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DAL MISOGALLO
Avviso al lettore.
λεγόμενον ἐρέω. Pindaro, Piz., V, v. Dico, ridico, e ognor piú torno a dire.[1] |
In mille guise, due sentenze sole
Questo miscuglio garrulo[2] racchiude:
Che libertà è virtude;
4 E che i Galli esser liberi, son fole.[3]
Chi già il sapea, non logori qui gli occhi;
Chi non vuol creder, tocchi.[4]
Invocazione.
19 agosto 1796.
O sovra i Numi tutti augusto Nume,[5]
Che di te stessa i tuoi devoti appaghi;[6]
Verità, norma prima, eccelso lume
4 Di quanti havvi quaggiú di virtú vaghi:[7]
Tu che la mente, e l’anima, e il costume,
E in cuor dell’uom le ascose fibre indaghi;
- ↑ Nell’aut. eravi qui, in luogo della presente citazione, quella delle Eumenidi, che fu poi posta a capo del sonetto III (E.).
- ↑ 2. Garrulo, loquace, abbondante di parole.
- ↑ 4. Son fole, son pazzie, sono ubbie: schiavi sono, e schiavi resteranno per sempre.
- ↑ 6. Tocchi, ne faccia l’esperimento, se ne accerti.
- ↑ 1. La dea invocata in questo sonetto è la Verità, come è detto nel terzo verso.
- ↑ 2. Intendasi: chi ama la verità, altro non cerca se non i piaceri che essa procura.
- ↑ 4. Vaghi, desiderosi. Ricorda il pensiero del Petrarca (Rime, CXXVIII):
Ivi fa che ’l tuo vero,
(Qual io mi sia) per la mia lingua s’oda.
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