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elegia decimaquarta. | 239 |
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Da quel furor ch’uscì dal freddo clima
Or di Vandali, or d’Eruli, or di Goti,
30All’italica ruggine aspra lima.[1]
Dove son, se non qui, tanti devoti,
Dentro e di fuor, d’arte e d’ampiezza egregi
33Tempî, e di ricche oblazïon non vôti?
Chi potrà a pien lodar li tetti regî
De’ tuoi primati, i portici e le corti
36De’ magistrati, e pubblici collegi?
Non ha il verno poter ch’in te mai porti
Di sua immondizia: sì ben questi monti
39T’han lastricata sino agli angiporti.
Piazze, mercati, vie marmoree e ponti,
Tali belle opre di pittori industri,
42Vive sculture, intagli, getti, impronti;
Il popol grande, e di tant’anni e lustri
Le antiche e chiare stirpi; le ricchezze,
45L’arti, gli studî e li costumi illustri;
Le leggiadre maniere e le bellezze
Di donne e di donzelle, a cortesi atti,
48Senza alcun danno d’onestade, avvezze;
E tanti altri ornamenti che ritratti
Porto nel côr, meglio è tacer, che al suono
51Di tant’umile avena se ne tratti.
Ma che larghe ti sian d’ogni suo dono
Fortuna a gara con natura, ahi lasso!
54A me che vai se in te misero sono?
Se sempre ho il viso mesto e il ciglio basso,
Se di lagrime ho gli occhi umidi spesso.
57Se mai senza sospir non muto il passo?
Da penitenza e da dolore oppresso,
Di vedermi lontan dalla mia luce,
60Tróvomi sì, ch’odio talor me stesso.
L’ira, il furor, la rabbia mi conduce
A bestemmiar chi fu cagion ch’io venni,
63E chi a venir mi fu compagno e duce:
E me che senza me, di me sostenni
Lasciar, oimè! la miglior parte, il côre;
66E più all’altrui che al mio desir m’attenni.
Che di ricchezza, di beltà, d’onore
- ↑ Verso pieno d’istorica verità.