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- CAPITOLO SECONDO
1
Dammi perdono, priegoti, Cupidine,
s’or ti biasmai con la tua madre Venere:
so ben che mai, senza vostra libidine,
possibile non è ch’uomo s’ingenere.
Tu sei degno d’onor e di formidine;
ché senza te saria giá ’l mondo in cenere;
onde, talor s’io straparlassi, tollera;
la colpa non è mia, ma de la collera.
2
Anzi ringrazio te, gentil gargione,
che m’hai fatto baron di gran nomanza:
ho sempre un centinaio di persone,
boni da stocco ed ottimi da lanza;
giammai non mi si parton dal gallone,
e fra lor grido al cielo: «Franza, Franza!»;
la qual, senza passar tant’alpe o piano,
con un trattato presi a Cunniano.
3
Godea ’l spagnuolo, che sotto Pavia
fatt’ha prigion di Franza sí alto roy;
ed io nel grembo a Caritunga mia
ho preso tutta Franza per ma foy.
A che voler Italia in sua balía,
passando or Adda or il Tesin ed Oy?
Venite ad me, signores; faciam todos
baron di Franza e cavalier di Rodos.
4
Ma questa corte sempre qui sen stia,
che giura non andarmi mai luntano.
Per me sol un contento si desia,
che ’l cancaro mangiasse il taliano,
il quale, o ricco o povero che sia,
desidra in nostre stanze il tramontano.
Ora torniamo al testo di Turpino;
m’avveggio ben ch’io son fuor di cammino.
5
Levavasi giá ’l sole fuor de l'acque
con un visaggio carco di vin còrso,
quando a Parigi il strepito rinacque
di tante genti per lo gran concorso.
La giostra ch’anti a Berta il re compiacque
si mette in punto; chi ’l staffil, chi ’l morso,
chi concia ’l barbozzale al suo destriero
per non deporre il culo sul sentiero.
6
Di fronde, erbette e floride corone
piena è la terra, e pare ch’ivi pasca
Titiro la sua greggia; ma Carlone,
acciò che gara alcuna non vi nasca,
ne’ patti fa cotal condizione:
«Chi giú d’arzone nel bagordo casca,
non fia capace piú del pregio posto;
ma de la lizza fuor uscisca tosto».
7
Scemano li giostranti con tal gioco,
fin che vi resti l’ultimo vittore.
Quivi non giostra sguattaro né coco,
ma re, duchi, marchesi ed altr’onore:
lo premio è un scudo d’or, che ’n alto loco
pende con un rubin di tal splendore,
ch’ove non può del sol entrar il lume,
esso del sol, ardendo, fa ’l costume.
8
Sentesi giá ’l rumor al ciel diverso
di trombe e gridi d’uomini e cavalli:
era ne l’aere un tempo chiaro e terso
né un picciol fumo sorge da le valli:
chi qua, chi lá, chi al lungo, chi al traverso
urta ’l cavallo, affrena, stringe e dálli;
chi su, chi giú, chi va, chi vien, chi sede;
chi sí, chi no, per la gran calca vede.
9
Re Carlo in mezzo a cento capi d’oro
fermato s’era in logo piú eminente;
ciascun lá mira e vede il gran tesoro
che ’ntorno lui splendea sí riccamente:
Minerva non giammai sí bel lavoro
trapunse di sua mano a suo parente,
quant’era il manto, ch’egli in cotal giorno
aver fra tanti regi volse intorno.
10
Ma pria che al ver contrasto e ragionevole
si vegna, odi, lettor, ché vi è da ridere;
perché una trama occulta e sollacievole
fra i duodici re Carlo fa dividere.
Ecco improvvisa venne una festevole
vecchiarda, che comincia forte a stridere
con un suo corno ed a caval d’un’asina,
parendo che venisse da la masina.
11
Tacquer le trombe tutte, e la bertuccia
(ché proprio di bertuccia apparve in atto)
soffia nel corno quanto può la buccia,
rendendo un sono tutto contraffatto.
Ma Berta a tal novella si corruccia,
presaga giá del torto che l’è fatto;
e vede che ’l Danese nel steccato
era s’un mulo magro e vecchio entrato.
12
S’un mulo magro, vecchio e zoppo ancora
entrat’era il Danese ne la lizza;
toccalo a’ fianchi, e quello in men d’un’ora
si volge ratto al freno, salta e guizza.
