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sonetti. 299

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Sonetto XIV.


  Occhi miei belli, mentre ch’io vi miro,
Per dolcezza ineffabil ch’io ne sento,
Vola come falcon c’ha seco il vento,
4La memoria da me d’ogni martiro:
  E tosto che da voi le luci giro,
Amaricato[1] resto in tal tormento,
Che s’ebbi mai piacer, non lo rammento:
8Ne va il ricordo col primier sospiro.
  Non sarei di vedervi già sì vago,
S’io sentissi giovar, come la vista,
11L’aver di voi nel côr sempre l’immago.
  Invidia è ben, se ’l guardar mio v’attrista;
E tanto più che quell’ond’io m’appago,
14Nulla a voi perde, ed a me tanto acquista.


Sonetto XV.


  Quel caprïol che, con invidia e sdegno
Di mille amanti, a colei tanto piacque,
Che con somma beltà per aver nacque
4Di tutti i gentil côri al mondo regno;
  Turbar la fronte, e trar (pietoso segno)
Dal petto li sospir, dagli occhi l’acque
Alla mia donna, poi che morto giacque,
8E d’onesto sepolcro, è stato degno.
  Che sperar ben amando or non si deve,
Poi che animal senza ragion si vede
11Tal premio aver di servitù sì lieve?
  Nè lungi è omai (se dee venir) mercede:
Chè quando s’incomincia a sciôr la neve,
14Ch’appresso il fin sia il verno è chiara fede.


  1. L’esempio mostra che questa voce non morì col trecento pei poeti.
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