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§. II.
Idea della Pestilenza che devastò Milano nel 1630.
Il Ripamonti, cattivo ragionatore, buon latinista, cronista inesatto, ma sincero espositore delle cose de’ suoi tempi, ha scritta la Storia della Pestilenza accaduta al tempo appunto in cui viveva, e fa una vivissima compassione la sola idea dell’esterminio, a cui soggiacque la nostra patria in quel tempo. Si tratta niente meno che della distruzione di due terze parti dei cittadini.1 La crudelissima pestilenza fu delle più spietate che rammemori la storia. Alla distruzione fisica si accoppiarono tutti i più terribili disastri morali. Ogni legame sociale si stracciò; niente era più in salvo, nè le sostanze, nè la vita, nè l’onestà delle mogli; tutto era esposto alla inumanità, e alla rapina di alcuni pessimi uomini, i quali tanto ferocemente operavano nel seno della misera lor patria spirante, come appena un popolo selvaggio farebbe nel paese nemico. I Monati, classe di uomini trascelta per assistere gli ammalati. invadevano le case; trasportavano le robe che vi trovavano; violavano le figlie e le consorti impunemente sotto gli occhi dell’agonizzante padre o marito; obbligavano a redimersi colla somma di danaro che lor piaceva i parenti, colla minaccia di trasportare i figli o le spose, benchè sani, al lazzaretto. I giudici tremanti per la propria vita ricusavano ogni ufficio. Varj ladroni, fingendosi Monati, invadevano e saccheggiavano ogni cosa: tale è lo spettacolo che ci viene descritto dal Ripamonti, che pianse siccome egli attesta, più e più volte in vista di sì orrende calamità.2 Tali erano i costumi, tale era lo spirito che agitò i nostri antenati in quel tempo, che forse troppo incautamente, taluni vorrebbero far ritornare coi loro voti.
La storia di questa sciagura conviene cominciarla da un dispaccio che dalla corte di Madrid venne al marchese Spinola, allora governatore. Il dispaccio era firmato dal re Filippo IV. Rara cosa assai era in que’ tempi la venuta di un dispaccio, ed era questo un avvenimento che occupava tutta la città, poichè non si partiva dalla corte un reale rescritto se non per gravissime cagioni. Il dispaccio avvisava il governatore, essere stati osservati in Madrid quattro uomini che avevan portati degli unguenti per recare la pestilenza in quella reale città, essere costoro fuggiti; non sapersi in qual parte si fossero essi rivolti per recarvi le malefiche unzioni; quindi se ne avvisava il governatore, acciocchè attentamente vegliasse in difesa anche del Milanese. Hae litterae, dice il Ripamonti, pag. 112, quia Majestatis ipsius chirographo subsignatae fuerunt, grande sanè momentum inclinandis ad pessima quaeque credenda animis facere potuerunt. In quei tempi l’ignoranza delle cose fisiche era assai grande. Taluno avrà pensato allora: È egli possibile il formare una materia che toccandosi dia la pestilenza? Se anche sia possibile potrà un uomo portarla seco senza caderne vittima? Quattro uomini collegansi per un tale viaggio, e girano il mondo colla pestilenza nelle ampolle per divulgarla! A qual fine? Per quale utilità? Ma i pochi che avranno così pensato non avranno avuto ardire di palesarlo; l’autorità di un dispaccio, l’opinione popolare erano terribili contrasti che esponevano a troppo grave pericolo l’uomo che avesse annunziata questa verità. Si sparse adunque l’opinione e il sospetto generalmente di queste malefiche unzioni.
Sappiamo dalla storia come fossero allora governati i popoli sotto Filippo IV. La pestilenza della Germania per la Valtellina liberamente entrò nel Milanese, portatavi dalle truppe imperiali che transitarono per innoltrarsi a Mantova, poco dopo la vociferazione del dispaccio3. Ma l’opinione comune del popolo volle ostinatamente piuttosto credere, essere la vociferata pestilenza un’artificiosa invenzione de’ medici per acquistar lucro, anzichè esaminare e chiarire il fatto. Era forse una tal diffidenza l’effetto della lunga serie d’inganni sofferti dalla classe superiore. Inutilmente i medici più istruiti divulgavano le prove degli ammalati che avevano veduto a morire di pestilenza, che la plebe sempre li risguardava come autori di una malignamente immaginata diceria. Celebre è il fatto accaduto al venerabile nostro Ludovico Settala, uomo sommo per que’ tempi, non tanto per l’erudizione, la coltura, la scienza medica e le cognizioni di storia naturale di cui il nostro museo ebbe fra i contemporanei d’Europa il primato, quanto per la nobiltà e virtù del suo animo, che disinteressatamente e instancabilmente usò dei talenti a beneficio del popolo. Questi mentre cavalcava, siccome allora era costume de’ medici, venne attorniato tumultuosamente da una folla di uomini, donnicciuole, fanciulli, ed ogni classe di plebaglia, indi villanissimamente insultato quale principale autore della opinione che nella città vi fosse la pestilenza, che le turbe esclamavano essere unicamente ne’ peli della di lui barba: Ita gravissimus optimusque senex, et antistes sapientiae Septalius, qui innumeris pene mortalibus vitam excellentia artis, quive multis etiam liberalitate sua subsidia vitae dederat, ob petulantiam, stoliditatemque multitudinis periculum adiit. Così il Ripamonti, pag. 56.
