Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo secondo | Capitolo quarto | ► |
- CAPITOLO TERZO
1
Bramo la coda aver del rubicondo,
c’heri nel fin del canto dissi a caso;
l'appiccarei di santa Zita al tondo
acciò ch’ad ambi e volti avesse il naso.
Quanto so ben che, s’io pescassi a fondo
di questi santi ipocriti nel vaso,
vi trovarei (che ’l ciel tutti li perda!)
non muschio esser il suo, ma pura merda!
2
Tu mi dirai, lettor, ch’io sia scorretto,
e che ’n parlar, anzi cagar, mi slargo;
rispondo che se ’l buco cosí stretto
stato fusse d’alcun, come era largo,
né Giuvenal né Persio avrebber detto
le sporche mende altrui cogli occhi d’Argo.
Perché, come potrassi dir la causa
di qualche puzzo e non ti render nausa?
3
Vòi tu saper qual sia la cosa, che
cercando non ti curi trovar giá?
quest’ è: quando a l’oscuro non si ve’
che un soldo a te caduto è, qua e lá
or cerchi con la mano ed or col pè
fin che la mano in qualche stronzo va:
tosto la odori, e trovi quel che no
trovar volevi, e il tuo cercar fe’ ciò.
4
Ch’io voglia dir su questo, ben contare
potrei, ma uscito m’è for di cervello:
tal atto spesso avviene in predicare
del libro arbitrio a qualche fraticello;
tu l’odi su le spalle a Dio montare
e cacciar per un ago il suo gambello,
ma uscita non ha poi né sa trovarla:
chi ascolta poco intende, e men chi parla.
5
Torniamo dunque al testo, ché la torta
mi sente piú di stizzo che di lardo;
ma voglio qui pigliar la via piú corta
per non giunger Orlando troppo tardo.
Quivi Turpin la storia sua trasporta
in Africa, scrivendo del gagliardo
Almonte primo figlio d’Agolante,
d’animo, forza e di beltá prestante,
6
le gran prove che fece e la soprana
virtú ch’ai mondo sparse per avere
d’Ettorre il nobil brando, Durindana,
e come mai noi puotte possedere,
fin che non descendesse ne la tana
d’un mago, Atlante, il quale con minere
di piú metalli e col suo Farfarello
fe’ in quattro mesi un incantato anello:
7
quell’ incantato anello, cui la figlia
di Galafrone molto tempo dopo
ebbe con seco a grande maraviglia,
celandosi d’altrui quand’era duopo,
e ruppe ogni altro incanto, ché vermiglia
v’era una pietra dal sino etiopo.
Poi si ritorna il mio dottor, seguendo
di Berta dir, a cui mie rime i’ spendo.
8
Ella sí per amor e sí perch’era
donna, come son l’altre, impaziente,
per una sua fidata messaggiera
a cui scoperto avea la fiamma ardente,
manda pel saggio duca di Bavera,
e seco ragionando il fe’ repente
portar al suo fratello un’ambasciata,
alquanto d’un sdegnetto avvelenata.
9
Sorrise Carlo senza altra risposta.
Tacendo assai risponde un gran signore!
Ei quando annebbia gli occhi, senza sosta
scampo nel porto ché ’l mar fa rumore;
ma se ’l guardo ridente miro: — Accosta,
accostati! — mi dico, ché del cuore
l’occhio sempr’è messaggio o lieto o torbo;
e questo imprende ognun, fora ch’un orbo.
10
Adunque, sazio del giostrar mendace,
bandisce, rinnovando i patti, il vero:
ma per servar tra soi baroni pace,
anco per nova festa e gioco intero
(come signor che ’l popol suo compiace),
fa bando ch’ogni principe e guerriero
non porti a lato spada, stocco o maccia,
ma con le lanze sol guerra si faccia.
11
Questa fu la cagion, che due figliole
avea Namo, Armelina e Beatrice;
s’ambe fusser al mondo belle sole,
ciascun le vole e meritarle dice.
Danese ebbe la prima; l’altra vole
Amon, se può; ma l’ira emulatrice
dei Maganzesi tenta Carlo e Namo
che l’abbia il conte traditor Ginamo.
12
L’editto dunque fu a ciascuno grato,
sol ai signori di Maganza spiacque;
ad ogni scelleraggine e peccato
questa canaglia maladetta nacque;
vorria veder Carlo e gente e stato
sommerso in terra o ’n le marittime acque:
gli capi d’esti cani sí malvagi
è Manfredon, Ginamo e Bertolagi.
