< Osservazioni sulla morale cattolica
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Capitolo XV Capitolo XVII

CAPITOLO DECIMOSESTO


SULLA SOBRIETÀ E SULLE ASTINENZE, SULLA CONTINENZA E SULLA VERGINITÀ.


La sobrieté, la continence sont des vertus domestiques qui conservent les facultés des individus, et assurent la paix des familles; le casuiste a mis à la place les maigres, les jeunes, les vigiles, les v.ux de virginité et de chasteté; et à côté de ces vertus monacales, la gourmandise et l’impudicité peuvent prendre racine dans les coeurs. Pag. 420.

L’istituzioni relative all’astinenza sono di quelle che il mondo s’è ingegnato a render ridicole: per cui molti di que’ medesimi che le venerano in cor loro, parlano in loro difesa con timidi riguardi, non osano quasi adoprare i nomi propri, e lasciano credere che la ragione, rispettandole, non faccia altro che sottomettersi ciecamente a una sacra e incontrovertibile autorità. Ma chi cere sinceramente la verità, in vece di lasciarsi spaventare dal ridicolo, deve sottoporre a un libero esame il ridicolo stesso.

Quello di cui si tratta qui, ha una causa e un pretesto. La causa è l’avversione del mondo per la mortificazione del senso, e conseguentemente per tutto ciò che la prescrive, in una forma qualunque. Ma, per non allegar questa vera causa (che sarebbe un confessarsi schiavo del senso), il mondo procura di darsi a intendere che ciò che gli repugna in queste prescrizioni, è qualcosa di contrario alla ragione. E a questo fine, dimentica o finge di dimenticare il loro spirito e i loro motivi: che è certamente il mezzo più spiccio di farle comparire stravaganti. Non si vergognerà, per esempio, di continuar per de’ secoli a domandare cos’importi a Dio, che gli uomini usino certi cibi, piuttosto che certi altri, e di mettere in campo altri argomenti di simil peso.

Ciò poi che dà un’occasione, o meglio un pretesto, di ridere di queste prescrizioni, è la maniera con cui sono eseguite da de’ cattolici. Le Scritture e la tradizione rappresentano il digiuno come una disposizìone di staccatezza e di privazioni volontarie, della quale, l’astenersi dal cibo, per un dato tempo, è una parte, un modo naturale, una conseguenza necessaria. In uomini affaccendati nella ricerca de contenti mondani d’ogni genere, nemici d’ogni umiliazione e d’ogni patimento, questa sola parte di penitenza, eseguita farisaicamente, produce una dissonanza, nella quale il mondo trova quello che basta a lui per ridere, e del fatto e dell’istituzione insieme. L’astinenza poi da certi cibi in certi giorni, è anch’essa una specie di digiuno, un mezzo prescritto dalla Chiesa, per unire la penitenza e la privazione anche con l’uso necessario degli alimenti. Se alcuni hanno saputo convertirlo in un mezzo di raffinamento, certo che una mostra illusoria e, e per dir così, una millanteria di penitenza, che si vede uscire tutt’a a un tratto da una vita tutta di delizie e di passioni, presenta un contrasto strano tra l’intenzione della legge e lo spirito dell’ubbidienza, tra la difficoltà e il merito. E il mondo ne profitta per ridere anche della legge.

Ma, per levarne ogni occasione a chiunque voglia riflettere (giacchè ci sono degli uomini i quali non lasciano più di ridere d’una cosa che hanno una volta concepita come ridicola), basta distaccar l’astinenze da quel complesso d’idee, nel quale fanno contradizione, e rimetterle in quello che loro è proprio, e nel quale furono collocate dalla legislazione religiosa. Basta osservarle insieme coi fini che la Chiesa ha avuti di mira nell’ordinarle; e insieme non dimenticàre i casi ne’ quali producono i loro effetti; allora, non solo svanirà il ridicolo, ma comparirà la bellezza, la sapienza e l’importanza di queste leggi.

La sobrietà, come ha detto benissimo l’illustre autore, conserva le facoltà degl’individui. Ma la religione non si contenta di quest’effetto, nè di questa virtù, conosciuta anche da’ gentili; e avendo fatti conoscere i mali profondi dell’uomo, ha dovuto proporzionare ad essi i rimedi. Nei piaceri della gola che si possono conciliare con la sobrietà, vede una tendenza sensuale che svia dalla vera destinazione; e dove non è ancor principiato il male, segna il pericolo. Prescrive l’astinenza come una precauzione indispensabile a chi deve sostenere il combattimento contro la legge delle membra; la prescrive come espiazione de’ falli in cui l’umana debolezza fa cadere anche i migliori; la prescrive ancora per ragione di carità e giustizia; perchè le privazioni de’ fedeli devono servire a soddisfare ai bisogni altrui, e compartire così tra gli uomini le cose necessarie al vitto, e fare scomparire dalle società cristiane que’ due tristi opposti, di profusione a cui manca la fame, e di fame a cui manca il pane.

