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ORIGINE DELLA MONETA IN ITALIA1
I numismatici che hanno studiato il problema delle origini della moneta in Italia si possono classificare in due scuole: quelli che vogliono dare all’Italia l’onore di avere inventato la moneta, riportandone l’introduzione ad un’alta antichità, e quelli che pretendono abbia essa copiato tutto dalla Grecia.
A me pare che ci sia dell’esagerazione da una parte e dall’altra; ma che, in fondo, abbiano tutti un po’ di ragione. Infatti è vero che la moneta coniata propriamente detta, ebbe origine indubitatamente nella Lidia e fu quindi adottata in tutta la Grecia, ma è altresì vero che l’idea di adoperare il metallo per facilitare gli scambî sorse spontanea anche fra alcuni popoli italici, i quali, quando appresero l’invenzione del conio, possedevano già le loro monete primitive fuse che differivano sostanzialmente dalle greche e dalle orientali.
Non deve sembrare strano che l’idea della moneta sia sorta indipendentemente in differenti paesi. Nella storia si notano altri fatti consimili, di invenzioni o scoperte avvenute in paesi posti a grande distanza e che non avevano fra loro alcuna comunicazione. Basti ricordare la somiglianza, affatto casuale, fra i geroglifici egiziani e quelli messicani, e l’arte della stampa inventata in Europa quando in China era già conosciuta da parecchi secoli.
Per dimostrare meglio il mio asserto, riassumerò brevemente la storia della moneta.
In origine la base delle contrattazioni commerciali fu il bestiame, non solo in Italia, ma anche presso altri popoli antichi. Infatti Omero ed Esiodo, posteriori alla guerra di Troia, non parlano mai di moneta ed indicano sempre il valore delle cose a bestiame, oppure fanno menzione di scambî con oggetti di genere diverso. Un campo coltivato poteva valere due o tre buoi, un bue poteva cambiarsi con dieci o dodici pecore, una bella schiava era valutata quattro buoi. Lo stesso Omero ci dice che il tripode dato in premio della lotta al funerale di Patroclo valeva dodici buoi e che gli Achei si procuravano il vino di Lenno, dando in cambio metalli, pelli bovine o qualche robusto schiavo.
Ma quest’uso doveva riuscire assai incomodo e non poteva sempre corrispondere ai bisogni sociali. La scoperta del metallo mostrò il grande vantaggio che se ne poteva trarre, valendosene come mezzo di scambio, poichè, oltre ad avere un valore intrinseco, non è soggetto a deperire, si può facilmente trasportare, e dividere con esattezza nelle più minute proporzioni. Inoltre il bronzo, che fu il primo metallo usato in Italia per gli scambî, poteva essere trasformato, ogni qualvolta si volesse, in armi od utensili domestici. In Asia, invece, fu l'oro ed in Grecia l’argento, il primo metallo adoperato pel commercio.
I Latini chiamarono aes rude (bronzo o rame informe) il metallo di cui si servirono in principio per gli scambî commerciali.
In seguito il metallo fu fuso in pezzi regolari di forma rettangolare di cinque o dieci libbre e s’incominciò a dargli un’impronta che fu generalmente un animale, forse in memoria dell’antico uso degli scambî col bestiame in natura, e questo fu chiamato aes signatum (bronzo segnato).
Da questo si passò all’aes grave, prima di forma ovale e poi di forma rotonda che fu la definitiva. Allora, per facilitare sempre più gli scambî, fu creata l’intera serie della moneta colle sue frazioni, cioè l’asse del peso di una libbra corrispondente alla quantità di metallo che un uomo poteva sostenere (librare) sul braccio teso, il semisse di mezza libbra, il triente di quattro oncie, il quadrante di tre oncie ed il sestante di due oncie. Cosicchè il sistema si basava su una libbra di bronzo ed ognuno dei sei pezzi portava il segno del suo valore.
Di queste monete primitive molte sono pervenute fino a noi, ed il ripostiglio di Vicarello compendia, si può dire, la storia stessa della moneta.
Vicarello è una località presso il lago di Bracciano, ove esistono delle acque termali chiamate Acque apollinari, conosciute e adoperate anche in oggi per curare certe malattie.
Nel 1852, nel fare alcuni lavori presso l’antica fonte, fu rinvenuto un numero ingente di monete, che erano il tributo offerto, per lo spazio di parecchi secoli, dai visitatori, alla Divinità che, secondo essi, rendeva benefiche quelle acque. Era un uso comune di quei tempi.
Vi si rinvenne l’aes rude in quantità di oltre 1200 libbre, l’aes signatum, l’aes grave dei varî popoli dell’Italia centrale, poi le monete coniate della Repubblica romana e quelle degli imperatori, fino al principio del quarto secolo dell’êra nostra2.
A Vulci fu rinvenuto un vaso di terra contenente insieme, l’aes rude in pezzi informi di bronzo del peso da un’oncia ad una libbra, l’aes signatum in pezzi rettangolari interi od in frammenti e l’aes grave nella forma ovale.
