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canzone seconda. | 289 |
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125Chi di sangue e d’amor ti sia congiunto.
Questo sopra ogni lume in te risplende,
Se ben quel tempo che sì ratto corse,
Tenesti di Nemorse
Meco scettro ducal di là da’ monti;
130Se ben tua bella mano il freno torse
Al paese gentil che Appennin fende,
E l’Alpe e il mar difende.[1]
Nè tanto val che a questo pregio monti,
Che ’l sacro onor dell’erudite fronti,
135Quel tosco, e ’n terra e ’n cielo amato, Lauro,[2]
Sôcer ti fu, le cui Mediche fronde
Spesso alle piaghe, donde
Italia morì poi, furon ristauro;
Che fece all’Indo e al Mauro
140Sentir l’odor de’ suoi rami soavi;
Onde pendean le chiavi
Che tenean chiuso il tempio delle guerre,
Che poi fu aperto, e non è più chi ’l serre.[3]
Non poca gloria è che cognata e figlia
145Il Leon beatissimo[4] ti dica,
Che fa l’Asia e l’antica
Babilonia tremar sempre che rugge;
E che già l’Afro in Etïopia aprica
Col gregge e con la pallida famiglia
150Di passar si consiglia;
E forse Arabia e tutto Egitto fugge
Verso ove il Nilo al gran cader remugge.[5]
Ma da corone e manti e scettri e seggi,
Per stretta affinità, luce non hai
155Da sperar che li rai
- ↑ Intendasi la Toscana.
- ↑ Lorenzo il Magnifico, padre di Giuliano. — (Molini.)
- ↑ Di ciò vedasi il Guicciardini al principio del libro primo. Gli odierni lettori poi sanno, che niun altro più caldo apologista e lodatore ebbe il Magnifico in verun tempo, di quel che sia stato ai nostri giorni, nelle Speranze d’Italia, Cesare Balbo.
- ↑ Leone X. — (Molini.)
- ↑ Questa allusione ci scopre l’anno in cui la Canzone fu scritta, cioè nel 1518; quando cioè papa Leone, come scrive il Muratori, «affinchè il sultano Selim non trovasse sprovedute le contrade cristiane, più che mai si diede ad incitare i monarchi battezzati ad una lega, non solamente per fargli fronte occorrendo, ma anche per invadere preventivamente da più parte gli stati suoi.» Ann. d’It.
ariosto. — Op. min. — 1. | 25 |
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