13
Buttò Ginamo il brando via con sdegno,
ch’avvelenato avea lo ribaldone;
fra loro congiurati era disegno
ch’egli ferisca cautamente Amone,
tenendosi lor certi ch’ad un segno
sol di stoccata morirá ’l barone,
e che sol data sia la colpa al brando,
pur ch’abbian poi Beatrice al suo comando.
14
Scingesi ognun la spada con gran fretta,
per non opporsi al bando imperiale.
Ecco ’l Danese al sono di trombetta
con l’asta dritta attende chi l’assale.
Stava una torma de spagnoli stretta,
de’ quali Falsiron è caporale,
ed anco era concorde con Maganza
di scavalcar i paladin di Franza.
15
Elli giá non sapean tal trama ordita,
di che contra Danese válli Ivone;
Morando similmente fa partita
dal luogo suo correndo in ver’ Bovone;
Bovone contra lui, ché ognun s’aita
mandar il suo contrario al sabbione:
ma stetter fermi questi quattro in sella,
ed iron l'aste rotte a la mia stella.
16
La stella di Saturno o sia pianeta
è quella che mi fa d’uomo chimera,
lo qual non ebbi mai né avrò mai quieta
la mente, in fantasie mattin e sera:
ciò dico, perché officio è del poeta
giovar e dilettar con tal maniera
di stile, che ’l lettore non s’attedia;
e ciò fa Dante ne la sua Comedia.
17
Quel Dante, sai, lo qual «Omer toscano»
appellar deggio sempre, come ancora
Virgilio è detto «Omero mantovano»,
per cui la patria mia tanto s’onora;
e chi ’l Petrarca fa di lui soprano,
ne l’arte matematica lavora,
ché Dante vola piú alto, e questo dico
col testimonio di Giovanni Pico.
18
Lo quale disse ch’ambi hanno l’onore,
questo di senso e quello di parole:
vero è che quant’al frutto cede il fiore,
quanto del sol il lume ad esso sole,
cotanto d’ogni stile il bel candore
concede a quella vasta e orrenda mole
d’un alto ingegno, d’un concetto tale,
ch’oltra l’ottavo cerchio spiega l’ale.
19
Tal dico ancor, ch’un Chirie di Iosquino,
sí come assai piú val di tante e tanti
canzone e madrigai del Tamburino
(o «merdagalli» gli appellâr alquanti),
cosí parmi che Dante alto e divino
si lascia po’ le spalle gli altrui canti,
ché quanto piú de l’opre val la fede,
a Beatrice tanto Laura cede.
20
Lettor, sta’ queto e tien piú corto il naso,
lode di Dante non biasman Francesco:
credil a me, se Scoto e san Tomaso
ebber l’onor dinnanzi, ora un tedesco,
o sia di Franza, Erasmo, aperse il vaso,
lo qual de’ frati il stile barbaresco
avea rinchiuso sí che nullo odore
piú si sentia d’alcun primo dottore.
21
Molta scienza i’ trovo d’ogni sorte,
ma pochi bon scrittori e men giudicio;
però col tempo s’aprino le porte
di saper sceglier la virtú dal vicio;
o sante, o benedette, o degne scorte
a conoscer di Cristo il beneficio!
Ma perché forse i’ passo gli confini,
ora torniamo ai quattro paladini.
22
Ma che faranno, che non hanno spate
e sol un breve tronco in man gli resta?
Ecco ’l piacer de gli urti e bastonate,
che dánnosi co’ fusti su la testa;
rideno, ciò vedendo, le brigate,
riden e quelli che si dan la pesta;
frattanto ancora di piú apprezziati
baron insieme sonosi taccati.
23
Vinti franzesi e tanti altri spagnoli
si vanno incontro con lor aste al segno;
diece toscani e cinque romagnuoli
sfideno insieme quindeci del Regno:
tutti ad un tempo questi armati stoli
pongon i colpi dov’è lor disegno:
grand’è ’l polvino, il sòno, il grido, il strepito
del pazzo volgo e de le trombe il crepito.
24
A l'investir de l’aste ecco i tronconi
volan in cielo, e molti sono in terra;
alzan le piante in luogo de’ pennoni,
e giá si vien a la piacevol guerra;
quivi a le pugna giocasi e bastoni,
e questo quello, e quello questo atterra:
non hanno spade, brandi, mazze o stocchi;
qual dá col pugno e qual col deto in gli occhi.
