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170 rime varie

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CLXVIII.[1]

Per un dono avuto.

O leggiadretta man, ch’almo lavoro
D’ampia Veneta rete[2] a me tessevi,
Stringermi forse infra i tuoi lacci d’oro
4 Piú ch’io nol fossi or col bel don credevi?
Io mille volte il dí per te mi moro,
Donna; e tu il vedi in quei momenti brevi,
(Che non so se piú sien pena o ristoro)
8 In cui cogli occhi tuoi mia fiamma bevi.
M’è caro il don; ma inutil era; io cinto
Son di te tutto in ogni tempo e loco,
11 E il sarò sí fin ch’io rimanga estinto.
Se in contraccambio il verseggiar mio fioco[3]
Offrirti osassi, ei rimarria pur vinto;
14 Perché al troppo[4] ch’io sento, i’ direi poco.

CLXIX.[5]

A quarantaquattro anni.

Del mio decimo lustro, ecco, già s’erge
L’antipenultim’anno, e a caldo passo
Spinge la ruota[6] mia piú sempre al basso,
4 Dove il fral nostro in alto[7] oblío s’immerge.
Ma la parte dell’uom, che viva emerge
Dal sepolcrale grave invido sasso,[8]


  1. Nonostante le mille proteste di eterno amore che leggonsi e nell’Autobiografia e nel Canzoniere, il nostro Poeta, già lo dicemmo, non fu sempre fedele alla Contessa; anzi, ebbe negli ultimi anni varie passioncelle, tutte di breve durata; la prima sul cadere del ’94, probabilmente, come pensa il Bertana, (Op. cit., Ultimi anni), per una fanciulla; alla quale è indirizzato il sonetto surriferito (composto «sull’alba, in letto, il 22 dicembre 1794)» ed altri del medesimo tempo. Questo son. fu primamente pubblicato dal Fabris, per nozze Zamparo-Prucher, Udine, Coop., 1892.
  2. 2. La rete Veneta, che credo sia una cosa sola col punto veneto, è una trina rappresentante foglie e fiori, tenuti insieme da fili molto distanti uno dall’altro.
  3. 12. Fioco, stanco, affievolito.
  4. 14. Al troppo, in confronto del troppo; ugualmente agli ultimi versi del son. S’io t’amo, o donna! Io nol diria volendo.
  5. Questo sonetto fu composto il 27 decembre, in Boboli.
  6. 3. La ruota, della mia vita.
  7. 4. Il fral nostro, il nostro corpo; alto, profondo.
  8. 5-6. Ciò che rimane di noi, dopo la morte, in virtú delle opere nostre. Invido, perché tutto vorrebbe rapire.
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