Convenne finalmente col crescere della peste e il moltiplicarsi giornalmente il numero de’ morti disingannare il popolo, e persuaderlo che il malore purtroppo era nella città, e laddove i discorsi nessun effetto producevano, si dovettero far manifesti sopra gran carri gli ammassi de’ cadaveri nudi aventi i bubboni venefici, e così per le strade dell’affollata città girando questo spettacolo portò infine la convinzione negli animi, e forse propagò più estesamente la pestilenza. Allora fu che il popolo furiosamente si rivolse ad ogni eccesso di demenza. Nei disastri pubblici l’umana debolezza inclina sempre a sospettarne cagioni stravaganti anzi che crederli effetti del corso naturale delle leggi fisiche. Veggiamo i contadini attribuir la gragnuola non già alle leggi delle meteore, ma piuttosto alle streghe. Veggiamo i saggi Romani istessi al tempo, in cui erano rozzi, cioè l’anno di Roma 423 sotto Claudio Marcello e Cajo Valerio, attribuire la pestilenza, che gli afflisse a’ veleni apprestati da una troppo inverosimile congiura di matrone romane: come Livio, lib. VIII, cap. XII, Dec. I: Proditum falso esse venenis absumptos, quorum mors infamem annum pestilentia fecerit. Veggiamo in Napoli, pure nel secolo scorso, cioè nel 1656, attribuita la pestilenza agli Spagnuoli o allo stesso viceré per rovinare il popolo con polveri pestifere, e si credette che per la città andavano girando persone con polveri velenose e che bisognava andar di loro in traccia per isterminarle; così in varie truppe uniti andavan cercando questi sognati avvelenatori, ed avendo incontrati due soldati del torrione del Carmine, affin di attaccar brighe che poi finissero in tumulti, avventaronsi sopra di essi, imputandoli di aver loro trovato addosso la sognata polvere. Al rumore essendo accorsa molta gente, per buona sorte vi capitò ancora un uomo dabbene, il quale con soavi parole e moderati consigli li persuase che dassero nelle mani della giustizia uomini cotanto scellerati, affine, oltre del supplizio che di lor si sarebbe preso, si potesse da essi sapere l’antidoto al veleno, e con tale industria gli riuscì di salvarli; ma appena saputosi che quei due soldati uno era di nazione Francese e l’altro Portoghese, ed uscita anche voce che cinquanta persone con abiti mentiti andavan spargendo le polveri velenose, si videro maggiori disordini; poichè tutti coloro che andavan vestiti con abiti forastieri, e con scarpe o cappelli o altra cosa differente dal comune uso de’ cittadini, correvan rischio della vita. Per acchetar dunque la plebe bisognò far morire sopra la ruota Vittorio Angelucci reo per altro di altri delitti, tenuto costantemente dal volgo per disseminatore di polveri, ma nell’istesso tempo fu presa rigorosa vendetta degl’inventori di questa favola, molti di essi essendosene stati in oscure carceri condotti, cinque di loro in mezzo al mercato sulle forche perderono ignominiosamente la vita, e in cotal guisa furono i rumori quietati: così Giannone al lib. XXXVII, cap. VII. Non è dunque da meravigliarsi se anche in Milano, in mezzo a tanta e sì crudele sciagura, sotto un così maligno flagello, se ne sospettasse volgarmente la cagione nella malignità degli uomini, e si credesse verificato il danno predetto del reale dispaccio e prodotto lo sterminio dalle malefiche unzioni. Simili opinioni, quanto sono più stravaganti, tanto più trovano credenza; perchè appunto di uno stravagante effetto se ne crede stravagante la cagione, e più si gode nel trovarne l’origine nella malizia dell’uomo, che si può contenere, anzi che nella implacabile fisica che si sottrae alle umane istituzioni. In quel secolo poi sappiamo quale fosse la coltura degli studj, unicamente rivolti alle parole ed ai delirj della immaginazione. L’opinione quindi delle unzioni malefiche divenne generalmente la trionfante: ogni macchia che apparisse sulle pareti era un corpo di delitto: ogni uomo che inavvedutamente stendesse la mano a toccarle era a furore di popolo strascinato alle carceri, quando non fosse massacrato dalla stessa ferocia volgare. Il Ripamonti riferisce due fatti, dei quali è stato testimonio oculare. Uno, di tre Francesi viaggiatori i quali esaminando la facciata del duomo toccarono il marmo, e furono percossi malamente e strascinati in carcere assai mal conci; l’altro d’un povero vecchio ottuagenario di civile condizione, il quale prima di appoggiarsi alla panca nella chiesa di S. Antonio levò, col passarvi il mantello, la polvere: quell’atto, credutosi una unzione, inferocì il popolo nella casa del Dio di mansuetudine, e presolo pe’ pochi capegli e per la barba a pugni, calci ed ogni genere di percosse, non l’abbandonò se non poichè lo rese cadavere. Tale era lo spirito di que’ tempi.
