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madrigali. 311

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Madrigale VI.


  Se voi così miraste alla mia fede,
Com’io miro a vostri occhi e a vostre chiome,
Ecceder l’altre la vedreste, come
Vostra bellezza ogni bellezza eccede.
  5E come io veggio ben che l’una è degna,
Per cui nè lunga servitù nè dura,
Nojosa mai debba parermi o grave;
Così vedreste voi, che vostra cura
Dev’esser che quest’altra si ritegna
10Sotto più lieve giogo e più soave;
E con maggior speranza che non have
D’esser premiata; e se non ora a pieno
Come devríasi, almeno
Con un dolce principio di mercede.


Madrigale VII.


  A che più strali, Amor, s’io mi ti rendo?
Lasciami viva,[1] e in tua prigion mi serra.
A che pur farmi guerra,
S’io ti do l’armi e più non mi difendo?
  5Perchè assalirmi ancor se già son vinta?
Non posso più: questo è quel fiero colpo,
Che la forza, l’ardir, che ’l côr mi tolle.
L’usato orgoglio ben danno ed incolpo.
Or non ricuso, di catena cinta,
10Che mi meni captiva al sacro colle.[2]
Lasciarmi viva, e molle
Carcere puoi sicuramente darmi;
Che mai più, signor, armi,
Per esser contro tuoi disir, non prendo.


  1. Composto a nome di una donna che alfine rendavasi vinta al suo amante.
  2. Sembra che, così scrivendo, il poeta pensasse a quei versi del Petrarca, nel Trionfo d’Amore, cap. IV: «Nel mezzo è un ombroso e verde colle, Con sì soave odor, con sì dolci acque, Ch’ogni maschio pensier dell’alma tolle. Questa è la terra che cotanto piacque A Venere ec.»
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