< Oreste (Euripide - Romagnoli)
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Euripide - Oreste (408 a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1930)
Frammento musicale dell'Oreste
Esodo Note
Questo testo fa parte della raccolta I poeti greci tradotti da Ettore Romagnoli

IL FRAMMENTO MUSICALE DELL’ORESTE



In un papiro della Collezione dell’arciduca Ranieri1 è conservato un brano, esiguo e prezioso, della musica dell’Oreste (v. 338-344). Eccone la fedele trascrizione.2


Π P   C
κατολοφυρομαι
Ρ Φ Π
ματερος αἱμα σας
Ż
Ζ
σ´ ἀναβαxχευει
I Z E
μεγας ὀλβος οὐ
Ż
Π P C
μονιμος ἐμ βροτοις
I· Z
ἀνα δε λαιφος ὡς
Ż
Ϲ Ρ Π    Ϲ    Ρ
τις ὰ-κα-του    θο-ας
Φ·  Ϲ
τι-ναξας δαιμων
Z
⟨Φ·⟩ Π  Ρ  Π
κα τε` κλυσεν,
⅂ Ↄ δεινων πονων,
Z  I·  Z
⅂ Ↄ ω ως ποντου
  ⟨Ρ·⟩ · Ϲ:
ναβροις ολεθριοισιν
Ρ    I
εν κυμαισιν3

I segni delle note, ordinati secondo la loro altezza (dal basso all’alto) sono dunque i seguenti:

Φ   Ϲ   Ρ   Π   Ι   Ζ   Ε

Alcuni di essi sono suscettibili di una sola interpretazione: Φ = sol (sotto le righe, in chiave di sol), Ϲ = la, Ι = re, Ζ = mi, Ε = fa.

Ma al Π e al Ρ si possono attribuire valori un po’ diversi. Se cerchiamo nelle tabelle di Alipio, vediamo che il Π è adoperato con varî valori.

1.º — Di sbb (la naturale), nel tòno ipereolio enarmonico.

2.° — Di sib, nell’iperfrigio diatonico.


3.° — Di dob, nel lidio cromatico.


Dunque, il Π non indica una nota di altezza assoluta: essa è la terza, l’indice (λιχανός) di un tetracordo basato sul sol o sul la.

Il medesimo va dello pel P. Esso, vale sib nel lidio cromatico:


e si+ nel lidio enarmonico.4


Dunque, essendo stabilito che nel brano dell’Oreste P e Π sono rispettivamente la sopraggrave e l’indice di un tetracordo basato sul C, rimane il quesito se si abbiano da intendere rispettivamente per si+ e sib, o non piuttosto per sib e dob. In altre parole, se appartengano ad un tetracordo cromatico oppure enarmonico.

Veramente, ne le tabelle d’Alipio, i segni delle note del cromatico, appaiono distinte da quelle dell’enarmonico mediante una sbarretta che le attraversa. Ma sembra certo che questa distinzione sia stata introdotta assai tardi, sotto l’impero romano (Alipio visse, probabilmente, ai tempi di Giuliano). I Greci seguirono, invece, una via piú semplice e spiccia: adottarono i medesimi segni tanto pel cromatico quanto per l’enarmonico; e al principio di ciascun pezzo indicarono (probabilmente mediante un segno, che non conosciamo piú), se il brano era cromatico o enarmonico; e l’esecutore accordava la cetra in conseguenza.

Cosí, dunque, non possiamo attribuir troppo valore al fatto che nel brano dell’Oreste le note non appaiono tagliate da alcuna sbarretta.

