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302 sonetti.

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Sonetto XX.[1]


  Come creder debb’io che tu in ciel oda,
Signor benigno, i miei non caldi preghi,
Se gridando la lingua che mi sleghi,
4Tu vedi quanto il côr nel laccio goda?
  Tu che il vero conosci, me ne snoda,
E non mirar ch’ogni mio senso il nieghi:
Ma prima il fa che, di me carco, pieghi
8Caronte il legno alla dannata proda.
  Iscusi l’error mio, Signore eterno,
L’usanza ria, che par che sì mi copra
11Gli occhi, che ’l ben dal mal poco discerno.
  L’aver pietà d’un cor pentito, anch’opra
È di mortal: sol trarlo dall’inferno
14Mal grado suo, puoi tu, Signor, di sopra.


Sonetto XXI.


  O messaggi dei cor sospiri ardenti,
O lacrime che ’l giorno io celo a pena,
O preghi sparsi in non feconda arena,
4O del mio ingiusto mal giusti lamenti;
  O sempre in un voler pensieri intenti,
O desir che ragion mai non raffrena;
O speranze che Amor dietro si mena,
8Quando a gran salti e quando a passi lenti:
  Sarà che cessi o che s’allenti mai
Vostro lungo travaglio e il mio martire,
11O pur fia l’uno e l’altro insieme eterno?
  Che fia non so; ma ben chiaro discerno
Che mio poco consiglio e troppo ardire
14Soli posso incolpar ch’io viva in guai.


  1. È noto come tutti i poeti vissuti dopo il Petrarca ponessero tra le loro rime alcuno di quei componimenti che poi furon detti di pentimento spirituale. Tale è pur questo di messer Lodovico.
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