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canzone seconda. 287

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Col tuo mortale a patir caldo e verno,
Lo dêi stimar per un momento breve,
Verso quest’altro, che mai non riceve
Nè termine nè fin, viver eterno.
50Volga fortuna il perno
Alla sua rôta in che i mortali aggira:
Tu quel che acquisti mira,
Dalla tua via non declinando i passi;
E quel che a perder hai, se tu la lassi.
  55Non abbia forza il ritrovar di spine
E di sassi impedito il stretto calle
Al santo monte per cui al ciel tu poggi,
Sì ch’all’infida o mal sicura valle
Che ti rimane a dietro, il piè decline:
60Le piagge e le vicine
Ombre soavi d’alberi e di poggi
Non t’allettino sì, che tu v’alloggi.
Che, se noja e fatica fra gli sterpi
Senti al salir della poco erta roccia,
65Non v’hai da temer altro che ti noccia,
Se forse il fragil vel non vi discerpi:[1]
Ma velenosi serpi
Delle verdi, verihiglie e bianche e azzurre
Campagne, per condurre
70A crudel morte con insidïosi
Morsi, tra’ fiori e l’erba stanno ascosi.
  La nera gonna, il mesto e scuro velo,
Il letto vedovil, l’esserti priva
Di dolci risi, e schiva
75Fatta di giuochi e d’ogni lieta vista,
Non ti spiacciano sì che ancor captiva
Vada del mondo, e ’l fervor torni in gelo,
C’hai di salire al cielo,
Sì che fermar ti veggia pigra e trista:
80Chè questo abito incolto ora t’acquista,
Con questa noja e questo breve danno,
Tesor che d’aver dubbio che t’involi
Tempo, quantunque in tanta fretta voli,
Unqua non hai, nè di fortuna inganno.
85O misero chi un anno


  1. Vi laceri. Così pur Dante «Perchè mi scerpi? in Inf., XIII, 35.
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