L’elmo di zucca, l’armi son di stora,
la sopravvesta inversa di pellizza;
e per cimier ha in capo una cornacchia,
ch’ivi legata si dimena e gracchia.
13
Driccia un forcone su la coscia, e vuole
che tal sua lanza il scudo d’or guadagne.
Ecco su una cavalla, che si duole
da’ quattro piedi ed ha cento magagne,
Morando qual limaca par che vole
coperto a fine piastre di lasagne,
e porta una pignatta per elmetto,
la qual si fa cimier del suo cazzetto.
14
Abbassa una cannuccia, e fassi targa
contra ’l Danese con un calderone;
sprona la bestia, e vien gridando: — Guarda! —
Danese volge a lui col suo forcone;
dannosi un’aspra botta, benché tarda
fusse per spazio di quattr’ore bone;
fra ’l qual tempo Rampallo vi vien anco,
di speronar un asinel giá stanco:
15
un asinel poledro che vint’anni
stentato avea de frati in un convento.
Pensate quante pene, quanti danni
ivi sofferse l’animal scontento!
Al fin ruppe ’l capestro e fuor d’affanni
calzi e corregge trette piú di cento;
e, scampandone, fe’ da buon ladrone:
rubò a gli frati la discrezione.
16
Credete a me, ch’un’oncia, ch’una mica
non vi lasciò di quella il gran dottore!
Rampallo, che gli è addosso, s’affatica
urtar innanzi un tanto corridore.
Egli ch’in mente avea giá la rubrica
del breviario tutto drento e fore,
sí lieto andava in simil esercizio,
come gli frati in coro a dir l’uffizio:
17
abbassa il capo e levasi a la coda
per porre a terra il peso inconsueto;
sprona Rampallo, ed egli par che goda
andar un passo innanzi e quattro adrieto;
cade il barone su la terra soda;
scampa, gridando, l’animal discreto;
ride la turba; e il cavallier, levato,
corregli drieto ed anco l’ha pigliato.
18
Senza toccar la staffa, che non v’era,
salta quel paladino in cima al basto;
arme non have fuor ch’una pancera
di ferro tutta rugginoso e guasto,
ma di tal tempra, ma di tal minera,
ch’al becco d’un moscon faria contrasto:
è l’elmo poi sí di splendor adorno,
che ’l sol nol vide mai se non quel giorno.
19
Un baston di pollaio è la sua lanza,
di perle tutta ornata e di medaglie;
ponela in resta al dritto de la panza
d’uno ch’incontra vien coperto a maglie.
Era costui Ginamo di Maganza,
ch’armi non volse giá di carte o paglie,
ma sí di piastre; e per celarsi alquanto,
di canape vestette sol un manto;
20
ed un zanetto ancora, che di foco
esser parea, lo traditor cavalca.
Contra Rampallo il stringe, e mancò poco
che, mentre addosso a lui troppo si calca,
quell’indiscreto non guastasse il gioco,
e con un trave quasi lo scavalca,
perché ’l poltrone, per far ben del saggio,
venne a la giostra con quel gran vantaggio.
21
Tal atto spiacque a tutti; ma re Carlo
tanto piú piacque a l’atto ch’or succede:
manda fuor del steccato a congedarlo.
Egli, scornato, a la sua tenda riede:
gli scherni de la turba non vi parlo;
ch’ognun gli chiocca drieto e man e piede;
sol Maganzesi rodon la catena,
ma Chiaramonte n’ha letizia piena.
22
Frattanto Amon e ’l suo fratel Ottone
eran entrati insieme a son di corno;
parean che ducent’anni col carbone
servito avesser di Vulcano al forno;
l’un Satanasso, e l’altro par Plutone,
tant’alte corna e fiamme hanno d’intorno;
ed a due vacche han posto briglia e sella;
questo ha un lavezzo, e quello una padella.
23
Ciascun il suo forcone mette in resta
e move al corso quelle bestie pegre.
Ecco Bovo, e Raineri non s’arresta
per tema c’haggia de le facce negre:
portan due nasse da pescar, in testa,
ma indosso di castron le pelli integre:
le lanze son due scope in un bastone;
le targhe, una barilla ed un cestone.
