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satira terza. 179

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303L’angel da Dio mandato in Galilea.
  Il diavol, riputandosi a gran scorno
Se fosse in cortesía da costui vinto,
306Gli apparve in sogno un poco innanzi il giorno;
  E gli disse in parlar breve e succinto
Chi egli era, e che venía per render merto
309Dell’averlo sì bel sempre dipinto:
  Però lo richiedesse, e fosse certo
Di subito ottener le sue dimande,
312E di aver più che non se gli era offerto.
  Il meschin, ch’avea moglie d’ammirande
Bellezze, e ne vivea geloso, e n’era
315Sempre in sospetto ed in angustia grande;
  Pregò che gli mostrasse la maniera
Che s’avesse a tener perchè il marito
318Potesse star sicur della mogliera.
  Par che ’l diavolo allor gli ponga in dito
Uno anello, e ponendolo gli dica:
321— Fin che cel tenghi, esser non puoi tradito. —
  Lieto che omai la sua senza fatica
Potrà guardar, si sveglia il mastro, e truova
324Che ’l dito alla mogliera ha nella fica.
  Questo anel tenga in dito, e non lo mova
Mai chi non vuol ricevere vergogna
327Dalla sua donna; e a pena anco gli giova,
  Pur ch’ella voglia, e farlo si dispogna.




SATIRA QUARTA.




AL MEDESIMO.


  Poi che, Annibale, intendere vuoi come
La fo col duca Alfonso,[1] e s’io mi sento
3Più grave, o men, delle mutate some;


  1. Dopo la morte del cardinale Ippolito, il duca Alfonso richiamò presso di sè il nostro poeta, mostrandosi in più guise disposto a beneficarlo; come n’è prova, tra le altre, la Satira VI.
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