Il Gevaert, con la sua grande e ben meritata autorità, escluse senz’altro la possibilità dell’enarmonia. Il brano era corale. Ora, come supporre che dei coreuti, e fossero pure professionali, intonassero intervalli di quarti di tono, che, insomma, per testimonianza quasi concorde degli scrittori antichi, riuscivano anche allora di ben ardua esecuzione? Cosí egli adottò senz’altro la trascrizione cromatica5; e il suo esempio fu seguito, su per giú, da quanti si occuparono del frammento, a cominciare dallo Jan, che nella sua nuova edizione dei frammenti della musica greca (1899), abbandonò l’interpretazione enarmonica accolta in quella del 1895 (però all’enarmonico è tornato il Reinach nella sua recente operetta sulla musica greca)6.

L’osservazione del Gevaert fa certo grande impressione a noi moderni, incapaci, per desuetudine secolare, di apprezzare i quarti di tono (per altro, è sintomatica l’universale tendenza a riaccoglierli).

Ma non bisogna dimenticare che, sebbene alcuni autori antichi affermino che questi intervalli erano, anche a tempo loro, piú teorici che pratici, molti altri, e dei piú autorevoli, consideravano veramente perfetto il solo sistema su essi imperniato; e soggiungevano che molti lo misconoscevano per loro incapacità7. E l’importanza di questo sistema riesce provata dal fatto che esso servi di base all’antica notazione strumentale.

È poi noto che Euripide fu ammiratore e seguace di Timoteo. E certo i commediografi, quando battezzavano «formicai» le melodie di questo grande innovatore, doverono piú che altro pensare alla eccessiva piccolezza dei loro intervalli, forse enarmonici8. Non parrebbe impossibile che anche con simili procedimenti il poeta dell’Oreste si guadagnasse l’antipatia dei partigiani della musica tradizionale.

C’è poi un altro fatto, al quale mi sembra che i competenti non prestino molta considerazione, e che, secondo me, ne merita.

Aristide Quintiliano (IX, pag. 21), dopo avere esposti i vari tipi di generi, soggiunge: «Ci son poi altri tipi di tetracordi, dei quali si servirono i compositori antichissimi (οἱ πάνυ παλαιότατοι) nel genere enarmonico (πρὸς τῆς ἁρμονίας), E questi, talvolta abbracciavano l’intero tetracordo, tal altra superavano il sistema di sei toni, e talora erano piú brevi, per non assumerne tutte le note».

Ed enumerati il lidio, il dorio, il frigio, lo iastio, il missolidio, il sintonolidio, specifica gl’intervalli che separavano in ciascuno di essi le varie note, e «per maggior chiarezza» aggiunge i segni. Ora ecco quelli che dà per l’armonia dorica:

Φ   Ϲ   P   Π   I   Z   E9   Δ

E dice che differivano l’un dall’altro, via via, d’un tono, un diesis, un diesis, un dítono, un tòno, un diesis, un diesis, un ditono — superando di un tono l’ottava.

In trascrizione moderna, abbiamo (un’ottava sopra):


Ho senz’altro disposte le note nell’ordine che debbono avere per ogni competente di musica antica: cioè di un ottacordo enarmonico disgiunto basato sul la: essendo il sol la nota aggiunta, che qui non fa veramente parte d’un tetracordo (come avverrà poi nel famoso sistema ἀμετάβολον), ma rimane, come dice il suo stesso nome, aggiunta, cioè estranea al tetracordo, e, dunque, alla compagine tonale.

Ora, se confrontiamo questa gamma con quella che possiamo sicuramente costituire sulle note del frammento d’Euripide:


non possiamo non rimaner sorpresi della loro identità. Specialmente caratteristiche sono la limitazione al sol nella parte bassa, e l’assenza del do.

E se pensiamo che Euripide scrisse in un tempo in cui l’ὰμετάβολον era di là da venire, e che la gamma di Quintiliano era di quelle a cui senz’altro si riferiva Platone nella Repubblica10, e che dunque erano le gamme per eccellenza, le classiche al tempo d’Euripide, parrà probabile che proprio essa ci dia il modulo preciso per l’interpretazione del frammento d’Euripide.

E cosí, ad onta dell’autorità del Gevaert, mi sembra che, tutto sommato, le maggiori probabilità rimangano tuttora per una interpretazione enarmonica.