La pestilenza andava sempre più mietendo vittime umane, e si andava disputando sulla origine di quella anzichè accorrervi al riparo. Gli uni la facevano discendere da una cometa che fu in quell’anno osservata nel mese di giugno truci ultra solitum etiam facie, come scrive il Ripamonti, pag. 110. Altri ne davano l’origine agli spiriti infernali, e v’era chi attestava d’avere distintamente veduto giungere sulla piazza del duomo un signore strascinato da sei cavalli bianchi in un superbo cocchio, e attorniato da numeroso corteggio. Si osservò che il signore aveva una fisonomia fosca ed infuocata; occhi fiammeggianti, irsute chiome e il labbro superiore minaccioso. Entrato questi nella casa, ivi furono osservati tesori, larve, demonj e seduzioni d’ogni sorta, per adescare gli uomini a prendere il partito diabolico: di tali opinioni se ne può vedere più a lungo la storia nel citato Ripamonti a pag. 77. Fra tai delirj si perdevano i cittadini anche più distinti e gli stessi magistrati; e in vece di tenere con esatti ordini segregati i cittadini gli uni dagli alti, in vece d’intimare a ciascuno di restarsene in casa, destinando uomini probi in quartieri diversi per somministrare quanto occorreva a ciascuna famiglia, rimedio il solo che possa impedire la comunicazione del malore, e rimedio che adoperato da principio avrebbe forse con meno di cento uomini placata la pestilenza; in vece, dico, di tutto ciò. si è comandata con una mal intesa pietà una processione solenne4, nella quale si radunarono tutti i ceti de’ cittadini, e trasportando il corpo di S. Carlo per tutte le strade frequentate della città, ed esponendolo sull’altar maggiore del duomo per più giorni alle preghiere dell’affollato popolo, prodigiosamente si comunicò la pestilenza alla città tutta, ove da quel momento si cominciarono a contare sino novecento morti ogni giorno. In una parola, tutta là città immersa nella più luttuosa ignoranza si abbandonò ai più assurdi e atroci delirj: malissimo pensati furono i regolamenti, stranissime le opinioni regnanti, ogni legame sociale venne miseramente disciolto dal furore della superstiziosa credulità; una distruttrice anarchia desolò ogni cosa, per modo che le opinioni flagellarono assai più i miseri nostri maggiori di quello che lo facesse la fisica in quella luttuosissima epoca: si ricorse agli astrologi, agli esorcisti, alla inquisizione5, alle torture, tutto diventò preda della pestilenza, della superstizione, del fanatismo e della rapina; cosicchè la proscritta verità in nessun luogo potè palesarsi. Cento quaranta mila cittadini Milanesi perirono scannati dalla ignoranza.
- ↑ Conjectura tamen aestimatioque communis fuit: centum quadraginta millia capitum fuisse, quae perierunt; reperique ita prescriptum in tabulis, rationisbusque iisdem, unde haec mihi petita sunt omnia, quae retuli: così il Ripamonti, pag. 228; e queste tabelle erano quelle del tribunale civico di provvisione, al quale dedicò quell’opera, essendo egli cronista della nostra città.
- ↑ Speciata cuncta hisce oculis, et saepe defleta narraturus sum: così il Ripamonti medesimo sul principio della sua Storia, pag. 16.
- ↑ Sino dall’ottobre 1628 venne il tribunale di provvisione avvisato dal tribunale di sanità, come la pestilenza, che allora desolava la Francia, la Fiandra, la Germania, si era innoltrata a Berna, nel Vallese, a Lucerna e nelle terre de’ Grigioni, Ripam., pag. 189.
- ↑ La stessa incautissima pietà cagionò a Napoli ventisei anni dopo lo sterminio medesimo, cioè l’anno 1656: su di che veggasi la Storia civile di Napoli del Giannone, al lib. XXXVII, cap. 7.
- ↑ I Domenicani della inquisizione assicurarono l’Arconati, presidente della sanità, di avere precettato il diavolo, onde dopo il tal giorno non vrebbe più avuta podestà sulla vita dei Milanesi; il che seriamente l’inquisitore lo comunicò al presidente, e seriamente lo racconta il Ripamonti in prova della verità delle unzioni sortileghe: così egli, pag. 116: Ac ne dubitari posset el fieri haec, et esse dacmonem artificem operis: constitit in medio luctu, et penè in media desperatione civitatis significasse sanci Officii patres, et affirmasse praesidi Archonato, quemadmodum certa dies esset praefinita daemoni, ultra quam diem, nulla potestas inferis, nulla licentia orco in populi Mediolanensis vitam. Haec verba praeses sanctissimi tribunalis inquisitor, praesidi nostro effatus litem quae de unguentis esset potuit videri diremisse authoritate apostolica, quae nec fallere, nec falli potest; il che prova che allora vi era chi non credeva a queste unzioni, come in seguito si vedrà.