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(1852-1915).
Orazione detta nell’Asilo Mariuccia il 28 giugno 1916, in Milano. |
Il quattordici dicembre del 1902, qui presente Luigi Majno, io stessa, con parole rese tremanti dal tremante cuore, salutavo il sorgere — per virtù e volontà di una fanciulla che aveva dovuto morire perchè l’Opera nascesse — dell’Asilo Mariuccia. Ne lumeggiavo gli scopi, ne additavo le ragioni ideali, dicendo fra l’altro, come se l’avvenire si rivelasse nitido ai miei occhi, che pure il pianto offuscava:
— L’Asilo Mariuccia non è ora — così Mariuccia volle — che la prima pietra d’un immenso edificio di rigenerazione, e non femminile soltanto.
Appoggiato ad uno stipite, conserte le braccia sul petto a comprimere il cuore, curva la testa granitica, il Padre Majno ascoltava: e il dolore per la Creatura morta e la fede nell’Opera viva si scolpivano sul suo viso.
I giorni si sovrapposero ai giorni, nella casa bianca chiusa nel pudore del suo giardino. Ognun d’essi portò con sè il proprio lavoro martellato di fatica, coronato di spine, ma palpitante di germi, come sempre il lavoro compiuto per necessità ideale.
Bimbe insidiate dalle più basse brutalità della miseria e del vizio, già vecchie prima di aver toccato l’adolescenza, trovarono qui, a poco a poco, sè stesse: fecero la divina scoperta della loro anima, quale l’innocenza della natura l’aveva creata.
Donne vi sono ora, rispettate e serene, che, per aver qualche tempo sostato nella dolce casa, rientrarono in dignità di vita, riamarono la gioia del lavoro, riuscirono a edificare intorno a sè la famiglia nella sua santità.
Maestre di scuola vi sono ora, che quanto di bene ricevettero da materni cuori nell’Asilo Mariuccia profondono in altre creature, avviandole per diritte strade di vita.
Gli anni si sovrapposero agli anni, e la piccola casa non bastò più. L’Opera domandò spazio. Ed ecco, il pronostico fu compiuto, le pietre si mossero, le muraglie si scostarono, il tetto s’innalzò, il rifugio s’ingrandì per la bellezza d’un più vasto amore.
Ma a render saldo un edificio di pietà umana non bastano le pietre: cemento d’anime è necessario. Mariuccia dal pallido viso appassionato, Carlottina dalle trecce d’oro vennero prime, sedettero, velate, alla porta, con le mani in croce.
Il Padre, che noi siamo oggi riuniti a commemorare nel tempio ch’egli aiutò a fondare e nel quale si svolse la parte più intima, gentile e, direi, pudica della sua attività, — il Padre Majno penetrò dopo, silenzioso, felice di riunirsi alle sue due figliuole, animando di sè le cose visibili e le forze invisibili. — E vi è rimasto, Lare benedicente.
Assai più degna parlerebbe di lui, in mia vece, un’autorevole voce virile. Ma tutti gli uomini validi in questo tempo sono a combattere; e gli occhi e gli animi dei rimasti son tutti rivolti in ansia verso le frontiere, ove giornalmente si rinnova il miracolo degli eroi.
Luigi Majno, cittadino del mondo per natura e per fede, tale miracolo non vide, ma lo invocò. Interventista della prima ora come Alessandrina Ravizza, non pensò neppure per un momento che la patria potesse rimanere spettatrice indifferente dell’aggressione germanica. Egli, che sempre era stato irriducibile avversario del militarismo e della guerra. Che aveva vissuto la più candida delle esistenze nella religione dell’Internazionale. Che come Socrate era sereno, e, come Dostojewski, come Tolstoï, non per sè vivo ma per l’umanità.
Ma già il Belgio era stato tradito, invasi i primi dipartimenti della Francia: già la rossa Walkiria impazzita calpestava nella corsa furiosa carne d’innocenti e d’ignari, sotto gli zoccoli in fiamme del suo cavallo. E il Padre Majno era divenuto cieco di sacra collera. Cieco dell’indignazione che a Gesù Cristo aveva fatto brandire la frusta nel tempio. Se egli avesse potuto vivere fino al maggio memorando, l’Italia avrebbe veduto il più mite de’ suoi figli, il buono apostolo del disarmo, malgrado la già stanca età, partir volontario per la frontiera con saccapane, gamella e fucile, accanto a Guido Donati suo discepolo diletto, a Bissolati, a Gasparotto, a Mussolini, a Filippo Corridoni: e come Guido Donati e Filippo Corridoni, forse, cadere: non uomo di combattimento, ma uomo di giustizia, cadere: per la riconquista d’un bene ideale senza prezzo, del quale egli soffriva troppo di essere defraudato.