Queste prescrizioni, essendo così necessarie all’uomo in tutti i tempi, hanno dovuto principiare con la promulgazione della religione; e così è infatti. Nel solo popolo che avesse una civilizzazione fondata sopra idee di giustizia universale, di dignità umana e di progresso nel bene, cioè sopra un culto legittimo, si trovano esse fino da’ primi tempi del suo passaggio solenne dallo stato di schiavitù, dov’era ritenuto dalla prepotenza e dalla mala fede, allo stato di nazione; e la tradizione del digiuno discende da Mosè fino a’ nostri giorni, come un rito di penitenza e un mezzo d’innalzar la mente al concetto delle cose di Dio, e di mantenersi fedeli alla sua legge.

Al tempo di Samuele, gl’Israeliti prevaricano; ma quando ritornano al Signore pentiti, quande cessano d’adorare le ricchezze della terra, e levano di mezzo a loro gli dei visibili degli stranieri, offrono olocausti al Signore, e digiunano1.

L’idolatria era il culto della cupidigia, la festa de’ godimenti terreni per rompere l’abitudine della servitù de’ sensi, per ritornare a Dio, bisognava principiare dalle privazioni volontarie. E quando i figli d’Israele ritornano dalla terra de’ padroni stranieri, quando sono per rivedere Gerusalemme, il magnanimo Esdra loro condottiere, li prepara al viaggio col digiuno e con la preghiera2, per rifare così un popolo religioso e temperante, segregato dalle gioie tumultuose e servili delle genti.

Il digiuno accompagna senza interruzione il primo testamento; Giovanni, precursore del novo, l’osserva e lo predica; e quello che fu l’aspettazione e il compimento dell’uno, il fondatore e la legge dell’altro, e la salute di tutti, Gesù Cristo, lo comanda, lo regola, ne leva l’ipocrita ruvidezza e la malinconica ostentazione, l’attornia d’immagini socievoli e consolanti3, ne insegna lo spirito, e ne dà Lui stesso l’esempio. Certo, la Chiesa non ha bisogno d’altra autorità, per render ragione d’averlo conservato.

Gli Apostoli sono i primi a praticarlo. Il digiuno e la preghiera precedono l’imposizioni delle mani, che conferì a Paolo la missione verso le genti4; e la religione, come disse il Massillon, nasce nel seno del digiuno e dell’astinenze5. D’allora in poi, dove si può segnare un tempo di sospensione o d’intervallo? La storia ecclesiastica ne attesta la continuità in tutti i tempi e in tutti i santi; e se si trova pur troppo qualche volta il letterale adempimento del digiuno, scompagnato da una vita cristiana, è impossibile trovare una vita cristiana scompagnata dal digiuno. I martiri e i re, i vescovi e i semplici fedeli eseguiscono e amano questa legge: essa si trova come in un posto naturale tra’ cristiani. Fruttuoso, vescovo di Tarragona, rifiutò, andando al martirio, una bevanda che gli era offerta per confortarlo; la rifiutò, dicendo che non era passata l’ora del digiuno6. Chi non prova un sentimento di rispetto per una legge così rispettata, nel momento solenne del dolore, da un uomo che stava per dare una testimonianza di sangue alla verità? Chi non vede che questa legge medesima aveva contribuito a prepararlo al sacrifizio, e che per morire imitatore di Gesù Cristo, egli n’era vissuto imitatore?

Ma, prescindendo da questi esempi ammirabili, nelle circostanze più ordinarie d’un cristiano, il digiuno e l’astinenze si legano con ciò che la sua vita ha di più degno e di più puro. Si veda un uomo giusto, fedele a’ suoi doveri, attivo nel bene, sofferente nelle disgrazie, fermo e non impaziente contro d’ingiustizia, tollerante e misericordioso; e si dica se le pratiche dell’astinenza non sono in armonia con una tale condotta. San Paolo paragona il cristiano all’atleta che, per guadagnare una corona corruttibile, era in tutto astinente7. L’agilità e il vigore che ne veniva al suo corpo, era tanto evidente, i mezzi erano così corrispondenti al fine, che a nessuno pareva irragionevole quel tenore di vita, nessuno se ne maravigliava; e noi, educati all’idee spirituali del cristianesimo, non sapremo vedere la necessità e la bellezza di quell’istituzioni che tendono a render l’animo desto e forte contro l’inclinazioni del senso?

Questo è il punto di vista vero e importante dell’astinente; questi sono i loro effetti naturali. E se il mondo non se n’avvede, è perchè quelli che le praticano in spirito di fedeltà, si nascondono, e il mondo non si cura di ricercarli, e non fa per lo più attenzione all’ astinenze , se non quando presentano un contrasto col resto della condotta.