24
Cavalcan senza sella due stalloni
rognosi e pronti a far de le sue zarde,
grassi cosí, che a gli ossi de’ galloni
hanno appiccato, come fusser barde,
duo gran «bottazzi», ovver dirò «fiasconi»,
acciò le genti tosche e le lombarde
intendali quel ch’io parlo; e s’io vaneggio,
che maraviglia? sentirete peggio.
25
Lascio di dirvi e’ colpi che si dánno
con quelle lanze sue non mai piú usate:
tal è la gara e ’l gioco lor, che fanno
rumper di risa il petto a le brigate:
dando e togliendo pel steccato vanno
e pugni e calzi e bone bastonate,
non sí però, che alcun mai si turbasse
né che indiscretamente altrui pestasse.
26
Frattanto Salomone con gran fretta
vien con un perticon da filo in resta;
cavalca di galoppo una muletta,
ed ha cusito a l’elmo e sopravvesta
gonfie vesciche, ed una assai mal netta
bragazza da bifolco tiene in testa,
ed una conca per sua targa porta,
ed al gallon, di legno una gran storta.
27
Ma per servar Ivon la vecchia usanza,
s’un carro a gran stridor di rote viene;
lo stimulo da buoi porta per lanza,
e la corba del fien per scudo tiene;
dritto non sta, ma con la testa avanza
for de le scale appena; e per star bene,
agiatamente siede su la paglia
quel baron forte e cavallier di vaglia.
28
Un bove solo il tira infermo e lento,
e Namo fa l’ufficio de l’auriga:
pensate mò, lettori, quanto stento
era di lui condur quella quadriga!
Or giunti al fin e dentro il torniamento
a tôrre e dar ad altri la castiga,
giá Namo di menar non si sparagna
la spada no, ma il capo e le calcagna.
29
Vedestú mai qualche poltron villano
(«poltron» s’appella di suo proprio nome)
discalzo cavalcar il suo germano,
«l’asino» dico, a mezzo inverno, come
spesso mena le gambe, come insano,
acciò di borea il spirito nol dome?
Cosi Namo facea cazzando il bove,
che ad ogni cento urtate il passo move.
30
Or son meschiati insieme que’ baroni
su quelli animaluzzi magri e vecchi;
pignatte e pignattelle e calderoni,
padelle, zucche, barilotti e secchi
fan gran rumore, mentre co’ bastoni
si dan buone derrate su gli orecchi,
orecchi di destrieri, intendi bene,
scherzo; ché doglia tra lor non conviene.
31
Otton s’era affrontato col Danese;
quello sul mulo, e questo su la vacca:
gettan lor aste e vengon a le prese,
ed abbracciati ognun di lor s’attacca:
Morando ch’indi passa, tosto prese
la coda al mulo, e col tirar si stacca;
Danese da le man d’Otton si snoda,
che for del cul si sente andar la coda;
32
volge la briglia per girar l’armento,
ma tanto fa se quello fusse un muro.
Morando tien tirato, e tal tormento
sente il mulaccio, che, per star sicuro
di non perder la coda, e pioggia e vento
spruzzò dal buco, e d’un impiastro puro
unse talmente il volto a chi ’l tenea
ch’egli non uomo, anzi merda parea.
33
Lascia la coda il buon Morando presto
— Heu, quia incolatus sum — gridando forte.
Amon ch’era de li altri ’l piú rubesto,
su l’altra vacca giunge quivi a sorte;
a Bovo tolto avea la scopa e ’l cesto,
e quasi al suo stallon diede la morte;
ma non vede Rainer, che per la coda
tien anco la sua vacca e via la snoda.
34
Spiccolla via di netto in un sol crollo
con la facilitá ch’ad un pollastro
smembrar vidi talor dal busto il collo;
onde ’l tapin senza garbin e mastro
andò pur giú da banda, e riversollo
con seco il suo destrier come un pilastro:
né anco Rainer per quel tirar con forza
puote star saldo, ma giú cadde ad orza.
35
La coda c’have in man saltella e guizza,
come sòl far una luserta monca.
Eccoti Bovo al lungo de la lizza
corre, c’ha tolto a Salomon la conca;
quello il persegue e finge averne stizza,
e tanto or slunga il passo or la via tronca,
ch’al fin lo giunse dove Ivon gran briga
prende sul carro col suo istesso auriga.