Ma Luigi Majno non ebbe bisogno di andare a combattere per essere ucciso dalla guerra.
Egli morì di dolore per aver dovuto accettare e proclamare, davanti alla feroce verità dei fatti, la necessità ineluttabile di passare, anche in questo secolo, attraverso la guerra per difender la pace.
Qui non v’è che una piccola donna a celebrare il Giusto e la complessa attività sua di giurista, di filosofo, di scienziato, d’uomo politico, d’uomo di fede.
Ma questa piccola donna, che ebbe la ventura di vivere alcuni anni della prima giovinezza nella dolcissima intimità della famiglia e del cuore di Luigi Majno, non vuole, non sa evocarlo che in luce di gioia perfetta.
In luce di gioia perfetta risorga dunque per noi il Majno di venti e più anni or sono: quando, nella pienezza della virilità, giunto alla più intensa espressione del suo pensiero e alla più chiara vetta del suo lavoro, circondato dall’affetto dei familiari, dalla devozione dei discepoli, egli pareva designato a raccogliere intorno a sè le forze migliori del suo partito; e sapeva imporre agli avversarî la più schietta forma del rispetto — quella che confina con l’amore.
Alto, robusto, massiccio, un poco tozzo il collo sulle spalle quadre, portava fiera la testa dalla gran fronte bionda, sovrastante a torre sulle profonde cavità degli occhi. Ma gli occhi azzurri e la fresca bocca erano di un bambino. Di un bambino, talvolta, nella quiete delle ore raccolte, l’accento e la voce.
Dolce casa!... Vasi di fiori, tralci di edere sorridevano alle finestrelle; quadri di giovini artisti, allora all’alba della fama, sorridevano dalle pareti. Vi si saliva per molte scale, le stanze eran basse come solai; ma quanta luce, quanta grazia, quante cose belle là dentro!... Folate di vento carico di pòllini, squilli di risa simili a campanellini d’argento vi portavano i tre fanciulli. Vi si beveva serenità, come a polla di acqua sorgiva. Intorno al placido pater-familias e alla donna dall’anima misteriosa, che già recava negli occhi il presenso delle tragedie future, un flusso e riflusso inesausto d’amici. I più bei nomi dell’arte di quel tempo. I più battaglieri campioni del pensiero, della politica, della scienza positivista. L’amicizia elevata a missione, l’amicizia eroica, quale Riccardo Wagner la fissa per l’eternità nelle note del dialogo fra Kurnevaldo e Tristano, sulla spiaggia dell’isola deserta. Giovinezza, speranza, discussioni eclettiche, ideologie fiammeggianti, dinamismo, sublimazione delle forze di vita.
Era l’alba dell’idea socialista. Gli operai cominciavano a comprendere il significato di due grandi parole: cooperazione: organizzazione.
Non esistevan più classi. Non più confini. Non più razze. Tutte le lingue si rispondevano, fondendosi in una sola favella di ricchezza favolosa. L’utopia era talmente bella che pareva di toccarla con le mani, di stringerla come realtà. — Benvenuto, fratello!... — Addio, fratello!... — Chi era nel mondo che ci fosse estraneo?... Gli spiriti si dilatavano fino a comprendere nella loro cerchia l’umanità, e tanta era la gioia che giovinezza ci sembrò eterna.
Luigi Majno costituiva la base ed il centro del cenacolo.
Lontano pareva se pur presente, assai volte, mentre i nervosi discorsi sfavillavano volteggiando intorno alla sua placidità sognatrice. Ma ad un tratto una sua frase piombava con taglio netto nel folto della conversazione, mettendo a nudo il muscolo d’un argomento, fissandolo in un paradosso o in una definizione tra il bonario e il corrosivo.
Egli dirigeva gli spiriti, senza che se ne avvedessero.
Accarezzando le ciocche ricciute di Mariuccia, color della castagna non ancor matura, o le seriche trecce bionde di Carlottina, volgeva pensieri d’armonia che poi sbocciavano sulle sue labbra di fanciullo, nella forma geometrica e nel gemmeo splendore dell’espressione definitiva.
Teneva lunghi colloqui di silenzio con un gatto che lo comprendeva perfettamente, russandogli sulle ginocchia. Passava e ripassava, distratto, le dita nella tigrata pelliccia elettrica. E se all’improvviso usciva a dire una delle sue memorabili frasi, pareva ne avesse estratta l’ispirazione dalla taciturna sapienza dell’idolo felino dagli occhi verdi.