25
Mentre si ride a costo di qualcuno,
trenta Lombardi e trenta Maganzesi
correndo fan di polve l’aer bruno.
Ma di Maganza vinti son distesi
e di quel scorno ride ciascaduno;
sol de’ Lombardi cinque novaresi,
tre bergamaschi, e da Cremona un paro
non ebbero al cascar alcun riparo.
26
L’aperta sua vergogna ebbe a dispetto
Ginamo di Maganza e Bertolagi.
Mossero trenta conti e lí, in conspetto
di Carlo Mano e tanti uomini saggi,
contra Lombardi vanno, che ’n obbietto
non han se non le pugna e bon coraggi.
Spiacque l’atto villano al re Carlone,
ed accennò Rampallo e ’l forte Anione.
27
Rampallo abbassa un legno molto grosso
e verso Bertolagi va rinchiuso;
in mezzo de la faccia l’ha percosso,
e un tomo fagli far col capo in giuso.
Ruppesi d’una spalla il nervo e l’osso;
pensate se ’l mastin restò confuso!
Similemente Anione senza scale
smontar fece Ginamo suo rivale.
28
Ivon, Bovo, Danese con Morando,
spartiti l’un da l’altro, quasi fiacchi,
entroron ne la torma fulminando,
e fanno a questo e quello gli occhi macchi.
Chi vuol di pugni, n’have al suo comando,
se avvien che addosso l’ungie Amon gli attacchi
giá vinti n’ha mandato al sabbione,
empiendo il capo lor di stordigione.
29
Chiunque for di sella si ritrova
mistier gli fa ch’uscisca de la sbarra;
sei paladini giá son a la prova
e con le pugna fan pugna bizzarra;
ma par che a lor addosso il mondo piova,
ché Falsiron è quello che li abbarra;
abbarrali mandando molti in frotta,
poi ch’ebbe ognun di loro l’asta rotta.
30
Qual li percuote adrieto e qual davante,
chi ne le spalle e ch’in le gambe i piglia:
al povero Morando in un istante
del suo cavallo tratta fu la briglia;
Ivone fatto è, d’uomo d’arme, un fante,
e come in terra sia si maraviglia;
Danese n’ha cinquanta che ’l ritiene,
in fin che diede in terra de le rene.
31
Giammai non fu veduto un tal combattere,
per cui si slegua il popolo di ridere:
lá vedi Bovo e piedi e mani sbattere,
sol per puotersi dal rumor dividere:
qua su e lá giú Rampallo tende a battere,
ma la gran calca puotelo conquidere:
Bovo, ch’ognun il tocca, pista e vapola,
in terra ne le cinge al fin s’incapola.
32
Morando, il cui cavallo non ha freno,
di trotto al suo dispetto corre intorno:
vole attrigarlo ed or la man al creno
or a l’orecchia il prende, ma ritorno
non fa la bestia, ch’ad un puoco feno
al fin si resta, e del patron con scorno
prese un boccon la rozza di quel strame,
e insieme mastigando fea letame.
33
Cosí mangiando insieme e stercorando
fa che la risa intrica le trombette:
ei ch’è schernito vennesi turbando
e d’ucciderlo tosto si promette;
pone la destra per cavar il brando,
ma nol ritrova, onde confuso stette.
Stringesi ne le spalle, e for di lizza
esce pien di vergogna e piú di stizza.
34
Giá sol de’ paladini Amon è in sella;
tirano li altri a drieto lor cavalli
col capo chino e rossa la massella,
gridando il volgo intorno: «dálli, dálli!».
Gode Maganza ed il spagnol saltella,
ed anco improverando drieto válli.
Onde re Carlo n’ebbe gran dispetto
e fu per porvi fin senza rispetto.
35
Convien ch’a molti ancora ciò dispiaccia
vedendo tanti contrastar sí pochi.
Amon soletto fassi dar la piaccia
e cangia in un momento cento lochi,
spicca le piastre e sol co l’ungie straccia
e fa col pugno i visi negri e fiochi,
e pur fu giá per far de’ piedi testa,
s’era la lanza di Rainer men presta.