Del resto, il dubbio, che pur sempre sussiste, non deve ingenerare un eccessivo scetticismo. Per l’interpretazione della maggior parte delle note la trascrizione è sicurissima: sicurissima, dunque, l’ossatura della melodia. E certo la melodia varia, a seconda che su questa ossatura noi sovrapponiamo i quarti di tono del l’enarmonico o i semitoni del cromatico; ma non tanto che vada interamente smarrito il suo carattere (cercheremo di determinarlo).

Se non che, eseguita la trascrizione, si presenta, come per ogni altro brano di musica greca, un nuovo problema, non sempre facile, e qui reso piú arduo dallo stato frammentario del brano: cioè la determinazione del modo.

Problema, anche questo, di somma importanza. Perché le note son quelle, non c’è dubbio. Ma il loro pieno significato ci sfugge, finché non sappiamo a quale costituzione modale appartengano, cioè in quale rapporto si trovi ciascuna di esse col suono fondamentale della gamma (la media, pei Greci, come per noi la tonica). Supponiamo, infatti, di trovare il seguente frammento mutilato di musica moderna:


Il valore e il significato di ogni nota sarà volta per volta diverso, se supponiamo che il frammento sia in do maggiore, in sol maggiore, o in la minore. E se nulla interviene ad illuminarci, noi lo sentiremo sempre indeterminato: cioè lo capiremo poco.

Anche pel nostro frammento, occorre, dunque, determinare il modo. E ciò implica problemi sottili, e, forse, fastidiosi. Pure, per veder chiaro, bisogna affrontarli.

Da un brano, fondamentale per la dottrina dei modi, della Introduzione armonica di Cleònide, vediamo che nella sistemazione teorica erano stabiliti sette modi; i quali assai facilmente si ritrovano nella cetra accordata diatonicamente11.

Aggiunta


1 1 1 1 1 1 1 1 1 1
la si do re mi fa sol la si do re mi fa sol la

Saltando la prima corda, la famosa aggiunta (proslambanomène), abbiamo, dal si al si il tono missolidio, dal do al do il lidio, dal re al re il frigio, dal mi al mi il dorico, dal fa al fa l’ipolidio, dal sol al sol l’ipofrigio, dal la al la l’ipodorico.

Come si vede, dunque, i modi erano caratterizzati dalla diversa posizione che in ciascuno di essi occupavano i semitoni rispetto ai toni.

Ed anche si vede assai chiaro che questa costituzione modale presenta carattere artificiale e costruito. Essa codifica, in qualche modo, l’innumerevole e varia serie di canti che affluivano in Grecia da tutte le parti del mondo antico. I canti delle varie regioni erano costruiti su gamme diverse; e la diversità risultava appunto dal diverso rapporto fra gli intervalli. E cosí, a un dipresso, si credé di poterli inquadrare, geometricamente, nella lira accordata alla dorica. S’intende poi, che, disciplinata cosí la materia, i compositori si saranno attenuti a quei moduli teorici. Sicché la stessa cetra che avrebbe potuto riprodurre solo approssimativamente i canti genuini delle varie regioni, poteva perfettamente riprodurre una melodia in qualsiasi tòno composta da un musicista d’arte.

Fin qui, almeno oggi, tutti siamo, credo, d’accordo. Ora incomincia invece, secondo me, una grave confusione.

Dai trattatisti antichi, e, massime, da Cleònide, il quale deriva piú direttamente da Aristosseno, vediamo che accanto a questi sette modi diatonici, la teoria ne stabiliva sette cromatici e sette enarmonici. Facilissimo è ritrovarli. Si prenda la cetra accordata cromaticamente,

Aggiunta


1 1 +
la si do do* mi fa fa* la si do do* mi fa fa* la


e su ciascuna corda si costruiscano via via tante gamme di otto suoni. Quella dal si al si sarebbe la missolidia cromatica, dal do al do la lidia cromatica, dal do al do la frigia cromatica, dal mi al mi la dorica cromatica, sempre analogicamente a quelle costruite sulle corde della lira diatonica.