Infinite cose di bellezza lapidaria egli disse così, sospeso fra il sogno e la realtà.
Chi le raccolse?... Egli fu un socratico. Le qualità essenziali della sua natura lo portavano all’insegnamento, inteso nella sua purità religiosa.
Nominato professore di diritto e di procedura penale all’Università di Pavia, dal 1890 al 1894, là occupò veramente, ma, ahimè!... per troppo breve tempo, il posto che gli era dovuto dalla vita.
Giureconsulto di tal dottrina e di tali doti, che Francesco Carrara gli aveva preconizzato un magnifico avvenire, iniziò il suo corso con una prolusione che fu una memoranda battaglia, combattuta a visiera alzata nel nome del movimento positivista sperimentale, diretto a conquistar nuove strade allo studio del diritto: compreso non come arida teoria, ma come viva materia umana. L’innovatore apparve subito, ebbe nemici e satelliti.
Formò poscia, profondendosi in lezioni nelle quali la complessità e la sicurezza della preparazione scientifica, la vastità delle vedute e l’unità morale davano valore di convinzione alla novità del metodo, valentissimi discepoli.
Diresse menti e cuori, illuminò coscienze, temprò caratteri, formò energie di battaglia: fu ascoltato, seguìto, venerato, benedetto.
Creò (come sempre il Maestro di grande stile) con sè stesso gli altri.
Meschine ragioni di parte tolsero a lui la cattedra che l’autorità della sua parola onorava e avrebbe resa gloriosa. Il probo e mite cuore ne sanguinò, in silenzio; ma l’opera del Maestro continuò.
Alla sbarra e nelle assemblee. Nella casa. Nella strada. Fra gli amici, al tavolino d’un caffè. Ovunque, comunque. Difendendo un accusato in corte d’assise, un’idea in un comizio. All’unica missione lo portavano organicamente l’equilibrio mentale, la dirittura logica, e la facoltà di tutto assimilare per tutto rendere, con originalissima arte comunicativa. E dico tutto nel senso enciclopedico: perchè l’opulenta struttura del cervello di Luigi Majno e la sua sconfinata memoria comprendevano (chi lo conobbe sa che non esagero) lo scibile umano.
Per tal ragione, senza dubbio, Luigi Majno appartenne alla specie degli uomini superiori che, avendo esercitato in vita un’immensa influenza spirituale, continuante anche dopo la morte, pochissimo lasciano dietro a sè in quanto ad opera concreta, fissata in caratteri di stampa.
Quel conoscitore, adoratore, insonne inseguitore del libro, del libro per sè stesso in ogni lingua, edizione, materia, data, non affidò il proprio nome che ad un solo lavoro stampato: il Commento al Codice Zanardelliano, composto in parte durante i battaglieri anni del suo insegnamento nell’ateneo pavese.
Lavoro, tuttavia, che basta ad una fama di giurista. Ripeterò di esso il chiaro giudizio d’un avvocato che al Majno fu fratello d’anima, Eliseo Porro:
«Il Commento al Codice Zanardelliano è il risultato e il prodotto di tutta la probità scientifica e morale del Majno: è la somma di tutto un lavoro lungo, paziente, minuto di elaborazione, del quale lo scrittore presenta soltanto la sintesi: e per di più con una precisione di dati e di citazioni, la quale, mentre rende l’opera preziosissimo strumento di più ampie ricerche, la consacra compagna fidata sia del patrono e del giudice, che vi troveranno sempre una guida e un consiglio, sia dello studioso, che vi troverà con sobria ma scultoria esattezza discusse tutte le dottrine.»
Del Commento scrisse pure, fra i molti, il deputato Arnaldo Agnelli: «Esso tiene il giusto mezzo fra il lavoro di erudizione e quello di applicazione pratica».
Non v’ha studio d’avvocato nel quale il Commento non si trovi. Ogni donna dovrebbe leggerlo, per esserne grata all’autore; poichè in esso, ad un codice sapientemente ma esclusivamente composto da un uomo per gli uomini, si contrappone il moderno principio di difesa e di elevazione della donna, considerata come libero, fattivo, responsabile elemento civile e sociale.
Penalista d’indiscussa autorità, le sue arringhe nei tribunali furono modelli di abilità professionale, di chiarezza e rapidità oratoria.
Mai accettò di difendere una causa, se della bontà e necessità di essa non fosse convinto.
