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satira sesta. | 201 |
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A sè mi chiami; e mai più non mi mandi
162Più là d’Argenta o più qua del Bondeno.[1]
Se, perchè amo sì il nido, mi domandi,
Io non te lo dirò più volentieri,
165Ch’io soglia al frate i falli miei nefandi;
Chè so ben che diresti: — Ecco pensieri
D’uom che quarantanove anni alle spalle
168Grossi e maturi si lasciò l’altr’jeri. —
Buon per me, ch’io m’ascondo in questa valle,
Nè l’occhio tuo può correr cento miglia
171A scorger se le guancie ho rosse o gialle!
Che vedermi la faccia più vermiglia,
Ben ch’io scriva da lunge, ti parrebbe
174Che non ha madonna Ambra nè la figlia:
O che ’l padre canonico non ebbe,
Quando il fiasco del vin gli cadde in piazza,
177Che rubò al frate, oltre li dui che bebbe.
S’io ti fossi vicin, forse la mazza
Per bastonarmi piglieresti tosto
180Che m’udissi allegar che ragion pazza[2]
Non mi lasci da voi viver discosto.
SATIRA SETTIMA.
A MESSER PIETRO BEMBO.
Bembo, io vorrei, com’è il comun desio
De’ solleciti padri, veder l’arti
3Che esaltan l’uom, tutte in Virginio mio.[3]
E perchè di esse in te le miglior parti
- ↑ Argenta e Bondeno, castelli l’uno al levante, l’altro al ponente di Ferrara; l’uno al confine del modenese, l’altro del ravennate. — (Molini.)
- ↑ M’udiste allegare qual pazza ragione non mi lasci ec.
- ↑ Ebbe l’Ariosto due figli naturali: uno chiamato Giambatista, che si diede all’arte della guerra; l’altro Virginio, che nel 1531 fu da lui mandato a stadio in Padova, come si prova da una commendatizia (vedasi tra le Lettere da noi riprodotte la XI) con cui lo affida al Bembo; e coltivò, ad esempio del padre, le lettere amene. — (Molini.)