36
Ma Namo per combatter faccia a faccia,
vòlto al contrario, fa di coda briglia:
Ivon di paglia grande copia abbraccia,
e tutto in capo al buon Namo scompiglia;
egli, sommerso, non sa che si faccia,
crollasi tutto, ed ha la barba e ciglia,
la bocca, il naso pien di busche e polve,
ed in un fascio a terra si provolve.
37
Re Salomone, quando Namo vide
sepolto in un pagliaio andare a terra
— Non dubitar, baron! — gridando ride,
e con Ivon comincia un’aspra guerra;
quello sul carro al basso giú si asside,
e pugni e calzi, e qua e lá disserra;
ché Bovo ancor intorno lo lavora,
stigando questo a poppa e quel a prora.
38
Morando, Otton, Danese con Rampallo
son attaccati stretti in una calca,
e van facendo intorno un strano ballo,
mentr’uno addosso a l’altro piú si calca;
ciascun, per non tomar giú da cavallo,
col cul al basto, quanto pò, cavalca;
e presi s’han per piedi, mani e braccia,
e scavalcarsi insieme ognun procaccia.
39
Rampal si volge del Danese al mulo,
che co’ denti gli tiene l’asinello;
fallo lasciar, e l’asinetto, su lo
girar di testa, fece un atto bello:
urtò del naso e colse in mezzo al culo
de la cavalla, e sente odor in quello,
odor grato a’ stalloni, e mentre il lambe
trovasi aver, di quattro, cinque gambe.
40
Allor con la sua voce assai sonora
quel musico gentil chiamò mercede,
poi, dritto per giostrar anch’esso, explora
quella targa investir ch’anti si vede,
sta su duo piedi; ma Rampallo allora,
spietato e duro, tosto gli provvede,
salta del basto e d’un legnaio in colmo
quanto puote portar carcollo d’olmo.
41
E ’l mastro di cappella, ch’avea cura
accomodar la voce a l'istrumento,
non stette saldo a quella battitura,
come al martello non sta falso argento;
la chiave di be lungo forte e dura,
fatta be molle, si ritrasse drento,
sí come la limaca far si sòle
quando s’incontra a chi beccar la vole.
42
La risa non vi narro de le donne,
che ciò, fingendo non guardar, vedeano,
e chi cercato ben sotto le gonne
allor avesse, forse che rideano
con altra bocca fra le due colonne,
ove molte formiche discorreano
per brama di mangiar non pane o vino,
ma sol di fra Bernardo il scappuccino.
43
Berta sol è colei che mai non ride;
anzi lo riso d’altri piú l’offende;
tace di for, ma drento smania e stride,
ché l’ira quinci, amor quindi l’incende.
Carlo, che di luntano star la vide
cosí sospesa, gran piacer ne prende;
ella s’accorge e via si tolse presta,
fingendo dol di madre o pur di testa.
44
Fugge a la ciambra; e, come dá il costume
d’amanti, al letto buttasi con fretta;
ben si dimostra al guardo, al torbo lume,
ch’una man fredda al cor le dá gran stretta;
e se di pianto al fine un largo fiume
non v’irrompea, l’ardor de la saetta
l’arebbe incesa come far si sòle
d’un legno che cent’anni cocque il sole.
45
Levasi al fine, e un paggio di dieci anni
chiama, ch’un cherubin non è piú bello;
tutt’era adorno in strafoggiati panni,
d’un capriolo piú leggiadro e snello;
chiedelo Berta, vòlta in grandi affanni,
e comanda dicendo: — Or va’, dongello,
va’ ratto ratto in piazza e, tra le squadre
cercando, fa’ che vegna a me tuo padre. —
46
Non ti pensar che ’l fante le risponda,
anzi qual presto gatto giú descende.
Acciò chi sia ’l citello non s’asconda,
dirollo, poiché ’l senso qui vi pende:
quest’angioletto da la chioma bionda,
che ’n grembo a Vener qual Adone splende,
Ruggier da Risa nomasi, ch’è figlio
del pro’ Rampallo, bianco quant’un giglio.
47
Qual giglio, qual ligustro è ’l suo candore,
co gli occhi negri ed ha capo romano,
di sguardo lieto, d’animoso core,
di ben quadrato petto, gamba e mano.
Taccio la sua destrezza, il suo valore;
grato a ciascun, piú grato a Carlo Mano,
che da Rampai suo padre il volse in dono
e quel ornò del brando e d’aureo sprono.
48
Non cessa dunque mai, non mai s’attriga,
in fin che trova il padre al stolo drento.
