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92 i cinque canti.

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Dentro un castel che fu per guardia sito[1]
Di quella parte ov’è men forte il lito;

56 Chè da quel canto il re mio padre Ottone
Temea che fosse l’isola assalita.
Signor di quel castello era un barone
Ch’avea la moglie di beltà infinita;
La qual tosto ch’io vidi, ogni ragione,
Ogni onestà da me fece partita;
E tutto il mio voler, tutto il mio core
Diedi in poter del scelerato amore.

57 E senza avere all’onor mio riguardo,
Chè quivi ero signor, egli vassallo
(Chè contra un debol, quanto è più gagliardo
Chi le forze usa, tanto è maggior fallo),
Poi che dei prieghi ire il rimedio tardo,
E vidi lei più dura che metallo,
All’insidie aguzzar prima l’ingegno
Ed indi alla violenza ebbi il disegno.

58 E perchè, come i modi miei non molto
Erano onesti, così ancor nè ascosi,
Fui dal marito in tal sospetto tolto,
Che in lei guardar passò tutti i gelosi.
Per questo non pensar che ’l desir stolto
In me s’allenti o che giammai riposi;
Ed uso atti e parole in sua presenza
Da far rompere a Giob la pazïenza.

59 E perchè aveva pur quivi rispetto
D’usar le forze alla scoperta seco,
Dov’era tanto popolo, in cospetto
De’ prencipi e baron che v’eran meco;
Pur pensai di sforzarlo, ma l’effetto
Coprire, e lui far in vederlo[2] cieco;
E mezzo a questo un cavalier trovai,
Il qual molto era suo, ma mio più assai.

60 A’ prieghi miei, costui gli fe vedere,
Com’era mal accorto e poco saggio
A tener dov’io fossi la mogliere,
Che sol studiava in procacciargli oltraggio;


  1. Add., per Situato. Ne produssero esempio di prosatore le Giunte Veronesi.
  2. Nel vedere l’effetto, o fatto.
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