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La «universitas bobacteriorum Urbis» | 167 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Archivio della R. Società Romana di Storia Patria - Vol. XVI.djvu{{padleft:171|3|0]]diti agricoli, bensì in pedagi, in tasse di focatico e nei proventi delle saline. E che questi fossero i cespiti principali, anche durante il secolo xiv, si vede dalle parole che indirizzava Cola di Rienzo al popolo sull’Aventino, per eccitarlo alla sommossa[1]; egli scriveva poi a Clemente VII di aver fatto ascendere il reddito delle saline a trentamila fiorini annui[2]; e per redimere Vetralla, nel 1379, il popolo romano vendette quattromila rubbia di sale[3]. Che le campagne poco rendessero lo dimostra poi evidentemente il canone imposto nel 1300 da Roma a Toscanella di duemila rubbia di grano all’anno, colla facoltà di esigere mille lire,, nel caso che l’Agro romano somministrasse frumento sufficiente alla città[4]. Dal che si vede come non si poteva esser sicuri sul raccolto di ciascun anno e còme fosse necessaria una forte importazione. Quel poco che si poteva avere dalle campagne era tutto in mano della nostra Arte. Basta dare un’occhiata ai suoi statuti per persuadersene: i bobacterii ci appariscono difatti come i proprietari delle biade, da cui i cittadini romani prendevano a mutuo il grano o l’orzo &c. per la semina. Cosi: «quicumque recepit ab aliquo bobacterio aliquam quantitatem frumenti. . .»[5]; «item quod nullus bobacterius . . . qui aliquam quantitatem grani. . . alieni dederit» &c.[6]; «item quod illi, qui... ab aliquo bobacterio quantitatem grani receperit»[7], dimostrano come l’Arte dei bovattieri fosse la sola, che potesse disporre di questi generi. Che se altri vi fosse stato, era soggetto alle leggi dell’Arte