< Osservazioni sulla morale cattolica
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Capitolo XVI Capitolo XVIII

CAPITOLO DECIMOSETTIMO


SULLA MODESTIA E SULLA UMILTÀ.


La modestie est la plus aimable des qualités de l’homme supérieur: elle n’exclut point un juste orgueil, qui lui sert d’appui contre ses propres foiblesses, et de consolation dans l’adversité; le casuiste y a substitué l’humilité; qui s’allie avec le mépris le plus insultant pour les autres. Pag. 420, 421.

Io non difenderò qui i casisti dall’accusa d’aver sostituita alla modestia, e, per dir così, inventata l’umiltà. Essa è tanto espressamente e ripetutamente comandata nelle Scritture, che una simile proposizione non par che possa esser presa a rigor di termini.

Esporrò invece qualche osservazione sulla natura di queste due virtù, affine di dimostrare che la modestia senza l’umiltà o non esiste o non è virtù; e che chi loda la modestia, o pronunzia una parola senza senso, o rende omaggio alla verità della dottrina cattolica; perchè gli atti e i sentimenti che s’intendono sotto il nome di modestia non hanno la loro ragione che nell’umiltà, quale è proposta da questa dottrina.

Qui è necessario risalire a un principio generale della morale religiosa; in essa le virtù hanno per fondamento delle verità assolute e necessarie. Non credo che ci sia bisogno di giustificare questo principio. Si può, eccome! non farsene carico ne’ giudizi pratici, e anche nel fabbricare de’ sistemi di morale; ma chi vorrebbe asserire formalmente che il bono possa essere opposto al vero, o, ciò che non sarebbe meno strano, nè opposto, nè conforme? Applicando ora alla modestia questo principio, vedremo che questa, per esser virtù, deve avere due condizioni: esser l’espressione d’un sentimento non finto ma reale, e d’un sentimento fondato sopra una verità; dev’esser sincera e ragionata.

Cos’è la modestia? Non credo facile il dirlo. Per definire, s’intende per lo più specificare il senso unico e costante che gli uomini attribuiscono a una parola: ora, se gli uomini variano nell’applicazione d’una parola, come trasportare nella definizione un senso unico che non esiste ne’concetti? È celebre l’osservazione del Locke: che la più parte delle dispute filosofiche è venuta dalla diversa significazione attribuita alle stesse parole. «Sono pochi, dice, que’ nomi d’idee complesse che due uomini adoprino a significare precisamente la stessa collezione d’idee1.» Questa maggiore o minor varietà di significato, si trova più specialmente ne’vocaboli destinati a esprimere disposizioni morali.

È certo, nondimeno, che gli uomini s’intendono tra di loro, se non con precisione, almeno approssimativamente, quando adoprano o ascoltano alcuna di queste parole: non potrebbero anzi disputare, se non andassero d’accordo in qualche parte sul significato della parola che è l’oggetto, o piuttosto il mezzo necessario della loro disputa. Questo si spiega, se non m’inganno, osservando che ognuna di queste parole esprime un’idea riconosciuta per l’ordinario, quantunque più o meno distintamente, da ognuno; ma che, in troppi casi, ora l’uno, ora l’altro, ora molti, cessiamo di riconoscere, conservando però tenacemente la parola. E questo accade per più cagioni; ma forse la più attiva e la più frequente, è l’affetto a opinioni o à giudizi arbitrari coi quali quell’idea non potrebbe accomodarsi; anzi li dovrebbe correggere, che è ciò che non vogliamo. Ora, ne’ sentimenti, nei pensieri, nell’azioni, nel contegno, a cui s’applica la parola modestia, l’idea predominante mi par che sia: confessione d’una maggiore o minor distanza dalla perfezione.

