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satira settima. | 209 |
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219Con dolce emulazion solea far ire;
Il mio parente, amico, fratello, anzi
L’anima mia, non mezza no, ma intiera,
222Senza ch’alcuna parte me ne avanzi;
Morì Pandolfo,[1] poco dopo. Ah fera
Scossa che avesti allor, stirpe Arïosta,
225Di ch’egli un ramo, e forse il più bello, era!
In tanto onor, vivendo, t’avría posta,
Ch’altra a quel, nè in Ferrara nè in Bologna,
228Ond’hai l’antiqua origine,[2] s’accosta.
Se la virtù dà onor, come vergogna
Il vizio; si potea sperar da lui
231Tutto l’onor che buono animo agogna.
Alla morte del padre e delli dui
Sì cari amici, aggiungi che dal giogo
234Del cardinal da Este oppresso fui;
Che dalla creazione insino al rogo
Di Giulio, e poi sette anni anco di Leo,[3]
237Non mi lasciò fermar molto in un luogo,
E di poeta cavallar mi feo:
Vedi se per le balze e per le fosse
240Io potevo imparar greco o caldeo.
Mi maraviglio che di me non fosse
Come di quel filosofo, a chi il sasso
243Ciò che innanzi sapea, dal capo scosse.[4]
Bembo, io ti prego insomma, pria che ’l passo
Chiuso gli sia, ch’al mio Virginio porga
246La tua prudenza guida, che in Parnasso,
Ove per tempo ir non sepp’io, lo scorga.
- ↑ Era figliuolo di Malatesta Ariosti. Ignorasi l’anno preciso della sua morte, che il Baruffaldi argomenta dovesse accadere tra il 1500 e il 1503.
- ↑ Poco più di quanto qui se ne accenna seppe dirci su tal proposito il Baruffaldi. Vedi Vita ec., pag. 10.
- ↑ Dagli undici di novembre 1503, in cui fu eletto Giulio II, sino agli undici marzo 1519, quando principiò l’anno settimo di Leone X, passarono anni quindici e mesi quattro: e se vogliasi a tutto intiero l’anno, che finì li 10 marzo del 1520, passarono anni sedici e quattro mesi. — (Barotti.)
- ↑ Allude a un fatto accaduto a un eruditissimo ateniese (di cui peraltro s’ignora il nome), il quale, cadutogli sul capo un sasso, dimenticò tutte le lettere, da lui con grande ardore coltivate. Si vegga Plinio, lib. VII, cap. 24; Valerio Massimo, lib. I, cap. 8; e Solino, lib. I.
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