Nell’esercizio del suo ufficio di patrono, sempre si rivelò, per la profonda sincerità del metodo, discendente diretto del ceppo lombardo di Cesare Beccaria e di Pietro Verri.
Fissava la questione sulla tavola anatomica, la sviscerava, ne faceva sgusciare il nocciolo, lo rompeva coi forti quadrati denti, lo masticava. Voleva il fatto, — crudo: prendeva il toro per le corna, atterrandolo.
Indossata la toga, la mitezza evangelica di Luigi Majno spariva: balzava fuori il lottatore dai pugni di bronzo.
Disprezzava le disquisizioni teoriche e i periodoni altosonanti: di teoria gli bastava quel tanto che illuminasse la pratica. La passione di tutto imparare, in lui infrenabile, faceva sì che, dovendo egli, per esempio, studiare una causa commerciale, il suo cervello s’impadroniva d’ogni più minuta documentazione di quel ramo di commercio. Dovendo difendere un medico in una causa professionale, eccolo ingolfato sino agli occhi in trattati di medicina e chirurgia: non solo per maggior competenza nel processo, ma per fervore di curiosità.
Così divenne in ispirito, volta per volta e sempre su precise basi tecniche, industriale, ingegnere, farmacista, meccanico, armatore di navi, matematico, professore di belle arti.
Fu un sibarita del conoscimento. Studiò ed ebbe familiari, oltre al greco, al latino ed alle lingue moderne, l’arabo, il giapponese, il sanscrito. D’ogni lingua citava e sapeva a memoria i poeti. Maggiori e minori, li possedeva tutti, scavandoli fino all’osso per amarli meglio.
Per il proprio piacere di buongustaio s’ingolfò nei meandri dell’algebra superiore, corrispondendo in materia con il professor Pascal e con altri dotti. La sua casa, il suo studio, il suo solaio eran divenuti un emporio di libri. Ogni sera tornava con le tasche e le mani traboccanti di volumi, e con un mazzolino di fiori per farseli perdonare. L’edizione rara, l’esemplare unico: ebbrezze.
Tale orgiastica avidità di sapere si sarebbe potuta interpretar come uno splendido egoismo. Nulla di più falso. La dottrina bevuta a tutte le sorgenti si sprigionava poi, purificata, dal cervello «Majno» per il cervello di tutti. Chi, avendolo conosciuto e frequentato, può negare di avere imparato qualcosa da lui?... Anche ogni cosa morta diventava viva e feconda sulle labbra di quel socratico.
L’arguzia del Majno mordeva e segava; e pure quell’uomo non odiò mai nessuno. Sotto l’acido corrosivo di certi suoi giudizi la carne grillettava, come per ferro rovente; e pure chi potrà dire la delicatezza della sua bontà?... chi la purezza del suo cuore?... Chi il suo affetto per i bambini, la sua passione quasi morbosa per gli uccelli e per i fiori, ai quali egli parlava come ad amici, nella certezza che lo comprendessero?...
Quando mai egli rispose di no alla preghiera di un umile, di un disgraziato?... Filippo Turati lo chiamò, a ragione, «vittima delle vittime».
Vittima, se mai, per esserne il terribile difensore.
Ognuno di noi che abbia buona memoria ricorda il triste processo contro il cappellano confessore di un istituto per le bimbe abbandonate. Gli avvocati della parte civile, costituiti con il Majno in difesa delle piccole infelici, dopo le arringhe, per concorde volere, incaricarono il Majno stesso di parlare in replica.
Egli parlò: per oltre un’ora, con veemenza gladiatoria, con logica implacabile, con tale grandezza, che il colpevole ne fu schiacciato, l’uditorio ne rimase pallido e vinto. Non era un avvocato che arringava alla sbarra; ma un giustiziere che calava la mannaia. Fu una delle più memorabili vittorie forensi del Majno. Per ottenerla egli non aveva fatto che ascoltar lo spirito della giustizia: v’era da stigmatizzare una viltà, la più bassa delle viltà, compiuta su creature deboli e indifese: bastava.
L’oratore politico fu pari all’oratore giuridico: foggiato a spada e a maglio, preciso, sintetico: un semplificatore.
L’immensità della sua erudizione gli avrebbe concesso larghissimo campo di citazioni in ogni lingua e d’ogni genere. Ma egli le disdegnava. E apparve assai volte quasi schematico nel complesso de’ suoi discorsi. La struttura geometrica del suo pensiero diveniva apparente rozzezza oratoria. Ma si può ben dire che il suo eloquio era ignudo perchè, ricco com’era di nervi, di muscoli, e di magra ma salda carne, nella sua bella forza poteva fare a meno di veste.
