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capitolo primo. | 251 |
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A peregrino infermo, che tra via
21Dalla patria lontan compagno lasse,
Come giovato a me in contrario avria
Un languir dolce, che con scusa degna
24M’avesse avuto di tener balía.
Io so ben quanto mal mi si convegna
Dir, signor mio, che fra sì lieta schiera
27Io mal contento sol dietro vi vegna:
Ma mi fido ch’a voi, che della fiera
Punta d’amor chiara notizia avete,[1]
30Debbia la colpa mia parer leggiera.
Vostre imprese così tutte sian liete,
Come è ben ver ch’ella talor v’ha punto,
33Nè sano forse ancora oggi ne sete.
Sapete, adunque, s’avría male assunto
Chi negasse seguir quel ch’egli accenna,
36Quando n’ha sotto il giogo il collo aggiunto:
Se per spronare caricar d’antenna
Si può fuggir, con cavallo o nave,
39Che non ne giunga in un spiegar di penna.
Tal fallo poi di punizion sì grave
Punisce, oimè! che ardisco dir che morte
42Verso quella a patir saría soave.
Questo tiran non men crudel che forte,
Che anco mai perdonar non seppe offesa,
45Nè lascia entrar pietà nella sua corte;
Perchè mille fiate, e più, contesa
M’avea la lunga via che sì m’assenta
48Da quella luce in c’ho l’anima accesa;
Dell’inobbedïenza or mi tormenta
Con così gravi e sì penosi affanni,
51Che questa febbre è ’l minor mal ch’io senta.
Lasso! chi sa ch’io non sia al fin degli anni?
Chi sa ch’avida morte or non mi tenda
54Le reti qui d’intorno, in che m’appaimi?[2]
- ↑ Sono noti gli amori del cardinale Ippolito, e i tristi effetti che ne seguitarono ad un fratello suo rivale. Il Baraffaldi li confermò, citando i versi latini di Guido Postumo, che fu medico del porporato, il quale così scriveva ad una sua amica, parlando di esso Ippolito: «Illi carus ego, et per me carissima fies Tu quoque amans; nostras sensit et ille faces.» Vita ec., pag. 122 e 123.
- ↑ In che mi prenda (come si fa degli uccelli nella rete o ragna, detta talvolta anche Panno). Vedi la Crusca, sotto la voce Appannare.