Posto ciò, l’uomo a cui si dà lode di modesto, perchè dimostra un sentimento della propria imperfezione, o è persuaso, o non lo è. Se non lo è, la sua è tanto lontana dall’esser virtù, che è anzi vizio; è finzione, ipocrisia. Che se è persuaso, o lo è con ragione, o no. In questo secondo caso, sarebbe ignoranza, inganno: ora, non è virtù quel sentimento che un esame più giudizioso, una maggior cognizione della verità, un aumento di lumi, ci farà abbandonare. Altrimenti bisognerebbe dire che ci siano delle virtù opposte alla verità; in altri termini, che la virtù è un concetto falso. Se dunque, quando si loda la modestia d’uno, non si vuol dire che quest’uomo sia o un impostore, o uno sciocco, si dovrà dire che la modestia suppone la cognizione di sè stesso, e che nella cognizione di sè stesso l’uomo deve sempre trovar la ragione d’esser modesto. Ho detto sempre, perchè altrimenti ci sarebbero de’ casi in cui l’uomo potrebbe ragionevolmente avere il sentimento opposto a questa virtù. Anzi, quanto più uno diventasse virtuoso, dovrebbe esser meno modesto; giacchè è certo che si sarebbe avvicinato alla perfezione; e così il miglioramento dell’animo condurrebbe logicamente alla perdita d’una virtù; il che è assurdo. Ora, questa ragione perpetua, e senza eccezione, d’esser modesti, si trova nella doppia idea che la rivelazione ci ha data di noi stessi e sulla quale è fondato il precetto dell’umiltà, la quale non è altro che una cognizione di sè stesso. E questa idea è, che l’uomo è corrotto e inclinato al male, e che tutto ciò che ha di bene in sè, è un dono di Dio: dimanierachè ognuno può e deve, in ogni caso, dire a sè stesso: «Che hai tu, che non abbi ricevuto? e se l’hai ricevuto, perchè te ne glorii, come se non l’avessi ricevuto?2»

Per questa sola ultima ragione, Gesù Cristo, quantunque perfetto, anzi perciò appunto, ha potuto essere sovranamente umile; perchè conoscendo in eccellente grado sè stesso, e non essendo accessibile ad alcuna delle passioni che fanno errare l’uomo che giudica sè stesso, ha veduto in eccellente grado, che l’infinite perfezioni che aveva nella sua natura umana, erano doni.

E per riguardo a tutti gli uomini, si darà, un’idea chiara e ragionata della modestia, chiamandola l’espressione dell’umiltà, il contegno d’un uomo il quale riconosce d’esser soggetto all’errore e al traviamento, e riconosce ugualmente, che tutti i suoi pregi sono doni che può perdere per la sua debolezza e per la sua corruttela. Se non ci supponiamo quest’idea, la modestia è o scempiaggine o impostura: se ce la supponiamo, è ragione e virtù: con quest’idea si spiega l’uniformità del sentimento degli uomini in favore di essa; e questo sentimento diventa un raziocinio.

Noi lodiamo l’uomo modesto, non solo perchè, abbassandosi e tenendosi in un canto, lascia a noi un po’ più di posto per elevarci e per comparire; non lo lodiamo solo come un concorrente che si ritira. Certo; l’interesse delle nostre passioni ha una parte, che noi stessi non sappiamo sempre discernere, nelle nostre approvazioni e ne’ nostri biasimi; ma ognuno, esaminandosi, trova in sè stesso una disposizione ad approvare, independente da quest’interesse, e fondata sulla bellezza di ciò che approva. Si potrebbe dimostrare con degli esempi la realtà di questa disposizione; ma ognuno la sente, è un fatto.

Non lodiamo la modestia solamente come una qualità rara e difficile: ci sono dell’abitudini perverse a cui pochi uomini arrivano, e non ci arrivano, se non per gradi, e facendo violenza a sè stessi; e nessuno le approva.

Non lodiamo neppure la modestia solo perchè riunisca questi due caratteri d’utilità e di difficoltà. Il Vecchio della montagna ricavava un vantaggio dalla credulità e dalla devozione dell’uomo pronto a buttarsi nel precipizio, a un suo cenno, e doveva riconoscere uno sforzo difficile in quest’ubbidienza; eppure non poteva trovar degno di stima quest’uomo, ch’egli conosceva meglio d’ogni altro, come un miserabile zimbello della sua impostura.