Caratteristico, in lui, il gesto delle mani che ne accompagnava in pubblico la parola. Così alto, vigoroso, spalluto, pareva raccogliesse gli argomenti necessarî all’arringa sulle punte delle dita chiuse a nodo: quasi che ogni dito significasse per lui un puntello polemico.
E agitava secondo le fasi del discorso i due stretti nodi dinanzi agli ascoltatori, senza scioglierli. Ma, giunto all’argomento principe, che li riassumeva tutti con irresistibile efficacia, lo cacciava fuori del fascio finalmente allargato delle dita, liberandolo e liberando sè stesso. Gesto e parola: fusione perfetta, inimitabile plastica oratoria.
Luigi Majno fu l’uomo solidale per eccellenza. Il periodo intensivo della sua vita non poteva quindi consistere che in una solenne affermazione di solidarietà; e fu dopo gli arresti in massa e durante i processi politici del Novantotto in Milano.
L’avvocato esperto in ogni sottigliezza dell’arte, il combattente politico, il fratello senza macchia e senza paura culminarono allora in dedizione sublime. L’atmosfera di purità morale che egli aveva creata intorno a sè, ponendolo al disopra d’ogni partito, lo aveva reso inviolabile, aveva fatto sì che fosse lasciato libero.
Non si toccava il Majno.
In tal modo egli potè organizzar le difese di centinaia e centinaia d’accusati politici, giacenti nelle prigioni. Uccise, in quel tempo, stanchezza e sonno. Si moltiplicò. Dopo intere giornate di strenua fatica, vegliò intere notti per stendere atti, ricorsi, memoriali, o per copiar documenti di gravissima importanza. Non potendo in persona (trattandosi di processi militari) comparire alla sbarra, unì la cautela del patrono dietro le quinte a ricchezze incalcolabili d’abilità, di finezza, di penetrazione giuridica, di volontà devota. Illuminò e diresse gli ufficiali incaricati delle difese, proiettò in loro tutta l’energia del suo fluido.
Maestro!... Sempre.
Maestro in Dio, poichè Dio significa giustizia.
Dall’asperrima battaglia uscì vincitore, ingrandito di mille cubiti nella sua prodigata umanità: l’eroe vero del Novantotto fu lui.
Cessato lo stato d’assedio, restituita la calma al paese e la libertà agli imprigionati, Luigi Majno, primo cittadino di Milano, rifulse in luce piena, con l’azione liberatrice definitiva: non solo portata sugli uomini, ma altresì sulle istituzioni. Fu allora che la Società Umanitaria, stata sciolta per decreto dal Bava Beccaris, venne dal Majno sostanzialmente ricostituita e rinsaldata sulle reali basi, che ad essa aveva assegnate il fondatore magnifico.
Si giurava nel nome del Majno, simbolo d’integrità: la fede del popolo saliva a lui per innumerevoli vie. Fu in quel tempo il regno di Majno il Buono.
Primo in lista nelle elezioni amministrative comunali, quando il blocco dei partiti popolari conquistò il comune di Milano: eletto assessore della pubblica istruzione: quasi sindaco (e se realmente non lo divenne, fu per suo proprio reciso rifiuto), risanò l’ambiente scolastico, vi portò una fresca e vivida aereazione: così pura era in lui la poesia della scuola.
Tenne nobilmente una sola legislatura, come rappresentante in parlamento del secondo Collegio della sua città, conquistato per lui alla democrazia socialista: poi volontario se ne ritrasse. Alla sua monolitica individualità non potevano non ripugnare le vie traverse, le meschine ambizioni, i compromessi di Montecitorio.
Egli, del resto, amava troppo la sua Milano — dove fin da bambino aveva vissuto, e che gli somigliava. Nativo di Gallarate, lombardo puro sangue, troppo amava la vera Milano del pittoresco Naviglio, del grasso e rude dialetto portiano, della celia bonaria, della bontà senza fondo, dell’attività febbrile; e non sapeva e non poteva staccarsene, e fuor dell’ombra del campanile di Sant’Ambrogio era un pesce fuor d’acqua.
Nessuno, ch’io sappia, penetrò, gustò e seppe far gustare la poesia di Carlo Porta meglio di lui. Nessuno fu di lui guida migliore attraverso il dedalo e la storia delle antiche vie di Milano autentica, così ricche di gioielli architettonici e di opulenti giardini.
