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248 elegia decimasettima.

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66Che sì fu in terra di ben farti vaga,
  Abitatrice in ciel fatta novella,
Lassando in terra la sua fragil spoglia,
69Di sue virtudi e più onorata e bella
  Sì che di noi, non del suo ben ci doglia;
Che ’l spirto in ciel dalle sue membra sciolto
72Di ritornar qua giù non ha più voglia.
  Vero è che pur di noi le incresce molto;
Chè ancor l’usata sua pietà riserba.
75Nè morte il popol suo dal côr le ha tolto.
  Ma nostra doglia mal si disacerba
Pensando che sua vita è giunta al fine,
78Non già matura ancor, ma quasi in erba.
  Qual man crudel che, fra pungenti spine,
Schianta la rosa ancor non ben fiorita,
81Morte spiccò da quella testa un crine.[1]
  Quest’ora da Dio in ciel fu stabilita;
Che degno di costei non era il mondo,
84Anzi là su d’averla seco unita.
  O di virtude albergo almo e giocondo,
Debb’io forse narrar la tua eccellenza,
87A cui me stesso col pensar confondo?
  Chè l’infinita e somma Provvidenza
Degna ti reputò della sua corte,
90Più per giustizia assai, che per clemenza:
  E per tirarti alle sidéree porte
(Mandati prima a te li nunzî suoi),
93Calò dal ciel la tremebonda Morte.
  Non come è usata di venir fra noi
Con quella falce sanguinosa e oscura,
96Apparve Libitina agli occhi tuoi.
  Descriver non saprei la sua figura;
Ma venne onesta e in sì leggiadro viso,
99Che nulla avesti al suo venir paura;
  E, con dolci atti e con piacevol viso,
Disse: — Madonna, vien, ch’io son mandata
102Per tôrti al mondo e darti al paradiso. —


  1. Imitazione del Petrarca ove dice, descrivendo la morte di Laura: «Allor di quella bionda testa svelse Morte con la sua man un aureo crine.» (Trionf. mort., cap. I.) Sentesi che l’Ariosto ebbe vôlto il pensiero a quel capitolo del sommo lirico, e seppe aggiungere ai concetti soavissimi di quest’ultimo la bella immagine che trovasi ai versi 98-102.
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