Esso cogli altri uscito era di briga,
ch’eran caduti in quel torniamento,
quando vide ’l figliuolo, che s’intriga
nel folto dei cavai senza spavento;
pensi qualunque padre se gran pena
cacciògli ’l sangue al cor for d’ogni vena!
49
Scridalo forte ed al tornar l’affretta,
come ’l severo padre al figlio sòle;
egli, securo d’arme non sospetta,
taglia del padre l’ultime parole:
— Venite, padre — dice, — che v’aspetta
madonna Berta che parlar vi vole; —
poscia si volge e scampa ritornando;
Rampallo il segue a piede, sol col brando.
50
Verso il palazzo vola quel barone,
e con Ruggier fu innanzi a quella diva;
la qual, vedendol, presta in tal sermone
proruppe, in volto neghittosa e schiva:
— O belle prove che vostre persone
san far in giostre! voglio che si scriva
cotesti vostri fatti ne li annali
di Franza a quelli de’ roman eguali!
51
Chi v’ha sí ben instrutti? dite: quale
fu sí bon vostro mastro di brocchero?
Dricciar potrassi un carro triunfale
a gli alti capitan del nostro impero!
O franchi cavallier, che con le scale
su gli asini si balzan di ligiero,
che benedetta sia la grazia vostra,
poi che m’ornati d’una simil giostra!
52
Qual maraviglia poscia, se l’ispani
vi dicon «bottaglion, baghe di vino»!
voi, di bravar sol boni, gli altri strani
chiamate «allé, villen, paglie, cuchino»;
quand’è poi tempo di menar le mani,
sète peggior del sesso feminino,
e pe ’l vostro supé ben spesso accade,
ch’Italia vi ritien nel fil di spade. —
53
Rampallo ch’allor vede per grand’ira
la donna dir quel che non sa che dica,
sorride alquanto e ’n parte si ritira
ove d’udirla pone ogni fatica,
finché smaltisca quella voglia dira,
che la memoria ed il parlar intrica;
ma, racquetato poi tal vento e pioggia,
egli parlando piano a lei s’appoggia:
54
— Madonna, vi ringrazio ch’io sia tale,
cui dir si poscia ciò che dir vi piace;
v’accerto ben che, se ’l sia ben o male
quel che ’n giostra intervien, per me si tace
(anch’io giostrai su quel vil animale
per non esser fra gli altri il contumace),
quando che chiar vi faccio e manifesto
l’imperator esser cagion di questo.
55
Ver è, perché ciò faccia, dir non so,
né for che Carlo altra persona il sa;
quod autem habeo tantum hoc tibi do,
ch’ un vero mio pensier a me anco ’l dá;
vero anzi no, ma dubbio, dirlo vo’
perché la cosa molto queta va:
lo re per voi questo tal scherzo fe’;
per mal non giá, ché v’ama quanto sé.
56
Sí come avviene, par ch’ognun s’appaghi
di far l’amico scorocciarsi alquanto;
ma non gridate piú, ché da imbriaghi
cotal giostra non dé’ proceder tanto;
sará chi ’l scotto innanzi sera paghi,
se non me ’nganno, e poi darassi vanto
(quel che si vanta sempre lo spagnolo),
aver vittoria un tratto senza duolo.
57
Se noi «baghe di vino» e «bottaglioni»
chiamano, dican questo a quei di Franza
perché di Carlo i dodeci baroni
sono, for che la stirpe di Maganza,
scesi da Roma, da que’ Scipioni,
Corneli, Fabi, o d’altra nominanza,
ché Cesare, espugnando in questa parte,
lasciovvi assai del popolo di Marte;
58
e di cotesto poscio farvi fede
col testimon del vescovo Turpino,
che un libro vecchio e autentico possede,
lo qual Silvestro scrisse a Costantino,
ove la nostra origine si vede:
Mongrana, Chiaramonte e di Pipino.
Non siamo ispani, franchi né alemani,
non arabeschi, no; ma taliani.
59
Italia bella, Italia, fior del mondo,
è patria nostra in monte ed in campagna,
Italia forte arnese che, secondo
si legge, ha spesso visto le calcagna
de l’inimici, quando a tondo a tondo
ebbe talor tedeschi, Franza e Spagna;
ché se non fusser le gran parti in quella,
dominarebbe il mondo, Italia bella. —
60
Berta, ch’ode il germano esser cagione
di quel tal scherzo d’asini da basto,
ma che giostrar si dé’ poi con ragione,
non fece di parole altro contrasto,
ma chiede sol perché non v’è Milone
armato de villani al vero pasto,
perché, se sei villan e vòi star bene,
recipe un pezzo d’olmo su le schiene.