Fu, nelle piane e larghe linee della sua fisionomia morale, il veridico figlio della metropoli lombarda. La muscolosa nella lotta. La sanguigna nel godimento. La serena nel giudicare. L’inesauribile nel soccorrere.
L’uomo che, avendo potuto guadagnare e metter da parte centinaia di migliaia di lire, morì quasi povero per aver molto dato a chi ne aveva bisogno, fu schietto sangue e schietta carne della città prodiga nel donare per aiuto, con le mani finissime de’ suoi patrizi, volitive tenaci intelligenti de’ suoi industriali, nervee pensanti sensibili de’ suoi professionisti, grosse carnose cordiali de’ suoi esercenti, franche nocchiute massicce de’ suoi operai.
Uno dei giorni in cui, nella sua qualità di primo cittadino milanese che tutti gli riconoscevano e che gli risplendeva sul petto come una croce d’onore, aveva accolto l’incarico di ricevere solennemente le rappresentanze dell’industria e del commercio francese, fu veduto in piedi nella carrozza che portava con lui gli amici di Francia. In piedi; e in gloria.
Proteso il gran corpo in avanti, radioso il volto, d’un bimbo gli occhi e il sorriso sotto le falde diritte del cappellaccio nero, mostrava con la destra trionfante il Duomo: il suo Duomo.
Fusi in lui, nel momento felice, l’ambrosiano di razza e l’apostolo dell’Internazionale.
Dinanzi alla sua bionda figura non vi fu forse chi non pensò ad Alberto di Giussano:
Batte il sol nella chiara onesta faccia, |
Sempre tuonò, quella maschia voce che martellava parole di verità, inchiodandole nel cuore di coloro che l’ascoltavano: dove fu una donna o un bambino da proteggere, una qualsiasi vittima da difendere, un’ignominia da smascherare, una viltà da schiaffeggiare, un vizio o un abuso sociale da bollare con ferro e con fuoco.
Eppure sapeva farsi così dolce, e, — forse ignorandosi — così sommessa ed implorante: la voce d’un piccolo: quando si raccomandava non fosse più toccata una certa finestra della casa, dove due tortore avevan fatto il nido, appoggiandolo ad un’imposta: quando, assopito in una poltrona, il padre susurrava come in sogno il nome dei figli: Mariuccia.... — Carlottina.... — Dinetto!...
Ma le figliuole partirono.
Prima fu quella che nel fiammeggiar dello spirito, nella profonda potenza dello sguardo più somigliava alla madre.
Seconda fu quella che al padre più somigliava nella florida grazia bionda, e pareva muoversi in un raggio di sole: e Carlottina era il suo nome, ma gli amici della casa la chiamavano Azzurra.
E con loro anche il cuore di Luigi Majno trasmigrò.
Ai funebri di Azzurra fu veduto egli camminare immediatamente dietro il feretro, con la compagna e il figlio superstite ai lati. S’aggrappava, con le tese mani, al carro: sicuro il passo ma la testa curva, curvo fra le spalle il collo sanguigno: simile ad un toro colpito alla cervice da un colpo di mazza, che non basti a farlo piombare a terra.
Da quel dolore non rinvenne più.
Ebbe ore di prostrazione così profonda da sembrare annientamento. Si isolava talvolta fra la gente, come un sonnambulo. Nella quiete della casa, a intervalli parlava da solo, sognando ad occhi aperti. E diceva, conversando con l’invisibile, parole grandi: parole misteriose, fili stellari congiungenti l’umano al divino.
Le udì, con tacita riverenza, la compagna fedele; e le custodisce nel cuore.
Ma la costanza e l’efficacia dell’opera sociale di Luigi Majno non rimasero arenate nella crisi. Continuò l’opera a scorrere, fiume benefico, diramantesi per cento canali a fecondar campi ed orti.
Presidente della Società Umanitaria. Consigliere della Congregazione di Carità. Presidente della Scuola del Libro e dell’Associazione degli Insegnanti. Presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati: della Biblioteca Popolare: dell’Istituto di Santa Corona. Rettore dell’Università Bocconi. Che cosa non fu Luigi Majno?... Quale istituzione di carità o di dottrina ebbe Milano, di cui egli non fosse capo venerato?...
