Non ebbe, prima di lei, il mondo una che le somigliasse: non verrà, dopo di lei, quella che la possa sostituire.
Non conobbe limiti, nè per sè nè per gli altri. Arrivò dove volle, ottenne quel che le parve giusto, combattè e vinse sola per il diritto di tanti, come se avesse un esercito di arcangeli al suo comando.
L’umanità le fu croce da portar sulle spalle: la resse cantando, con serenità splendente, con l’appassionata letizia della vocazione.
E non fece il processo alla vita. Amò la vita. La predilesse, l’incoraggiò, la benedisse in ogni singola manifestazione di carattere, di arte, di volontà, di amore. Amò l’amore, ne fece aria per il proprio respiro. Il processo, e senza quartiere, lo fece alle imposture sociali, ai tortuosi egoismi, alle spinitiche debolezze che la deformano, e imbavagliano e garrottano l’essere umano, avvelenandogli la gioia di esistere. Condannò senza appello la simulazione della vera vita: così grottesca e miserabile, quando pur non sia criminale.
Nulla d’impossibile: era il suo motto.
Qualcuno, parlando di lei con accorato rimpianto, ebbe a dire: Tutto ella diede, nulla chiese per sè.
Io non lo credo.
Quella Donna già vecchia, vestita d’una logora gonnella stinta e d’un meschino scialletto nero, povera — forse — come il più povero de’ suoi disoccupati, possedette, fino al giorno della sua scomparsa, inesauribili tesori di ricchezza.
Possedette le anime.
Ed ella non chiedeva altro bene. Ne mangiò, ne gustò, a migliaia, a milioni, novella Santa Caterina da Siena. Trovò in esse il preziosissimo sapore che la metteva in perpetuo stato di ebbrezza spirituale. Ciascuna fu per lei il tesoro da scoprire con simpatia e meraviglia sempre fresca, benedicendo il Signore. Fetor di sangue guasto non la fece dare indietro, salsedine amara di lagrime non la scoraggiò, tenebra di coscienze brute attirò maggiormente il suo coraggio.
Piccola coi piccoli, grande coi grandi, formata d’una sostanza nervosa che più di sè donava più di sè si nutriva, maneggiò con passione e con arte infinita la materia umana, sopra tutto interessandosi al caso particolare, non trascurandone i più minuti elementi. Era la sua delizia, il caso particolare. Ne estraeva, a goccia a goccia, il succo intimo, la nascosta filosofia, voluttuosamente.
Diede, dunque, tutto; ma tutto volle ed ottenne in cambio, miliardaria dell’amore, epicurea delle anime.
Il carteggio di Alessandrina Ravizza?... Una biblioteca intera. Le sue memorie?... Un caleidoscopio di aneddoti più inverosimili del vero, fusi con elementi epici di primo ordine. Diede alla carità le ali della poesia, la spinse talvolta fino alla sublimità dell’assurdo. Per correnti senza tregua rinnovate, per bocche senza tregua aperte, l’umanità si assimilò a lei, ella all’umanità.
Ripercossa in un’innumere quantità di vibrazioni, la sua esistenza, che si rifiuta all’analisi, si rifiuta anche alla morte, rivive in fluido e in luce.
L’ultima volta ch’io la vidi, fu nello studio terreno della Casa di Lavoro, in un pesante pomeriggio d’agosto del 1914. L’aria pareva fuligginosa, ardeva di vampe nascoste, pesava come piombo.
Ella se ne stava immobile, formante un solo blocco con lo scrittoio, al posto che da tanti anni teneva. Vi sono creature sovrane che sanno costruirsi, nella propria carne caduca, il monumento: io vidi in lei, quel giorno, il suo monumento.
Per l’ultima volta mi isolai nella visione di quella fronte: dura infrangibile come fosse fatta di materia silicea, luminosa lontana come fosse fatta di materia astrale. Il mio cuore si curvò, fedelmente, in umiltà, davanti alla Portatrice di fiaccola.
Ma un’espressione non mai veduta di severità dolorosa era ne’ suoi occhi.
Me le rannicchiai ai piedi, le misi la testa sulle ginocchia perchè mi accarezzasse, come soleva, i capelli.
Ella soffriva.
S’era in quei giorni scatenata la guerra delle nazioni. Bagliori d’incendî all’orizzonte, echi delle prime carneficine, odor di polvere, incubo. Valanghe di emigrati italiani, cacciati in furia dai paesi in armi, si riversavano sulle terre della patria, in treni merci, in carri bestiame, in un tormento canicolare di fuga. Bambini morivan per via, donne si sgravavano nei vagoni, mandre umane arrivavano sudicie, mute, inebetite, sperse: e i mariti non ritrovavano più le mogli, e le madri smarrivano i figli.
