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§. X.
Se le leggi e la pratica criminale risguardino la Tortura come un mezzo per avere la verità.
Ho stabilito di provare in secondo luogo che le leggi e la pratica istessa de’ criminalisti non considerano la tortura come un mezzo per distinguere la verità. Ciò si conosce facilmente osservando, che non trovasi prescritto alcun metodo o regolamento nel Codice Teodosiano, e nessuno parimenti nel Codice Giustinianeo per applicare ai tormenti i sospetti rei. In quegli sterminati ammassi di leggi e prescrizioni, ove si sminuzzano le minime differenze de’ casi e civili e criminali, niente si prescrive per la tortura. Se la legge adunque avesse risguardati questi tormenti come un mezzo per iscoprire la verità, non se ne sarebbe fatta una omissione in ambo i Codici del modo, de’ casi e delle riserve colle quali si dovesse adoperare. Concludo adunque dal silenzio stesso del corpo delle leggi, che la legge non considera la tortura come un mezzo per rintracciare la verità. Se poi il solo argomento negativo non sembrasse bastante a dimostrar questa verità, veggasi la legge 1, § 23, ff. De quaestionibus, ove ben lontano lo spirito delle leggi romane dal riguardare la tortura come un mezzo da rinvenire la verità, anzi vi si legge: «La tortura è un mezzo assai incerto e pericoloso per ricercare la verità, poichè molti colla robustezza e la pazienza superano il tormento e in nessun modo parlano; altri insofferenti mentiscono mille volte, anzichè resistere al dolore;» Quaestio res est fragilis et periculosa, et quae veritatem fallat. Nam plerique patientia, sive duritia tormentorum illa tormenta contemnunt, ut exprimi eis veritas nullo modo possit; alii tanta sunt impatientia, ut quodvis mentiri, quam pati tormento velint. Così si esprime positivamente il Digesto, e tale era l’opinione de’ Romani, nostri legislatori e maestri, i quali conoscevano l’uso della tortura sopra gli schiavi, siccome vedremo poi. Dunque la legge non risguarda la tortura come un mezzo per la scoperta della verità.
Io però ho asserito di più, che non solamente la legge, ma nemmeno la pratica criminale considera la tortura per un mezzo d’avere la verità. Pare questo un paradosso, eppure io credo di poterlo evidentemente dimostrare.
Primieramente, se i dottori risguardassero la tortura come un mezzo per iscoprire la verità nei delitti, non escluderebbero sè medesimi dall’essere torturati, poichè è tale l’interesse dell’umana società che i delitti si scoprano, che nessuno può essere sottratto dai mezzi di scoprirli; in quella guisa che nessuno sottratto de’ dottori dalla pena di morte, esilio, ecc., ogni qual volta co’ suoi delitti l’abbia meritata. Io perdonerò se ciascun cerchi di rialzare il proprio mestiero, e non mi farà maraviglia che il Wesembeccio1 dica che i dottori sono per dignità eguali ai nobili e decurioni, e per meriti eguali ai militari: Doctores nobilibus et decurionibus dignitate, militibus autem meritis aequiparantur; ma non sarebbe perdonabile alcuno, che osasse dare alla propria facoltà una impunità nei delitti. Se adunque i nobili e i dottori sono privilegiati per la tortura, segno è che non viene essa dai criminalisti considerata come un mezzo per avere la verità.
Secondariamente, se i dottori considerassero la tortura come un mezzo per avere la verità, prescriverebbero di attenervisi, e considerare per certo quello che un tormentato dice fra i tormenti. La pratica però ordina che ciò non sia attendibile, se l’uomo qualche tempo dopo, e in luogo lontano da ogni apparecchio di tortura, non ratifica l’accusa fatta a sè medesimo, acciocchè non rimanga sospetto che la violenza dello spasimo abbia indotto il torturato ad accusarsi indebitamente. Dunque la pratica stessa criminale non risguarda lo strazio della tortura come un mezzo per avere la verità. Questa pratica si è veduta eseguita anche sugl’infelicissimi Piazza e Mora: ed è poi una contraddizione veramente barbara quella di rinnovare la tortura all’uomo che revochi l’accusa fattasi nei tormenti. Alcuni dottori trovano giusta una tale alternativa indefinitivamente, per quante volte il torturato disdice l’accusa datasi2; cosicchè o deve alla fine morire di spasimo ripetuto, ovvero perseverare anche fuori del tormento ad accusare sè stesso. Altri dottori limitano questa alternativa a tre torture, come il Claro3. Se dunque la stessa pratica criminale insegna di non credere a quanto un torturato dice in propria accusa fra i tormenti della tortura, ma esige che l’accusa la ratifichi con tranquillità e libero dallo spasimo, forza è concludere ad evidenza, che la stessa pratica criminale non considera la tortura come un mezzo da conoscere la verità.
- ↑ In Paratitl, num. 10
- ↑ Bartolus, in leg. unius, § reus in ult. verb. ff. de quaestionib.; et ita tenent communiter doctores, ut dixit Blancus de Indic., n. 219. Hanc etiam esse communem opinionem testatur Bossius, tit. de Tortura, n. 34, ubi etiam subdit quod ita est in praxi absque ulla haestiatione.
- ↑ Sententiar., Lib. V, Quaest. XXI, num. 36.