L’esercito degli umili si accalcò sempre più intorno a lui, bevendogli l’aria per il respiro, mangiandogli il cuore. Agli umili sacrificò tempo, lavoro, facondia, fortuna, guadagno. Per un accattone che gli piacesse era capace di vegliar le notti e di mettere a soqquadro il tribunale. Nei rioni popolari i teppisti se l’additavano con rispetto: «Quel lì l’è el Majno». I monelli gli si attaccavano al lembo del pastrano, i vecchi merciaioli ambulanti gli raccontavan le loro disgrazie. Ma tale egli era anche davanti ai prìncipi: il più grande uomo come il più piccolo s’inchinava alla sua presenza.
Intensificò la propria attività nell’Asilo Mariuccia, e, di conseguenza, contro la tratta delle Schiave Bianche: mettendo al servizio della causa l’autorità del suo nome e della sua perizia — e la purezza della sua fede nella salvazione della donna considerata quale bestia irresponsabile, che si marchia a fuoco, si vende e si compra.
A tal perfezione morale era assunta la figura di Luigi Majno negli ultimi anni di sua vita, che egli era ormai divenuto l’arbitro supremo in ogni disputa, il consigliere il cui responso veniva accettato senza ribatter sillaba, il giudice dagli stessi avversarî invocato e obbedito.
La compattezza della sua compagine psichica entrava nel dominio dell’Assoluto: l’armonia da lui emanante equilibrava le forze contrarie. Majno il Buono era di tutti, in tutti, per tutti.
Ma si chiudeva il luglio del 1914 con la sorpresa terribile della guerra. Poche settimane appresso, il più vergognoso crimine che insudici la storia d’un paese era commesso dalla Germania. Luigi Majno s’era sentito tradire e martirizzar con il Belgio — e qui comincia il poema della sua passione.
La casta coscienza non resse al colpo. Si sgretolò, si staccò dal passato, blocco granitico da una parete di montagna. E rotolò, rotolò inesorabile, con tutto il suo peso, a schiacciare i responsabili.
La fede nel vincolo fra le nazioni, la base e l’armonia d’una costruzione giuridica fondata sulla più pura concezione del diritto, e quel senso universale di solidarietà che rendeva il Majno degno della cittadinanza onoraria d’ogni paese del mondo, tutto in lui fu calpestato e messo alla tortura.
Ed egli odiò come aveva amato: e quell’odio era, tuttavia, amore.
L’Uomo che non aveva nel corso de’ suoi anni fatto piangere alcuno, non seppe mai perdonare all’Austria e alla Germania di non avere egli potuto additare a sè ed agli altri, per difendere l’incolumità delle patrie, altra arma se non la stessa del nemico: la guerra.
E il rodimento di trovarsi costretto ad accogliere un’idea sorpassata, ad ammettere il diritto della forza brutale, a predicare spargimento di sangue, gli contorse l’animo, gli avvelenò le sorgenti dello spirito, lo avvilì di fronte a sè stesso, lo condannò a morte.
Sotto la percossa della stessa intima tragedia moriva, a pochi giorni di distanza da lui, un’altra sintetica figura di umanità: Alessandrina Ravizza.
Sappiamo noi quanti siano gli oscuri che per l’ugual ragione chiusero gli occhi per sempre?... Non vollero, non poterono vedere il sangue, misurar l’orrore. Crollarono con la loro fede, furono raccolti dall’ombra.
Ultimo atto della vita pubblica di Luigi Majno fu la presentazione di Jules Destrée, deputato di Charleroi, all’assemblea degli avvocati e procuratori, nell’aula magna del liceo Beccaria. Era la sera del ventisei novembre, nel 1914. Venuto fra giuristi italiani a chieder responso sul conculcato diritto di neutralità della sua patria, il profugo illustre, presidente della Federazione degli avvocati belgi, non poteva trovare auspice migliore dell’Uomo Giusto per eccellenza.
Nel suo discorso Luigi Majno fu grande. Discorso che neutrale doveva essere, in paese ancor neutrale; ma l’indignata coscienza vi rosseggiava in ferite sgorganti sangue e spasimo. Vampe salivano, ruggendo, dalle sobrie e contenute parole: sobrietà tagliente, costrizione tormentosa che serrava l’assemblea in una cerchia di ferro.
In quell’ora, nel cuore di quegli uomini, si fissò, più che il presentimento, la certezza che l’Italia sarebbe entrata in guerra accanto al Belgio; e fu per quella voce.
Ma Luigi Majno era già minato dall’interno male: già verso di lui veniva la morte, con la dolcezza del suo silenzio.
La sera del nove gennajo 1915 mormorò, coricandosi, alla compagna fedele:
— Mi par d’essere un bimbo nella culla.