Spessissimo poi si ritrova l’aes rude in tombe antiche specialmente etrusche, e lo si può vedere in quelle trasportate intatte nel museo di Bologna. Il pezzo di bronzo è vicino alla testa del cadavere.
Parmi dunque che, anche non volendo prestar fedi agli antichi scrittori che pure parlano dell’uso del bronzo in natura, non si possa mettere in dubbio che esso abbia servito in Italia come moneta primitiva che si scambiava, pesandolo, con altri oggetti; ed a Vicarello ed a Vulci lo abbiam visto fare l’officio di moneta, misto a monete propriamente dette.
Vi è chi afferma che l’aes rude non abbia mai avuto corso come moneta, ma che sia stato adoperato solamente per gli usi sacri, perchè si rinviene anche in tombe appartenenti ad epoche in cui la moneta coniata era subentrata alla fusa e perchè fu adoperato per offerte alle divinità in tempi ugualmente posteriori alla sua origine; e si citano in prova le offerte di aes rude fatte dai soldati di Annibale al tempio della dea Feronia3 (544 di Roma, 210 av. C). Ma ciò dimostra soltanto che per gli usi sacri si continuò ad adoperare per lungo tempo la moneta primitiva; chè, del resto, a Vicarello si è trovata ogni sorta di monete offerte alla divinità del luogo, e probabilmente i soldati di Annibale offrirono aes rude alla dea Feronia, perchè non avevano altra moneta e con quella erano pagati i loro stipendi, non essendo supponibile che Annibale in una guerra così agitata, combattuta su territorio straniero e coll’esercito continuamente in moto, potesse sempre coniarne.
Dagli storici antichi non è facile arguire con precisione in quali epoche ebbero corso siffatte monete, poichè essi sono discordi, ed i passi che si riferiscono alla moneta, sono stati più volte citati in appoggio di tesi disparate. Vi è però un documento al quale possiamo prestar fede, ed è la legge delle 12 tavole, pubblicata dai Decemviri che entrarono in carica nell’anno di Roma 304 (450 av. C), colla quale fu stabilito che le contribuzioni e le multe fossero pagate in moneta metallica, anzichè in natura, calcolando dieci assi una pecora e cento un bue.
La tradizione romana faceva Numa autore dell’aes rude poichè alle due corporazioni di artefici che lavoravano l’oro e l’argento, egli ne aggiunse una terza dei fabbri del rame, e riteneva Servio Tullio autore dell’aes signatum. Abbiam visto che l’aes grave fu introdotto dai Decemviri, e non vi sono finora argomenti che combattano seriamente queste tre epoche4.
Se però possiamo prendere come base di partenza l’anno 450 av. C. per l’introduzione in Roma dell’aes grave, bisogna necessariamente riportarne l’introduzione in Etruria ad un’epoca alquanto anteriore, poichè non si può a meno di riconoscere che l’aes grave di Tarquinia e quello ovale rinvenuto a Vulci, siano più antichi di quello romano.
Non sembrerà dunque esagerazione l’affermare che gli Etruschi incominciarono ad usarlo al principio del quinto secolo e che la sua origine è appunto da ricercarsi nel cuore dell’Etruria da dove si sarebbe poi diffuso fra i popoli vicini.
In Sicilia, prima della fondazione delle colonie greche, fu pure usato il bronzo in natura per gli scambî commerciali, ma i siculi passarono senza transizioni dall’aes rude alla moneta coniata introdotta dai Greci5, per cui l’aes rude non vi può esser rimasto in uso dopo il secolo settimo av. C.
Nell’alta Italia si è rinvenuto l’aes rude e l’aes signatum a Marzabotto (Bologna), a Quingento (Parma), a Servirola (Reggio), a Levizzano (Modena) ed a Mantova; l’aes grave solo a Bologna. Gli Etruschi che avevano introdotto in quelle regioni l’aes rude e l’aes signaturm, dovettero ritirarsi dinnanzi ai Galli invadenti e non ebbero campo di estendervi anche l’uso dell’aes grave.
L’aes rude delle tombe etrusche di Villanova e di Marzabotto si può riportare al VII secolo, l’aes signatum al VI e l’aes grave della Certosa di Bologna al V secolo av. C. Bologna cadde in potere dei Galli nel 396 av. C. e potè conoscere l’aes grave, il quale non si trova più oltre per la ragione già detta dell’invasione gallica.
In Sardegna l’aes rude, che si ritrova anche oggi in abbondanza, fu sostituito dalla moneta coniata introdottavi dopo la conquista cartaginese dell’isola, avvenuta verso il 260 di Roma (494 av. C).
Un fatto notevole è quello che le monete dell’aes grave dei vari popoli dell’Italia centrale, sono assai più rare di quelle romane, ed è naturale: dopo che Roma ebbe esteso il suo dominio sulle altre città, non permise certo che continuassero ad emettere moneta in nome proprio. Ciò dimostra che l’aes grave era in uso in Italia assai prima dell’egemonia di Roma, poichè non si può ammettere che le città conquistate abbiano cominciato ad emettere moneta propria, appunto quando avevano perduta la loro autonomia.