61
Rampallo disse a lei: — Mi maraviglio,
madonna, assai di questo che non venne;
or or m’avvento a lui perché consiglio
pigliar volemo insieme del solenne
contrasto ch’esser deve: or stanne, figlio,
qui con madonna — e detto ciò, le penne
spiegando a’ piedi, l’alte scale scende
ed a la stanza di Milon si stende.
62
Ma ritorniamo al rustico certame
de’ paladini fatti mulattieri;
or vòto il carro aveva Ivon di strame,
e d’altro schermo gli era giá mestieri,
e col suo vecchio bove fea letame.
E mentre co le spalle i cavallieri
contendon lui col carro traboccare,
si corse al cul del bove a riparare.
63
Ivi suppose ambo le man con fretta:
pensate qual frittada vi raccolse,
e fece un, non giá d’acqua benedetta,
asperges me, che Bovo proprio accolse
del volto in mezzo; e poscia qual saetta
pien anco i pugni di quel puzzo tolse,
e così dritto il bon arcier il scocca,
ch’a Salomon stoppò gli occhi e la bocca.
64
Elli, abbattuti piú da la vergogna,
fuggon for del steccato immantinente;
Carlo gli fa, per piú scherno e vergogna,
sbatter gli piedi e man drieto la gente.
Lo mulo del Danese, ch’in Bologna,
anzi a Parigi stato era studente,
ficca la testa in giú da valentuomo,
e col cul alto fecevi un bel tomo.
65
Fecevi un tomo tale, che ’l Danese
una stretta da mulo ebbe a la panza;
Morando con Otton venne a le prese,
ed ambo di cascar stanno in balanza.
Ivon, ch’era sul carro, qui comprese
ch’a la vittoria poco tempo avanza:
caccia lo bove e tanto il driccia e punge,
ch’ove son abbracciati al fin si giunge;
66
e qui con quella soga, ch’al gran trave
noda il bifolco e stringe paglie o feno,
acconcia un laccio, e poi ch’acconcio l’have
lor osservando va, né piú né meno
ch’altrui lusingha e move il piè soave,
s’un fuggito caval segue col freno;
fin ch’a l’orecchia o altrove dá di mano,
torna la briglia, e poi gli è duro e strano.
67
Cosí Ivon mentre a fatica move
il carro, s’accostava a li baroni,
poi, visto il tratto, gitta il groppo, e dove
segnato avea, la corda su’ galloni
cadendo tira e quei legati smove,
traendoli sul carro da gli arzoni;
come talor si vede stanco e lasso
lo villanel tirar di legna un fasso.
68
Ben vi so dir che gli sudò la braga,
nanti ch’avesse il carro su le scale;
e se di lor ognun stretto non caga,
convien che for coreggie almanco exale.
Non mai veduta fu cosa piú vaga,
ché gli ha legato sí le braccia e l’ale,
che non si moven piú, se fusser zocchi,
e se si moven parte, moven gli occhi.
69
Or qui de trombe piú di cento intorno
comincia il tararan con gran rumore;
vittoria ciascun grida d’ogn’intorno;
la vecchia de la turba salta fore,
e nuda come nacque col suo corno
or sona forte, or grida in tal tenore:
— Ivone! viva Ivon! viva Bordella,
ch’empie di croste e voda la scarsella! —
70
Poi spicca un salto e balzasi sul bove
quella vacca leggiadra benché vecchia,
e quinci il carro triunfante smove,
tanto con le calcagna il bue puntecchia!
E ciascuno di Ivon viste le prove,
buttargli fior e frondi s’apparecchia;
e cosí stando de prigion in mezzo,
uscí for del steccato a pezzo a pezzo.
71
Dunque ti dico, o savio e spuda senno
ch’esser ti pare un potta modenese,
che qualche fiata le persone denno,
tutto che nobil sian, far del cortese.
Ecco del suo signore che a un sol cenno,
han fatto Bovo, Otton, Namo, Danese;
e tu ti sdegni, rustico villano,
aver se non il dio de gli orti in mano?