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230 | elegia nona. |
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Più si perdona all’omicidio e al furto.
36Che al pergiurarsi e all’ingannar chi crede.
Nè mi duol sì che ’l vostro attener curto
M’abbia sommerso al fondo del martire,
39Al fondo onde non son mai più risurto;
Come che per vergogna nè arrossire,
Nè segno alcuno della fede rotta
42Di pentimento in voi veggio apparire.
La fede mai non debbe esser corrotta,
O data a un sol o data ancor a cento,
45Data in palese data in una grotta.
Per la vil plebe è fatto il giuramento;
Ma tra gli spirti più elevati sono
48Le semplici promesse un sagramento.[1]
Voi, donne incaute, alle quali era buono
Esser belle nel cor come nel volto,
51L’un di natura, e l’altro proprio dono;
Troppa baldanza e troppo arbitrio tolto
V’avete, e di poter tutte le cose
54Forse vi par, perchè potete molto.[2]
Se dalle guance poi cadon le rose,
Fuggon le grazie, e si riman la fronte
57Crespa e le luci oscure e lagrimose;
Se l’auree chiome e con tal studio conte
Mutan color, se si fan brevi e rare;
60De’ vostri danni è vostra colpa fonte.
Della vostra beltà che così spare,
Forse natura prodiga non fôra,
63Se voi di vostra fè foste più avare.
Madonna, in nessun luogo, a nessuna ora
D’ordire inganni altrui mai s’ebbe loda,
66Sia a chi si vuol, nè agli nemici ancora.
Chi sarà mai che con più biasmo s’oda
Notar, di quel ch’agli congiunti suoi,
69O di sangue o d’amor, cerchi usar froda?
Tanto più a chi si fida. Or chi di noi
Eran più d’amor giunti? e chi fidarsi
72Puote mai più, ch’io mi facea di voi?