36
Però che, in quello corso che fa un cervo
quand’ha deposto de le corna il peso,
vien ratto col suo fusto di bon nervo
ed un piccardo in terra ebbe disteso;
poi seguil Namo che un spagnol protervo
spinse for di l’arzone a capo peso;
Ottone corre ugual a Salomone:
quel batte un savoin, quest’un vascone.
37
Cotesti quattro in un momento a piede
posero quanti occorsero a cavallo.
Or spera Falsiron che sian eredi
del premio i soi spagnoli senza fallo.
— Io son in porto — disse, — giá mi cedi,
Carlo, l’onore ché ho ridotto il ballo
al voto nostro in scherno de’ franceschi,
ché ognun di lor non sa ciò che si peschi. —
38
Punge ’l destriero e driccia l’asta al ciglio,
e contra a Salomone si disserra
lo qual senz’ulla in mano die’ di piglio
a quattro spanne d’asta ch’era in terra.
Sta saldo a Falsirone, ma ’l periglio
de l’inegual contrasto giú l’atterra.
Con simile vantaggio Balugante
fece ch’al ciel mostrò Rainer le piante.
39
— O belle prove — grida il duca Namo —
che fare sanno i vantator spagnoli!
Riportarete il vittorioso ramo
mercé la frode e li tramati doli. —
Risponde Falsirone: — Or presi a l’amo
avemo pur di Marte li figliuoli!
— Secondo il nome tuo fai! — disse Ottone,
poi ruppeli sul capo il suo bastone.
40
Ma Balugante, c’ha lo fusto integro
percotelo nel fianco e ’n terra il getta;
molt’era il falso Falsiron allegro,
e por di sella Namo studia e affretta.
Amon che per stracchezza omai vien pegro
n’avea cinquanta intorno a grande stretta,
onde qui spiacque l’atto sí villano
a’ parigini, e via piú a Carlo Mano.
41
Lo qual, volgendo l’occhio alto e soperbo,
chiede perché non vi è Milon d’Anglante.
Bovo ch’era vicino disse: — Io serbo
in altro tempo queste ingiurie tante,
senza rispetto per lo giusto verbo;
c’hanno confuso il gioco a te davante.
Or lodano pur te, ch’al tuo comando
non si trovammo al lato mazza o brando. —
42
Mentre Bovo i spagnoli ancider vole
e Carlo provvedervi si dispone,
Rampallo giá di Berta a le parole
entrato era ’l palazzo di Milone.
Corre a la ciambra come correr sòle
l’amico a l’altro, e grida: — Ah vil poltrone!
che fai nel letto? — e mentre il sconcia e tira,
ode ch’acerbamente egli sospira.
43
— Aimè! che veggo? e perché lagni tu?
Non odi tu, Milone? per la fé
che da fanciulli sempre tra noi fu,
chi ti move a dolerti? dillo a me.
Ahi, quanto duro questo parmi! e piú
che di prudenzia egual non hai di te!
Pur quel proverbio al saggio sol si fa:
«Tema di traboccar chiunque sta».
44
— Ben traboccato son — rispose quello —
né sollevarmi piú giammai vi spero.
Deh fato ingiusto e di pietá rubello,
che sí cangiato m’ha di bianco in nero!
Potea Fortuna piú crudel flagello
di questo ritrovarmi, o cavalliero?
Chi mi consiglia dunque? e che varrammi
s’alcun contra ’l desio consigliarammi?
45
Pártiti dunque, ché non è curabile
lo mal che ’n le medolle i’ sento pungere;
ogni altra peste creggio esser sanabile
a mille vie di cibo, taglio ed ungere;
amor sol è quel tòsco inevitabile
cui morbo alcun egual non si può giungere:
né vi si trova al mondo un sol rimedio,
for che morir d’affanno e lungo tedio! —
46
Stette Rampallo in quel parlar sí fiso
che tutto il volto vanne contraffatto.
— Tu m’hai — disse, — fratello, quasi ucciso,
e posto a tal che for di me son tratto.
Per qual sí altero e sí leggiadro viso
puote smarrire un animo sí fatto?
Tu, che di saviezza non hai pare,
ti lassi dunque in tanto error cascare?
47
E chi è costei? saria forse Costanza
o pur di Namo la figliuola bella?
Né creder voglio che facci mancanza,
di Carlo amando Berta la sorella.
