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220 | elegia terza. |
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Non più tranquille già nè più serene
Ore attender poss’io; ma al fin di queste
54Pene e travagli, altri travagli e pene.
Altre pioggie al coperto, altre tempeste
Di sospiri e di lagrime mi aspetto,
57Che mi sien più continue e più moleste.
Duro sarammi più che sasso il letto,
E il cor tornar per tutta questa via[1]
60Mille volte ogni dì sarà costretto:
Languendo il resto della vita mia,
Si struggerà di stimolosi[2] affanni,
63Percosso ognor da penitenza ria.
I mesi, l’ore e i giorni a parer anni
Cominceranno, e diverrà sì tardo,
66Che parrà il tempo aver tarpato i vanni;
Che già, godendo del soave sguardo,[3]
Dell’invitta beltà, dell’immortale
69Valor, del bel sembiante, onde tutt’ardo,
Vedea fuggir più che da corda strale.
ELEGIA QUARTA.
[4]Era candido il corvo, e fatto nero
Meritamente fu, perchè troppo ebbe
3Espedita la lingua a dir il vero.
Aver taciuto Ascalafo[5] vorrebbe
- ↑ Cioè per quella che allora faceva, recandosi da Ferrara a Castelnovo di Garfagnana.
- ↑ Può aggiungersi, per via di erudizione, agli esempi del trecento prosastici, che sono nel Vocabolario.
- ↑ La stampa del Rolli, colle altre più antiche: «Che già aspettando di furar un guardo Dall’invitta beltà, dall’immortale Valor, da’ bei sembianti ec.»
- ↑ Questa Elegia è scritta dall’autore in nome di qualche sua amica, la quale si lamenta di essere stata incolpata a torto dai malevoli di aver mancato nell’onestà. La trasformazione del corvo di bianco in nero per aver rivelati ad Apollo gli amori di Coronide, madre di Esculapio, con Ischis, è narrata da Apollodoro, lib. 3. — (Molini.)
- ↑ Ascalafo fu trasformato da Proserpina in barbagianni, perchè rivelò aver ella gustato d’una melagrana nel regno del suo rapitore, onde non potè far ritorno alla madre Cerere. — (Molini.)