Noi approviamo e lodiamo l’uomo modesto, perchè, malgrado l’inclinazione fortissima d’ogn’uomo a stimarsi eccessivamente, è arrivato a fare un giudizio imparziale e vero di sè stesso; e perchè è arrivato a farsi una legge di rendere alla verità questa testimonianza difficile e dolorosa. La modestia insomma piace come utilità e come difficoltà, ma prima di tutto come verità. Si ripassino pure tutti i concetti ragionevoli intorno alla modestia; tutti verranno a combinare con questo: La modestia è una delle più amabili doti dell’uomo superiore. Verissimo; anzi s’osserva comunemente che la modestia cresce in proporzione della superiorità: e questo si spiega benissimo con l’idee della religione. La superiorità non è altro che un grande avanzamento nella cognizione e nell’amore del vero: la prima rende l’uomo umile, e il secondo lo rende modesto.

Quest’uomo teme le lodi e le sfugge: ma le lodi sono gradevoli, e non c’è un’ingiustizia apparente nel cercar d’ottenerle spontanee: eppure il suo contegno è approvato da tutti quelli che apprezzano la virtù. Ciò accade perchè quel contegno è ragionevole. L’uomo modesto vede che le lodi non gli ricordano che una parte di sè, e quella appunto che è già inclinato a considerare e a ingrandire, mentre, per conoscersi bene, ha bisogno di considerare tutto sè stesso; vede che le lodi lo trasportano facilmente ad attribuire a sè ciò che è dono di Dio, a supporre in sè una eccellenza sua propria, e quindi a ingannarsi deplorabilmente e colpevolniente. Perciò le sfugge, perciò nasconde le sue belle azioni, perciò conserva i suoi sentimenti più nobili nella custodia del suo core; avvertito appunto dallo studio sincero di sè medesimo, che tutto ciò che lo porta a farne mostra, è un desiderio superbo d’esser distinto, osservato, stimato, non quello che è, ma il meglio possibile.

Ma, se la verità e la carità lo richiedono, anche l’uomo modesto lascia apparire il bene che è in lui, e se ne rende testimonianza. Ne è uno splendido modello la condotta di san Paolo, quando l’utile del suo ministero l’obbliga a rivelare ai Corinti i magnifici doni di Dio. Costretto a parlare di ciò che lo può elevare agli occhi altrui, ne restituisce a Dio tutta la gloria, e confessa spontaneamente le miserie più umilianti in un apostolo, in cui la dignità della missione par che escluda l’idea, non solo della caduta, ma della tentazione. Nell’animo sublimato alla intelligenza delle arcane parole che non è lecito a un uomo di proferire3, chi avrebbe ancora supposta viva la guerra dell’inclinazioni del senso? Egli stesso ne parla; egli discende dalle caste e alte visioni del terzo cielo, a mostrarsi nell’arena de’ combattenti carnali: costretto a rivelare il segreto del suo animo, lo rivela tutt’intero per esser tutto conosciuto4.

Se la modestia è l’umiltà ridotta in pratica, non si può combinare con l’orgoglio, che è il contrario di questa; e non ci sarà alcun giusto orgoglio. L’uomo che si compiace di sè stesso, che non riconosce in sè quella legge delle membra che contrasta alla legge della mente5, l’uomo che osa promettere a sè stesso, che, per la sua forza sceglierà il bene nell’occasioni difficili, è miserabilmente ingannato e ingiusto; l’uomo che s’antepone agli altri è temerario; è parte, e si fa giudice. Che se, per un giusto orgoglio, s’intende riconoscere la verità del bene che s’è fatto, senza attribuirlo a sè, e senza invanirsene, sarà questo un sentimento legittimo, anzi un sentimento doveroso; ma l’umiltà non l’esclude, ma è l’umiltà stessa, ma la condotta contraria è proscritta dalla morale cattolica come menzognera e superba; poichè chi crede che, facendo un giusto giudizio di sè, avrebbe di che gloriarsi, e che, per poter esser umile, abbia bisogno di contraffarsi, è un povero superbo; ma finalmente bisogna permetterci di chiamare questo sentimento altrimenti che orgoglio; non per cavillare su una parola, ma perchè questa è consacrata a significare un sentimento falso e vizioso in tutti i suoi gradi. E poichè la condotta esterna può essere in molti casi la medesima in chi ha il sentimento dell’umiltà, e in chi non l’ha, importa di conservare il suo senso alla parola che è appunto destinata a specificare il sentimento. L’orgoglio non può dunque esser mai giusto; quindi non può mai essere, nè un sostegno alla debolezza umana, nè una consolazione nell’avversità.