Tant’alto chi ponesse sua speranza,
porria sperar dal ciel trar ogni stella. —
Milon non puote continersi allora,
ma, senza pensar altro, saltò fora:
48
— Arcana cogit amor confiteri,
disse l’Omero nostro mantoano. —
E cosí allor Milone i soi pensieri
scoperse al fido sozio a man a mano;
ma ch’eran gli occhi d’ella tanto alteri,
che porvi speme giá cred’esser vano;
e pur, se non gli vien tal fiamma tolta,
omai dal corpo l’alma sua fia sciolta;
49
né che sa imaginare modo e via,
onde speri sfocarsi il miser core.
Però lo non aver quel si desia,
e l’inusato ed inegual amore,
lo tòsco, lo velen di zelosia
giá ’l condurranno al simile furore,
che tolse a Filli, Piramo e Didone
la vita stessa, non che la ragione.
50
Rampallo cotal detto fiso ascolta
ed ascoltando ruppe in largo pianto.
Trarlo di quella mente iniqua e stolta
con boni avvisi, giá non si dia vanto;
non mai verragli tanta pena tolta,
se non allontanandol da lei tanto,
che non la veda; e cosí a poco a poco
spera ritrarlo dal maligno foco.
51
Dunque comincia il saggio ad invitarlo
se gire in Barbaria seco gli aggrada.
Ma non sí tosto mosse a confortarlo,
ecco improvviso al lungo di la strada
correndo viene il nunzio di re Carlo,
e dice che Milone senza bada
si trovi armato in piazza con la lanza
per rifrancar l’onor perso di Franza.
52
Milon, ch’ascolta l’ambasciata, presto
salta di letto e chiede l’armatura.
Con lieta fronte copre il senso mesto
e calca in petto la mordace cura.
— Va’ — disse al nunzio, — dilli che mi vesto
l’armi, quantunque manco di natura,
perché una lenta febre al mio dispetto
m’avea ridutto alquanto sopra il letto. —
53
Mentre che ’l messaggiero si diparte,
Rampallo torna al suo ragionamento:
— Vòi tu — disse, — fratello, ruinarte?
Vòi tu sí pazzo gire al torniamento?
Sveglieti di tal furia, mentre l’arte
d’amor ragion in te non anco ha spento.
Molti sono i remedi al novo male,
ma lo ’nvecchito al tutto vien mortale.
54
Non ti scordar la fama tua, barone,
non il splendore, non quel savio petto.
Se tu non hai di te compassione,
ben l'arai manco di l’altrui difetto.
Ritorna virilmente a la ragione
né voler darti a femina soggetto,
perché tu perdi, seguitando Amore,
te stesso, Carlo e l’acquistato onore.
55
Tu reggeresti l’universo mondo;
ed una feminella ti governa?
In tuo servigio forte mi confondo
vedendo quella gloria tua soperna
vilmente sottoporsi a un capo biondo
d’una (non anco so s’ella discerna
il ner dal bianco) tenera fanciulla,
tolta testé di fasce e de la culla.
56
Tu pur hai milli esempi avanti gli occhi,
quanto mal vien dal sesso muliebre:
nulla di manco, in guisa de’ ranocchi,
siamo in tal fango sin a le palpebre,
né conoscemo l’arti e li fenocchi
ch’usano quelle in l’amorosa febre,
fin che proviamo, poi, che queste scroie
bastanti sono d’arder mille Troie.
57
O misero chi segue la lor traccia!
Ché in sé di ben non han for che le forme,
donde scolpita vien l’umana faccia,
quantunque in luogo putrido e deforme.
O misero chi darsi si procaccia
in preda ad una belva e mostro enorme,
cagione, da ch’è ’l mondo, d’ogni male,
crudele, invidiosa e bestiale! —
58
Mentre Rampallo tende a confortarlo,
ecco su viene un altro ambasciatore.
Narra la doglia ed ira de re Carlo,
che ’l spagnol esser debba vincitore.
Milon, udendo ciò, per aiutarlo
e riparar col suo l’altrui splendore,
non altro al cavalliero vi risponde,
corre a la stalla e tutto si confonde.
59
Salta in arzone tosto e l’asta piglia;
urta ’l corsier, galoppa e non dimora.
Berta, ch’attende, fassi maraviglia
ch’ornai non vien; perché l’amante un’ora
esser mill’anni giura, ed assottiglia
l’ingegno sí, che tienesi talora
veder quel che non vede, e poi, se ’l vede,
tant’è ’l piacer che ciò veder non crede.
