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SATIRA QUINTA.
A MESSER SISMONDO MALEGUCCIO.[1]
Il vigesimo giorno di febbrajo
Chiude oggi l’anno, che da questi monti,
3Che dànno a’ Toschi il vento di rovajo,
Qui scesi,[2] dove da diversi fonti
Con eterno rumor confondon l’acque
6La Turrita col Serchio fra duo ponti;
Per custodir, come al signor mio piacque,
Il gregge Garfagnin, che a lui ricorso
9Ebbe, tosto che a Roma il Leon giacque;
Che spaventato e messo in fuga e morso
Gli l’avea dianzi, e l’avria mal condotto,
12Se non venía dal ciel giusto soccorso.
E questo in tanto tempo è il primo motto
Ch’io fo alle Dee che guardano la pianta
15Delle cui frondi io fui già così ghiotto.
La novità del loco è stata tanta,
C’ho fatto come augel che muta gabbia,
18Che molti giorni resta che non canta.
Maleguzzo cugin, che taciuto abbia
Non ti meravigliar; ma meraviglia
21Abbi che morto io non sia ormai di rabbia,
Vedendomi lontan cento e più miglia,
E da neve, alpe, selve e fiumi escluso
24Da chi tien del mio cor sola la briglia.[3]
Con altre cause e più degne mi escuso
Con gli altri amici (a dirti il ver); ma teco
- ↑ Fratello di Annibale, cui sono dirette le due precedenti Satire.
- ↑ Cioè in Castelnuovo, terra principale della Garfagnana. Vi passa il fiume Serchio, nel quale non lungi di là imbocca la Turrita. Poco dopo la morte di Leone X, la Garfagnana, sottraendosi all’occupazione delle armi pontificie, si restituì al suo antico signore, il duca di Ferrara, che vi mandò l’Ariosto governatore. — (Molini.)
- ↑ Cioè, come tutti credono, la vedova Strozzi.