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242 | elegia decimaquarta. |
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Perchè non possa, ma perchè non vuole:
60E qui si ferma, ed io supplico a un sasso;
Anzi a una crudel’aspide,[1] che suole
Atturarsi l’orecchie, acciò placarse
63Non possa per dolcezza di parole.
Non pure al soavissimo abbracciarse
Dell’amorose lotte, e a’ dolci furti,
66Le dolci notti a ritornar son scarse;
Ma quelli baci ancora, a’ quai risurti
Miei vital’ spirti son spesso da morte,
69Mi niega, o mi dà a forza secchi e curti.
Le belle luci (oimè! quest’è il più forte)
Si studian che di lor men fruir possa,
72Poi che si son di più piacermi accorte.
Così quand’una e quand’un’altra scossa
Dà per sveller la speme di cui vivo,
75Per cui morrò, se fia da me rimossa.
O di voi ricco, donna, o di voi privo,
Esser non può che più di me non v’ami,
78E me, per voi prezzar, non abbia a schivo.
Si che pel danno mio, ch’io mi richiami
Di voi, non vi crediate: più mi spiace,
81Che questo troppo il vostro nome infami.
Ogni lingua di voi sarà mordace,
Se s’ode mai che un sì benigno giogo
84Rotto abbia, o sciolto, il vostro amor fugace.
O non legarlo, o non sciôr fino al rogo
Dovea; chè in ogni caso, ma più in questo,
87Mal dopo il fatto il consigliarsi ha luogo.
Il pentir vostro esser dovea più presto:
E, se ben d’ogni tempo non potea
90Se non molto parermi acre e molesto;
E voi non potevate se non rea
Esser d’ingratitudine, se tanta
93Servitù senza premio si perdea;
Pur io non sentirei la doglia, quanta
La sento per memoria di quei frutti
96Ch’or mi niega di accôr[2] l’altera pianta.