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di scrivere nella propria lingua 337

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Al pericolo di non usare scrivendo per latino le voci proprie, si aggiunge anche quello non punto minore, che nello stile che nasce dall’insieme di esse non vi abbia naturalezza, nè unità. Dal dover noi raccogliere le parole di pochi e morti scrittori quasi gocciole dalle grondaje, dice il Davanzati, tutti differenti di genere e di stile, e non potere attingere al perenne fonte della città, ne viene in conseguenza che si va riducendo insieme un componimento di frasi latine bensì, ma che non è per niente latino: unus et alter assuitur pannus; e il risultato non può essere altro che uno stile rotto, stentato e non di vena. Onde de’ latinanti della età sua ebbe a dire ne’ giudiziosi suoi capricci quel bell’umore del Gelli: Facciano quanto sanno; e’ non si vede mai ne’ loro scritti quel candore, nè quello stile che è ne’ Latini proprj.

Nello stato presente della lingua latina ristretta, come abbiam detto, in picciol numero di autori, non basterebbe già ella a’ Romani stessi per esprimere tutti i loro concetti: e molto meno dovrà bastare a noi, i quali dovremmo in essa esprimere tante nuove cose apparite nel mondo, per quanto si spetta alle arti, alle scienze, ai traffici, ai governi, alle religioni, dopo che è spenta quella lingua. Nè lecito è a noi, essendo ella pur morta, il pensare di potervi aggiugnere nulla di nuovo. Le lingue nascono povere, dice Bernardo Tasso[1]: e siccome i principi fanno agli uomini

  1. Lettere di Bernardo Tasso al Caro, vol. I, ediz. Com. lettera I del primo volume.
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