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218 | elegia seconda. |
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E vi dovrebbe raffrenar quello anco
30Che di Tiresia e d’Atteon si dice:
De’ quali un fe restar di luce manco
Pallade ultrice,[1] e l’altro fe Diana
33Sfamar i cani suoi del proprio fianco.
Se d’esser sopraggiunte alla fontana
Nudo il bel corpo, così increbbe ad esse,
36Che vendetta ne fêro acerba e strana;
Non fôra oltre ragion che mi dolesse
Che voi molto più addentro che alle gonne
39Veder cercate come il cor mi stesse.
Non son già del valor di quelle donne,
Nè sì crudel ch’a voi facessi il danno
42Ch’elle fêro a Tiresia e ad Atteonne:
Dicovi ben, che ’l dritto lor non fanno
Quei che lo studio e tutto il pensier loro
45Sol per volere interpretar posto hanno
Questa mia negra penna in fregio d’oro.
ELEGIA TERZA.
Meritamente ora punir mi veggio
Del grave error che a dipartirmi feci
3Della mia donna, e degno son di peggio.
Ben poco saggio fui, ch’all’altrui preci,
Cui doveva e potei chiuder gli orecchi,
6Più ch’al mio desir proprio soddisfeci.
S’esser può mai che contra lei più pecchi,
Tal pena sopra me subito cada,
9Che nel mio esempio ogni amator si specchi.
Deh! chi spero io che per sì iniqua strada,
Sì rabbiosa procella d’acqua e venti,
12Possa esser degno che a trovar si vada?[2]
- ↑ Qui l’Ariosto segue il detto di Callimaco, cioè che Tiresia divenisse cieco per avere veduta Pallade ignuda in una fonte.
- ↑ Cioè: possa esser degno che per altri si vada a trovarlo? Il poeta qui parla di sè stesso, rispettivamente alle asprezze del paese e del clima della Garfagnana, al cui governo recavasi nel febbrajo del 1522. Si rilegga la Satira V.