60
Tessuto avea con la sua man arguta
una girlanda d’amarissim’erba,
qual è l’assenzio e l’incendiosa ruta
e la morte di Socrate sí acerba;
ma perché al naso è grave la cicuta,
con rose il mal odore disacerba.
Poi cautamente diedel a Ruggiero,
che ratto quella porti al cavalliero.
61
Il qual anco non era in piazza giunto,
quando Ruggier, avendo l’ale al piede,
volando va né si dimora punto,
in fin che di luntano il sente e vede.
Chiamagli drieto, e poi che l’ebbe aggiunto,
guardasi prima in cerco, e qui gli diede
con umile saluto la girlanda,
dicendo la persona che la manda.
62
Non avvampò mai polve cosí ratto,
quando riceve la bombarda il foco,
come subitamente il conte tratto
fu di sí acerba doglia in lieto gioco.
Non piú vole col ciel tregua né patto,
e sí d’ogn’altro ben gli cale poco,
che sempre soffrirebbe starne privo,
pur che sol Berta onori, e morto e vivo.
63
Imponesi quel dono al bel cimero,
bascia ’l fanciullo e segue la sua via.
Ben col destriero va, ma col pensero
vola di questa in quella fantasia;
studia de l’erbe intender il mistero
né mai si ferma in una allegoria;
e giá qualche indovino aver delibra,
che d’un secreto tal gli apra le fibra.
64
Non tanta commentaria sopra ’l Sesto,
Decreti, Decretali e Pisanelle,
di Galafron la figlia, e tutto ’l resto
aedificarunt fratres e sorelle,
quanta facea Milone su quel testo
de le confuse erbette e rose belle;
né mai vi ha fine, come fa ’l scotista
contra l'utrum e probo del tomista.
65
Finge chimere, sogni e fantasie,
quali non pose mai Merlin Cocaio,
lo qual di Cingar sotto le bugie
scrisse, che piú mai fece alcun notaio,
d’alcuni menchionazzi le pazzie,
che intendon rari, ed io son il primaio
che l’ho provate e forse ancora scritte
fra genti negre, macilenti, afflitte.
66
Ma pervenuto giá dov’è ’l bagordo,
voltosse a lui ciascuno a grand’onore.
Lo pazzo volgo, di veder ingordo,
senza pensarvi su, vien a rumore;
a le cui voci e gridi fatt’è sordo
co’ circostanti l’alto imperatore.
Milon tocca ’l destrier, e quello in alto
ben vinti piedi spicca un doppio salto.
67
Percosse ’l ciel un sono via mischiato
di varie voci, trombe, plausi e corni,
quand’egli fece il salto smisurato
e reverenzia ai biondi capei adorni
de le dongelle, ove, il suo dono grato
esser stato mirando, e come adorni
ben l’elmo del suo dolce amor Milone,
Berta sola si trasse ad un balcone.
68
Chiamasi accanto la sua camarera,
la quale, de le donne contra l’uso,
c’hanno la lingua in dir via piú leggiera
del deto a l’ago, a la conocchia, al fuso,
de’ suoi secreti consapevol era,
tenendo un buco aperto, l’altro chiuso.
— Dimme, Frosina mia, che parti d’ello?
fu mai né ’l piú gagliardo né ’l piú bello?
69
A le sue forze, a la sua pulcritudine
ben mostra nato sia d’un Marte e Venere.
Oh s’egli sceglie ben l’amaritudine
de l’erbe e fior, c’ha in capo acerbe e tenere!
Verd’è l’amor, ma se vicissitudine
non ha, qual è dolor che piú s’ingenere
acerbo e piú mortal in ciascun’anima?
Qual fier destino piú un bel volto exanima? —
70
Cosí, mentr’ella si rallegra e duole
e mescie il dolce insieme con l’amaro,
vien detto al gran Milone, che la prole
spagnarda e maganzesca scavalcaro
d’accordo i piú gagliardi, perché vole
Ginamo, tributando col dinaro
e quest’e quello capitan spagnolo,
restar in lizza vincitore solo.
71
Milon prudente al volgo non risponde,
ma, vòlto il freno ad un vecchio palaccio,
entravi dentro e for di certe fronde
trasse un lungo truncone ch’al suo braccio
grosso, verde, nodoso corrisponde,
per mostrar che ’l diamante come un giaccio
potrebbesi spezzare con quel stecco,
contra ’l senso di Plinio, senza ’l becco.
72
Gitta la lanza, e con un stran saluto
vòl salutarne mille, non che un matto.