Ne è una prova il ripostiglio di assi rinvenuto a Cerveteri, consistente in 1578 pezzi tutti romani. Cere riconobbe la supremazia di Roma nell’anno 403 (351 av. C.) e dovette adottarne la moneta.
Inoltre l’asse romano fu successivamente ridotto, in seguito a contingenze politiche e ad urgenti bisogni dell’Erario, da una libra a mezza libra, poi a quattro oncie a tre, a due, a una e finalmente a mezz’oncia, conservandogli sempre lo stesso valore nominale.
Ora, la maggior parte delle serie di aes grave appartenenti al Lazio, all’Etruria, alla Sabina, all’Umbria, al Piceno, ecc. non subirono alcuna riduzione perchè le zecche che le emettevano furono chiuse prima che avessero tempo o si verificasse il bisogno di effettuarle. Una prima riduzione l’ebbero soltanto le monete di Todi, di Venosa e di Luceria, ma la prima tenne aperta più a lungo la propria zecca forse per una speciale concessione di Roma, e le seconde furono occupate dai Romani più tardi, quando la riduzione dell’asse era già avvenuta.
Dai fatti e dalle date citate si rileva che le vicende della moneta seguono quelle della storia, e colla storia si spiega la presenza o la mancanza della moneta, o di alcune specie della moneta, nelle varie regioni, e se ne determinano le cause.
La tradizione romana sulla moneta è confortata all’evidenza dai fatti storici, ed una volta ammesso che i popoli italici abbiano cominciato ad adoperare il metallo per gli scambi prima del VII secolo av. C., bisogna riconoscere che questo fatto non ha alcuna relazione colla invenzione della moneta coniata nella Lidia, la quale non avvenne certamente prima del VII secolo.
Ma il documento più sicuro, più autentico dell’origine indigena della moneta italiana, è rimasto nella lingua. I vocaboli più antichi, come pecunia, da pecus (bestiame), applicato al metallo perchè questo sostituì il bestiame nelle contrattazioni, e quello di aes (bronzo, rame) dato alla prima moneta, sono indubbiamente latini; da aes, genitivo aeris derivarono i seguenti: aerarium (erario), luogo dove si conservava il metallo pubblico, aestimatio, aestimo, cioè valutazione delle cose a misura di rame. La parola denarius ebbe origine dalla prima moneta di argento romana, alla quale fu dato il valore di dieci assi (denos aeris, dieci bronzi).
Il vocabolo moneta fu dato al denaro, perchè la zecca romana era posta nel tempio di Giunone Moneta sul Campidoglio, ed il soprannome di Moneta (avvertitrice) fu dato a Giunone, perchè il suo tempio fu costruito sull’area della casa di Manlio, il quale, sentendo i Galli salire all’assalto del Campidoglio, ne aveva avvertito le guardie.
Altri vocaboli presero un significato proprio dall’uso primitivo di pesare il metallo grezzo, per scambiarlo con altri oggetti, ed anche questi vocaboli sono di origine italica: expensa, stipendium, dispendium, dispensatores, ecc.
Vi è controversia sulla parola nummo, che alcuni vogliono derivata dal greco νομος che significa legge; altri accettano invece la versione di Svetonio, il quale, secondo quanto riporta Suida, raccontava che il re Numa avrebbe introdotte le monete in Roma e che dal suo nome le avrebbe chiamate nummi.
È vero che Dario chiamò darica la moneta da lui emessa, e Filippo chiamò filippi le proprie, e che in tempi moderni abbiamo avuto i carlini, i luigi, i francesconi, i napoleoni, ma abbiamo visto altresì che i Latini chiamarono pecunia ed aes la loro prima moneta e non nummo. Pare che i Tarantini siano stati i primi a chiamare nummo la loro moneta.
In Grecia le più antiche monete furono chiamate stateri, dramme, oboli, e nessuno di questi vocaboli entrò nell’uso della lingua latina. E neppure nella Grecia, propriamente detta, fu mai rinvenuta alcuna moneta che somigliasse all’aes rude, all’aes signatum o all’aes grave; le più antiche monete della Grecia e della Lidia sono d’oro o d’argento e impresse col conio.
E dunque senza fondamento l’asserzione del Lenormant che gli Etruschi abbiano copiato l’aes grave dai Greci di Sicilia6.
Lasciamo pure alla Lidia, o alla Grecia, se si vuole, l’onore di avere inventato il conio e di averlo introdotto in Italia, ma non è possibile negare che la moneta italica primitiva sia sorta in modo spontaneo, quasi naturale.
- ↑ Dal Manuale di Numismatica italiana di prossima pubblicazione.
- ↑ P. Marchi, La stipe tributata alle divinità delle acque apollinari di Vicarello. Roma, 1852.
- ↑ Livio, lib. XXVI, cap. XI.
- ↑ Garrucci, Le monete dell’Italia antica, pag. 2 e 14. Roma, 1885.
- ↑ Mommsen, Histoire de la monnaie romaine. Vol. I, pag. 111.
- ↑ F. Lenormant, La monnaie dans l’antiquité, Vol. I, pag. 139.