Questi sono frutti dell’umiltà: è essa che ci sostiene contro la nostra debolezza, facendocela conoscere e ricordare ogni momento; l’umiltà che ci porta a vegliare e a pregare Colui che comanda la virtù e che la dà; è essa che ci fa alzar lo sguardo ai monti donde ci viene l’aiuto6 . E nelle avversità, le consolazioni sono per l’animo umile, che si riconosce degno di soffrire, e prova il senso di gioia che nasce dal consentire alla giustizia. Riandando i suoi falli, le avversità gli appariscono come correzioni d’un Dio che perdonerà, e non come colpi d’una cieca potenza; e cresce in dignità e in purezza, perchè, a ogni dolore sofferto con rassegnazione, sente cancellarsi alcuna delle macchie che lo deformavano. Che più? arriva fino a amare l’avversità stesse, perchè lo rendono conforme all’immagine del Figliuolo di Dio7; e in vece di perdersi in vane e deboli querele, rende grazie in circostanze, nelle quali, se fosse abbandonato a sè stesso, non troverebbe che il gemito dell’abbattimento, o il grido della ribellione. Ma l’orgoglio! Quando Iddio avrà umiliato il superbo come un ferito8, l’orgoglio sarà per lui un balsamo? A cosa può servire l’orgoglio nelle avversità, se non a farle odiare come ingiuste, a suscitare in noi perpetuamente un irrequieto e doloroso paragone tra quello che ci par di meritare e quello che ci tocca soffrire? Il punto di riposo per l’uomo, in questa vita, è nella concordia della sua volontà con la volontà di Dio sopra di lui; e chi n’è più lontano che l’orgoglioso, quando è percosso? L’orgoglio è garrulo nella sventura, quando trovi ascoltatori; s’agita e si consuma a dimostrar che le cose non dovrebbero essere come Dio l’ha volute: se si chiude in sè, il suo silenzio è amaro, sprezzante, imposto dal sentimento della propria impotenza, e per fino dal timore della commiserazione altrui. Quelle vantate consolazioni dell’uomo che, nell’avversità, afferma di trovare un compenso in sè, quando questo compenso non sia rassegnazione e speranza, non sono, per lo più, se non un artifizio dell’orgoglio stesso, che rifugge dal lasciar vedere uno stato d’abbattimento, che potrebb’essere un grato spettacolo all’orgoglio altrui. Dio sa quali siano queste consolazioni; e basta leggere le Confessioni dell’infelice Rosseau per averne un’idea, per vedere quale sia lo stato d’un core che, ammalato d’orgoglio, cerca nell’orgoglio il suo rimedio. Nella solitudine, dove s’era promessa la pace, ritorna col pensiero sull’umiliazioni sofferte nella compagnia degli uomini, ne rammemora le più piccole circostanze. Colui che aveva parlato e scritto tanto sulla corruttela dell’uomo sociale, non aveva un animo preparato all’ingiustizia: quando n’è colpito, non se ne può dar pace. Si paragona con quelli che l’offesero, che lo trascurarono; si trova tanto dappiù di essi, e si rode pensando che questi appunto l’abbiano offeso o trascurato. Le parole, gli sguardi, il silenzio, tutto ripensa nell’amaritudine dell’anima sua: i patimenti del suo orgoglio si possono misurare dall’avversione che prova per coloro che l’hanno irritato: come li giudica, come li dipinge! Può esser certo d’aver comunicato all’animo di migliaia di lettori l’odio e il disprezzo che lo tormentano; e quando pare che sia vendicato, esclama: cela me passoit, et me passe encore9. Eppure, se ci fu mai, secondo il mondo, un giusto orgoglio; se un ingegno lodato anche dagli avversari; se una parola che si fa sentire pertutto dove c’è qualche coltura, una parola che agita, sorprende, comanda; se una fama che, levando alla folla degli scrittori anche il pensiero della rivalità, soffoga in essi l’invidia, e la fa nascere in que’ provetti, che credevano di non aver più altro a fare che incoraggire il merito nascente, senza timore di competenze; se l’esser, non solo mostrato a dito, ma spiato, appostato da una curiosità ammiratrice, ricercato, nella più umile fortuna, da quelli che sono ricercati per la loro fortuna, sono titoli d’un giusto orgoglio, chi n’ebbe di maggiori? E, tra tanti motivi, non dirò di consolazione, ma di trionfo, quali sono poi finalmente i suoi dolori? È un amico del mondo, che vuol fargli l’uomo addosso, e prescrivergli ciò che deva fare; è un altro che, protetto da lui altre volte, vuol parere il suo protettore, e gli leva il posto alla tavola d’un’altra amica dello stesso genere. Ah! certo non bisogna usar parsimonia nel dispensare la compassione, nè pesare sulla nostra bilancia i dolori degli altri: l’uomo che soffre, sa lui quello che soffre; e se è la debolezza dell’animo suo, che ingrandisce il male, questa debolezza, comune a tutti, è quella appunto che merita una maggior compassione. Ma, quando si pensa alle ingiustizie sofferte dai grandi del cristianesimo; quando si pensa alle persecuzioni, alle calunnie, ai disprezzi di cui furono colmati i santi, e alla gioia con cui li sopportarono, alla pazienza con cui aspettarono la manifestazione della verità, senza pretenderla in questa vita, alla delizia che provavano a sfogarsi soli con Dio, e che i loro sfoghi erano azioni di grazie, e tutto ciò perchè erano umili; allora si riconosce dove l’uomo possa trovar davvero un sostegno contro la sua propria debolezza, e una consolazione nell’avversità.