Quando la turba lunge ebbel veduto
col codicil senza notar contratto,
ridea dicendo: — Quest’ è ben dovuto
che ’n miglior forma il scritto sia ritratto! —
Or Balugante lascia star Anione,
veduto ch’ebbe in lizza entrar Milone.
73
L’asta ch’accortamente avea servata
in piú opportuno tempo sin allora,
tosto ripiglia, ed in Milon dricciata,
spera il menchion di sella trarlo fora.
Milon che ’l vede, leva il ciglio e guata
prima colei che tanto l’innamora,
poi contra l’arroganzia che gli viene,
abbassa il legno con sue forze piene.
74
Tacque ciascuno e tien la bocca aperta
al smisurato incontro de’ duo tori.
Di Balugante fu la botta incerta,
perché la lanza affise troppo fori.
Ma ben Milone, che si tien a l’erta
per bel principio dei presenti onori,
diedeli un urto tale col stangone,
che mezzo il sotterrò nel sabbione.
75
Poi quella turba de li congiurati
rumpe col tronco in resta e li disperde.
In quattro colpi trenta scavalcati
l’un sopra l’altro andar distesi al verde.
L’altri confusamente rammeschiati,
chi l’elmo, chi ’l braccial, chi l’asta perde,
come sòl far il can mastino ch’apre
un qualche storno di barbute capre.
76
Giá piú di cento surgeno di sabbia
e for di lizza sbalorditi vannosi.
Quivi si prova del baston la rabbia,
e molti l'ossa racconciare fannosi.
Corrono in rota, come gatti in gabbia,
quelli spagnoli ed al scampare dánnosi,
perché non hanno tergo molto agevole,
cui si confaccia unguento sí spiacevole.
77
Bernardo di Maganza e Falsirone
c’han steso Namo con lanzate a terra,
per contrapporsi al crudo perticone
che i congiurati doma e tutti atterra,
gli vanno addosso insieme per gallone,
mentr’egli incauto altrove piglia guerra;
dánnogli con due lanze un colpo duro,
ma puoteno inclinar piú tosto un muro.
78
Non creder che Milone si contamine
del colpo di gran forza e poca gloria;
volgesi a loro, e quel suo medicamine
di Falsirone impose a la memoria:
stendesi al piano; ma sotto velamine
di racquistare contra Amon vittoria,
Bernardo torna a lui con l’asta al cubito,
ma di Cariddi in Scilla cadde subito.
79
L’astuto Amon sí seppelo scansare
che, mentre il colpo di Bernardo scorre,
con tanta furia un pugno gli ebbe a dare,
ch’un monte rotto avria, non ch’una torre;
ma Satanaso volselo aiutare,
ché Amon puote del colpo mal disporre;
coglie il cavallo e sfiaccagli la testa,
ed egli, nel vibrar, spallato resta.
80
Spiacque tal caso a Carlo, spiacque al popolo,
ch’Amon si mostra esser d’un braccio inutile.
Quel pugno avria spezzato un sasso, un scopolo,
ma verso un traditor fu vano e futile.
Or sopra ciò non piú rime v’accopolo;
Amon è in terra, di giostrar poco utile;
fuvvi raccolto, e chiamasi ch’il medica;
concialo il mastro ed a le piume il dedica.
81
Milon giá piú non fa di l’olmo lanza,
ma ben da un capo il piglia con due mani:
or qui comincia la piú bella danza
che mai si vide ai ferraresi piani,
quando, la biscia entrata ne la stanza
di mille millia rane in que’ pantani,
chi su, chi giú, chi al lungo, chi al traverso,
fugge scampando con dirotto verso.
82
Non fu giammai bastone agevol tanto
in cacciar cani di cocina fora,
o castigar un ostinato, quanto
era quel di Milon, ch’in men d’un’ora
sgombrò tutto ’l steccato d’ogni canto,
non vi restando un sol soletto allora.
Pensate se Carlone e Berta gode,
e se Ginamo e Falsiron si rode.
83
Amor e forza il tenne in sella fermo,
qual scoglio in mar da l'onde combattuto!
Or per dar fine al mio gridar infermo,
allenta, o Musa, il canto del laguto,
ché da Grisoni non facendo schermo,
qui sonar d’arpa voglio in nostro aiuto;
e se ’l raggio del sol non m’è rubello,
spero di loro farne un gran macello.