Ci sono, anche nella Chiesa, dell’istituzioni transitorie, il fine delle quali è solamente di preparare e di condurre gli uomini d’un tempo o d’un luogo a un ordine, più elevato; ce ne sono dell’altre, che la Chiesa mantiene stabilmente, perchè affatto connaturali al suo ordine intrinseco e perpetua. Esse attraversano delle generazioni ribelli o noncuranti, rimangono immobili in mezzo a un popolo dimentico o derisore, aspettando le generazioni ubbidienti e riflessive; perchè sono fatte per tutti i tempi. Tali sono, non dico il digiuno, che è d’istituzione divina, ma la più parte delle leggi ecclesiastiche che ne prescrivono delle speciali applicazioni: tali sono, per esempio, le vigilie. Celebrare la commemorazione de’ gran misteri, e degli avvenimenti ai quali dev’essere rivolta tutta la considerazione del cristiano, e prepararcisi con la penitenza e con le privazioni, è un’istituzione tanto essenzialmente cristiana, che si confonde per l’origine della religione, e non ha avuto un momento di sospensione.

L’astinenza da certi cibi, come abbiamo detto, è un’altra applicazione dello stesso principio. Se ci sono di quelli che combinano l’esecuzione materiale di questo precetto con l’intemperanza e con la gola; e se ci sono degli altri che prendono da ciò il pretesto di farsene beffe, la Chiesa non ha creduto per questo di dover abolire una memoria vivente dell’antica semplicità e dell’antico rigore, di dover cancellare ogni vestigio di penitenza, e levare a tanti suoi figli un mezzo d’esercitarla ubbidendo. Perchè, non mancano de’ ricchi che osservano sinceramente, e per spirito di penitenza, una legge di penitenza; e, tra i poveri, non sono mancati coloro che, forzati a una sobrietà che rendono nobile e volontaria con l’amarla, trovano il mezzo d’usar qualche maggior severità al loro corpo, ne’ giorni in cui una particolare afflizione è preceritta dalla Chiesa. Essa li considera come il suo più bell’ornamento, e come i suoi figli prediletti. Tutte queste pratiche non possono dirsi sostituite alla sobrietà: non ne dispensano; la suppongono invece, e ne sono un perfezionamento.

Lo stesso si dica devoti di verginità e di castità, in relazione con la continenza. Come chiamarle una sostituzione a questa, se ne sono l’esercizio più eminente? È inutile dire che la verginità, lodata e consigliata da san Paolo8, che ne diede l’esempio, lodata e disciplinata dai Padri, non è un’invenzione de’ casisti.

Che se l’impudicizia può metter radice ne’ cori, malgrado il voto di verginità, e la gola, malgrado l’astinenze, vorrà dire che tanta è la corruttela dell’uomo, che i mezzi stessi proposti dall’Uomo-Dio non la estirpano totalmente; che sono bensì armi per poter vincere, ma che non dispensano dal combattere: ma chi potrà supporre che ci possano essere de’ mezzi migliori? Opporre alla Chiesa, la quale consiglia o comanda l’esercizio più perfetto d’una virtù, che questo può qualche volta essere scompagnato dal sentimento di quella virtù, non può, per quello ch’io vedo, condurre ad alcuna utile conseguenza. Perchè quest’obiezione avesse forza, converrebbe poter asserire che, una religione la quale si limitasse a proporre la sobrietà e la continenza, estirperebbe dal core degli uomini la radice dell’inclinazioni contrarie.



  1. Abstulerunt ergo filii Israel Baalim, et Astaroth, et servierunt Domino soli.... et jejunaverunt in die illa. I Reg. VII, 4, 6.
    Astaroth, greges, sive divitiæ; Baalim, idola, dominantes. Nominum interpretatio in Bibl. jussu cler. gallic. edita. Paris, Vitré, 1652.
  2. Et prædicavi ibi jejunium juxta fluvium Ahava, ut affligeremur coram Domino Deo nostro, et peteremus ab eo viam rectam nobis et filiis nostris, universæque substantiæ nostræ. I Esdr. VIII, 21.
  3. Cum autem jejunatis, nolite fieri sicut hypocritæ tristes: exterminant enim facies suas, ut appareant hominibus jejunantes. Amen dico vobis, quia receperunt mercedem suam. Tu autem, cum jejunas, unge caput tuum, et faciem tuam lava; ne videaris ab hominibus jejunans, sed Patri tuo: et Pater tuus, qui videt in abscondito, reddet tibi. Matth. VI, 16, 17, 18.
  4. Tunc jejunantes et orantes, imponentesque eis (Saulo et Barnabæ) manus dimiserunt illos. Act. XIII, 3.
  5. Sermon sur le jeûne. È il primo della Quaresima
  6. Fleury, Mœurs des Chrétiens. IX. Jeûnes.
  7. Omnis autem, qui in agone contendit, ab omnibus se abstinet; et illi quidem, ut corruptibilem coronam accipiant; nos autem incorruptam. I Cor. IX, 2
  8. De virginibus autem praeceptum Domini non habeo; consilium autem do, tamquam misericordiam consecutus a Domino, ut sim fidelis. Existimo ergo hoc bonum esse propter instantem necessitatem, quoniam bonum est homini sic esse. Alligatus es uxori? noli quærere solutionem. Solutus es ab uxore? noli quærere uxorem. I Cor. VII; 25, 26, 27.

Note

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