Ah! se nella vita che ci resta a percorrere, ci sono preparati de’ passi difficili e dolorosi, se per noi s’avvicina il momento della prova, preghiamo che ci trovi nell’umiltà, che il nostro capo sia pronto a chinarsi sotto la mano di Dio, quando sia per passarci sopra.

Da ciò che s’è detto intorno all’umiltà viene di conseguenza che, se c’è sentimento che distrugga il disprezzo insultante per gli altri, è l’umiltà certamente. Il disprezzo nasce dal confronto di sè stesso con gli altri, e dalla preferenza data a sè stesso: ora, come mai questo sentimento potrà prender radice nel core educato a considerare e a deplorare le proprie miserie, a riconoscere da Dio ogni suo merito, a riconoscere che potrà trascorrere a ogni male, se Dio non lo rattiene?

  1. Essai sur l’entendement humain. Livr. III, Chap. X. De l’abus des mots. § 22.
  2. Quis enim te discernit? Quid autem habes, quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? I Corinth. IV, 7.
  3. Quoniam raptus est in Paradisum, et audivit arcana verba, quæ non licet homini loqui. II Corinth. XII, 4
  4. Et ne magnitudo revelationum extollat me, datus est mihi stimulus carnis meæ, angelus Satanæ, qui me colaphizet. Ibid. 7.
  5. Video autem aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meæ. Rom. VII, 23.
  6. Levavi oculos meos in montes, unde veniet auxilium mihi. Ps. CXX, 1.
  7. Quos præscivit, et prædestinavit conformes fieri imaginis Filii sui. Ad Rom. VIII, 29.
  8. Tu humiliasti, sicut vulneratum, superbum. Ps. LXXXVIII, 11.
  9. Confessions, II Partie, Liv. IX.

Note

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