Ma si vede bene che, se le accordature generiche cromatiche ed enarmoniche hanno carattere di artifizio, qui abbiamo la superfetazione sull’artificio.

Frutto, se non erro, di una strana confusione. Il cromatico e l’enarmonico erano in origine modi, allo stesso titolo del dorio, del frigio, del lidio; ed erano caratterizzati, il primo dall’abbondanza di cromatismi, il secondo di enarmonie.

Non solo caratterizzati, ma profondamente distinti: tanto che sulla cetra dorica non trovavano modo d’inquadrarsi. E per poterli in qualche modo eseguire, bisognò appunto mutare l’accordatura della cetera.

Se non che, invalsane e resane comune la pratica, questa accordatura, che in sostanza era un modo, sembrò invece una quiddità comune, da poter applicare a tutti i modi; sicché per ogni modo si escogitarono le accordature cromatica ed enarmonica, che probabilmente non esisterono mai altro che nella mente dei teorici, o, furono, tutto al piú, adoperate da qualche bizzarro innovatore.

Cosí, dunque, pel frammento d’Euripide il problema del modo è già risoluto con la determinazione del genere.

Esso è costruito su un doppio tetracordo enarmonico disgiunto, in cui il la è grave, il si+ sopragrave, il sib indice, il re media, il mi sopramedia disgiunta, il fa+ terza delle disgiunte. Nessun dubbio che la gamma riusciva completata da un fa, penultima delle disgiunte, e da un la, ultima delle disgiunte, che risuonava all’ottava con la fondamentale della gamma. Il sol basso (aggiunta) rimaneva fuori dalla compagine modale.

Siamo, dunque, in un la enarmonico. Il la è la fondamentale, e questo suo carattere riesce affermato dalla circostanza che sovra esso torna sovente la melodia (battute 1, 5, 7, 8, 12). e due volte in fine di parola.

C’è ancora una difficoltà, che ricordo anche perché si veda quanti sono i problemi che si affacciano nella interpretazione d’un’antica melodia greca.

Per concorde testimonianza dei musicografi antichi, in ogni melodia ben costituita ritornava frequentissima la media, che era come l’elemento connettivo dei suoni12; e le melodie superstiti dell’antica Grecia suffragano la testimonianza. Qui la media è re: ed è pressoché sfuggita.

Ma forse questa anomalia è piú apparente che reale; e si può pensare che scomparirebbe se possedessimo l’intero brano d’Euripide. Ad ogni modo, sembra sicuro che sul re cadenzasse la frase piú caratteristica del brano, ripetuta due e forse tre volte (battute 4, 6, e forse 3).

Ed ecco, dunque, come risulterebbe complessivamente il brano in segnatura moderna. Adotto la trascrizione cromatica, che consente una esecuzione e una piú pronta intelligenza da parte di qualsiasi musicista: agevole riuscirà per ciascuno un tentativo di riduzione all’enarmonico.

Se ora tentiamo di caratterizzare questo frammento dal lato artistico, dobbiamo senza dubbio tornare a quanto dicemmo sui rapporti di Euripide con Timoteo. Anch’esso, con l’insistente ritorno degli intervalli, siano cromatici, siano enarmonici, che formano quasi il cardine della melodia, offre un esempio cospicuo della irrequietudine tonale che i tradizionalisti rimproverano all’innovatore di Mileto.

Ma basta la piú mediocre sensibilità artistica per sentire il fascino di queste note, pur cosí mutile ed isolate. Sicché, senza soverchiare i limiti d’una sobria induzione, si può concludere, mi sembra, che, qualunque fosse nell’arte di Timoteo il risultato delle sue innovazioni, Euripide ne derivò certo solo quel tanto che giovasse a rendere piú intensa e penetrante la sua espressione. Almeno a giudicar da questo brano, in cui il cromatismo — o l’enarmonismo — non è fine a sé stesso: è in funzione espressiva; e, dunque, pienamente legittimo.