La guerra!... Vi era dunque nel mondo un male che Alessandrina Ravizza non poteva nè impedire, nè guarire?...
L’unica ragione che ella aveva data alla propria esistenza le si sbriciolava fra le mani, diveniva un mucchietto di cenere: fratellanza, uguaglianza, pietà, amore fra gli uomini, sforzi della scienza, serenità del lavoro, audacie dell’industria, sacrifici della bontà, le apparivano, in quel momento, foglie secche rapinate dalla raffica ciclonica.
E non si era che al principio.
E la sua anima profetica sentiva che quel cataclisma avrebbe sconvolto la terra.
Desiderò di morire, me lo disse sottovoce, con accento di calma disperata. Solo restava in piedi — con un titanico sforzo di volontà — restava in piedi colpita e malata, per fare argine alla piena, per ricevere ed aiutare i miserabili che da ogni parte la disoccupazione prodotta dalle prime crisi della guerra conduceva alla porta della Casa di Lavoro.
Ancora visse. A tempo per vedere il Belgio, violato e crocifisso, ergersi sulle vette della storia, nella più sublime delle immolazioni civili: l’Europa a fuoco e fiamme, le rovine al posto delle cattedrali, i cadaveri al posto delle seminagioni. A tempo per ben discernere nella tormenta rossa, e, malgrado il suo orrore per il sangue, invocar la guerra contro i barbari, come la sola via di onore aperta all’Italia.
Ma nulla volle vedere più. In una pallida alba di gennajo, stesa sul letto d’una camera umile come una cella, volse in silenzio la testa contro il muro — e spirò.
Nevicava. Quanta neve!... Fitta candida impalpabile. Ali ali ali. E silenzio.
Per bocca d’una vecchia demente, protagonista del romanzo scritto da Alessandrina Ravizza più per liberarsi l’anima che per vera necessità di compiere un’opera d’arte, ella aveva un giorno gettato un grido che tutta la rivela e la riassume, nel suo tormento e nella sua fatica:
«Acqua, acqua!... Lavandaia, avete contato bene i fazzoletti, le camicie, le tovaglie, le lenzuola?... Facciamo la lista delle bugie convenzionali, dei delitti non puniti dal codice, delle ingiustizie sancite dal costume. Acqua, acqua!...»
Gemito di disperato desiderio!... Desiderio di purezza, di pulizia morale, di liberazione, per l’esistenza che l’uomo non chiese e gli toccò di subire!... Basteranno tutti i fiumi del mondo?...
Sia pace alla gola arsa.
Tutti i fiumi del mondo si gonfiarono e strariparono, sì. Ma in onde purpuree, bollenti e schiumanti.
Non acqua; ma sangue. Il migliore, il più giovine.
E noi non possiamo ancora, nella nostra sofferenza, giudicare se questo sia un bene od un male.
Ma, se è necessario che la lotta fra il bene ed il male continui ad equilibrare le forze dell’umanità, noi vogliamo illuderci che il lavoro compiuto in così vasto giro d’anni da colei che il genio del bene incarnò in santità di atti, non sia stato vano.
Per miracolo d’amore ella è ritta ancora al suo posto fra noi, immateriale, invisibile, ma presente, ma nostra. Con una scintilla caduta dal faro della sua fede, accendiamo nei cuori le lampade. Nel suo nome e nella sua immagine glorifichiamo in noi il sacrifizio volontario, la tenacia combattente, l’ottimismo vincitore, l’umanità che è senza numero, ma che in un sol cuore può essere contenuta.
Ed ognuno che porti impresso il segno della sua grazia, parlerà con lei, per conforto, nel segreto dell’anima, rivolgendole questa preghiera:
«Madre, fa che sempre, nella mia miseria, io possa discernere e soccorrere chi è più misero di me.
«Madre, fa che non mi manchi mai l’energia di vincere il mio male, per atroce che esso sia; e che dalla vittoria sopra me stesso sappia estrarre il farmaco che guarisca il dolore altrui.
«Madre, aiutami a dare, e fa ch’io non senta e non invochi altra gioia; e s’io resti nudo, vestimi del tuo ardore.
«Madre, fa che ad onta di tutto io viva in purità di amore come il bambino che recita il Padre Nostro — e ch’io muoia senza rimorso.»
Con questa preghiera l’invocherà ognuno che porti impresso il segno della sua grazia — ed ella risponderà.
- ↑ Sono tutte sciocchezze.