Aveva lavorato l’intero giorno. Sorrideva. L’angoscia si era per miracolo calmata nel suo cuore. Si addormentò. Altro non disse.
Quando la prima alba venne a render pallide e come estatiche le vetrate delle finestre, il volto di lui s’era composto in tale serenità d’innocenza, che veramente egli pareva un bambino nel sonno.
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Sta nel Palazzo Marino il busto in marmo del Padre Majno, scolpito da Eugenio Pellini.
È il Padre Majno dell’ultima fase, della fase di passione.
Curva la testa così che il mento viene a toccare il petto: la poderosa fronte a torre sembra crollare. Sulle palpebre quasi chiuse, sulla stanchissima bocca suggellata, un silenzio di dolore senza conforto.
Il dolore di Cristo.
Un’invisibile corona di spine martirizza la fronte veneranda: ogni linea è di sofferenza, ma anche di rampogna implacabilmente severa.
Il confessore della fraternità nella libertà, il casto che non si è mai macchiato assiste alla negazione di tutte le proprie verità ideali.
Sa da chi fu provocata la tragedia che scardina il mondo; e giudica e condanna senza indulgenza, senza perdono; ma sa pure che altro ormai non possono fare i popoli se non combattere sino alla fine, per vita o per morte.
È questa certezza del sangue versato e da versare, che fa della sua testa un michelangiolesco blocco di dolore.
Chi non ebbe la dolcezza di conoscere il Padre Majno d’avanti-guerra, lo vedrà sempre così.
Egli non poteva, tuttavia, scomparire senza lasciare ai familiari un monito di serenità e di pazienza; e così avvenne, per un fatto che sembra misterioso ed entra invece nel campo delle realtà spirituali.
Il giorno susseguente alle meravigliose esequie, durante le quali si ebbe lo spettacolo di tutta Milano in cammino dietro un morto, e tutte nere di folla apparvero le vie segnanti il transito del carro, e le altre deserte, e ciascun cittadino sembrò portar sulle spalle la salma del Maestro di bontà, — la vedova, rimasta nel terrore di essere ormai inetta a vivere, ricevette dalla posta un volume. — Era la traduzione delle pagine migliori di Tommaso Carlyle. Ella non ne lesse che il titolo:
Lavora, non disperarti.
Il buon Compagno, nella sua passione pei libri che lo accompagnò sino all’ultimo respiro, lo aveva egli stesso ordinato per lei ad un editore di Napoli; e volle il destino che le tre parole liberatrici non le giungessero che come voce d’oltre tomba.
Lavora, non disperarti.
Se pure, in questo tempo di stragi e di maledizioni, tu senta i tuoi piedi affondare nel sangue, e non raccolga negli occhi e nel cuore che immagini di violenza.
Se pure tu abbia perduto per via coloro che ti amavano e che tu amavi, e rimanga solo dinanzi a te stesso, come dinanzi ad una domanda senza risposta.
Per il bimbo che nacque ieri, e per quello che ancora è nascosto nel grembo della madre: poichè ogni vuoto si riempie, per quanto immani siano i massacri.
Per la spica e per il frutto che
debbono maturare; fossero pure la sola ed il solo rimasti intatti nei campi e negli orti devastati.
Per il fratello che non conosci e che ugualmente vive in te, come tu vivi in lui.
Per il dolore, per l’errore che ti hanno imprigionato, e per l’amore attivo che ti renderà libero.
Per il fiore effimero e per le stelle eterne.
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Finirà la guerra.
Finiranno le nazioni d’esser ridotte a caserma, ospedale e campo di battaglia. Le patrie diverranno inviolabili entità ideali. Cannoni, mitragliatrici, bombe, siluri, fucili, tutti i raffinati strumenti di distruzione, insultanti la santità dell’aria, della terra e del mare, andranno fusi in materia di metallo per gli strumenti e le macchine del lavoro, per rotaie, ponti e moneta.
Grano e gloria sui morti, sete e fame smisurata di amore nei vivi: gioia e sapienza del vivere, in ragione del sacrifizio consumato dai padri.
Allora soltanto, fra l’umanità ricomposta, il buono spirito di Luigi Majno ritornerà.
E tutto sarà secondo il sogno di colui che fu innocente.
Non possiamo ora che attendere, se non per noi, per coloro che verranno dopo di noi, la ricomparsa dell’elemento irradiatore di bene, che s’incarnò nell’apparizione mortale di Luigi Majno.
Non possiamo ora che raccoglierci, difenderci, compiere il dovere, serbare la fede, pregando quando il cuore è stanco:
— Padre, venga il tuo regno.