  1. Mittheilungen aus der Sammlung der Papyrus Erzherzog Rainer. V. — Vindobonae 1892.
  2. Suppongo che chi s’interessa a questo argomento conosca i principi fondamentali della musica greca (v., p. es., il mio volume: Nel regno d’Orfeo, Zanichelli. 1921). E indugio a mostrare con qualche minutezza e precisione la via che si deve seguire per trasportare in segnatura moderna ed interpretare un brano di antica musica greca. Questo dell’Oreste non è certo dei piú agevoli.
  3. Nel papiro, sono andate perdute, insieme coi segni delle rispettive note, molte parole, che noi, però, possiamo facilmente supplire col testo della tragedia — che però diverge in qualche punto da quello del papiro. Sopprimo gli accenti per eliminare i contrasti, che certo anche nella antica esecuzione erano eliminati, tra gli accenti mèlici e quelli delle parole.
  4. Col segno × è indicata, qui e sempre, la nota precedente accresciuta di un quarto di tòno.
  5. La mélopée antique dans le chant de l’église latine. Gand 1895, pag. 388.
  6. La musique grecque, Payot, Paris. 1926.
  7. Basti ricordare il brano d’Aristide Quintiliano (I, IX): ἀκριβέστερον δὲ τὸ ἐναρμόνιον (γένος). παρὰ γὰρ τοῖς ἐπιφανεστάτοις ἐν μουσικῇ τετύχηκε παραδοχῆς, τοῖς δὲ πολλοῖς ἐστιν ἀδύνατον· ὅθεν ἀπέγνωσάν τινες τὴν κατὰ δίεσιν μελῳδίαν, διὰ τὴν αὑτῶν ἀσθένειαν καὶ παντελῶς ἀμελῴδητον εἶναι τὸ διάστημα ὑπολαβόντες.
  8. Però bisogna osservare che con una immagine simile (μύρμηκος ὰτραποί) Mnesiloco designa nelle Tesmoforiazuse (100) le melodie di Agatone, le quali, secondo ogni probabilità, non erano del genere enarmonico, bensí del cromatico (v. Gevaert, op. cit., pag. 391, nota 3).
  9. Nella edizione dello Jahn invece di questa E c’è un Π rovesciato 𝈸; nel fac-simile del Codice d’Amburgo pubblicato in questa stessa opera, un Ϲ. Ma il controllo con tutta la tradizione, a cominciare dallo stesso Aristide (v. lista dei segni per 1/4 di tòno al cap. XI), dimostra che si tratta d’un errore d’amanuense.
  10. Aristide Quintiliano, I, IX (p. 22): Τούτων δὲ καὶ ὁ θεῖος Πλάτων ἐν τῇ Πολιτείᾳ μνημονεύει.
  11. Vedi il mio volume Nel regno d’Orfeo, pag. 245 sg. Si può anche consultare il volumetto, già ricordato, del Reinach: La musique grecque, che in molti punti, come, p. es., in quello che ora ci interessa, collima perfettamente con le idee mie. Però il lavoro del Reinach è del 1926, Nel Regno d’Orfeo del 1920; e il mio scritto sui modi greci usciva nella Rivista musicale di Bocca sin dal 1919, Altrettanto vero che dei miei scritti non hanno mostrato di accorgersi né il Reinach né i vari recensori italiani del suo chiaro ed utile libretto.
  12. Cito, per tutti, Aristotele, Problemi musicali, XX: τῶν φθόγγων ἡ μέση ὥσπερ σύνδεσμός ἐστι, καὶ μάλιστα τῶν κώλων, διὰ πλειστάκις ἀενυπάρχειν τὸν φθόγγον αὐτῆς.

Note

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