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Inter læta rosaria
  Tristis cura magis tempora assyrio
Unguento madida insilit,
  Et sævit penitus, si furor, Alpibus
Sævo Flaminis impetu
  Iam spretis, quatiat celticus Ausones.[1]
Hic est qui super impiam
  Cervicem gladius pendulus imminet.




X.

DE LYDIA.[2]


Hæc certe Lepidi sunt regia mœnia, quæ sic
  Grata mihi paucos ante fuere dies,
Lydia dum patrios coleret formosa penates,
  Redderet et formâ cuncta serena suâ.
Nunc, ut ab illis immutata! quid illius, eheu!
  Illius amotâ luce decoris habent?
Illius a carâ qui me genitrice domoque
  Tot valuit messes[3] detinuisse procul.
Tu sine me tacitis excedere, Lydia, portis,
  Tu sine me potis es rura ridere tua?
Cur comitem me, dura, negas admittere? curvæ
  Sarcina sum rhedæ visa onerosa tuæ?
In tua non adeo peccarem commoda demens,
  Arctius ut premerem terga, latusve tuum!
Conductus non deerat equus, non deerat amicus
  Iuvisset mannis qui mea vota suis.


  1. Allude agli eserciti francesi spinti verso di noi per istigazione singolarmente di papa Alessandro VI, appellato col nome di Flamine, cioè sommo sacerdote o pontefice. — (Baruffaldi.)
  2. «Lidia, forse nome finto, era, per quanto sembra, una femmina della quale il poeta erasi invaghito in Reggio; e ne fa anche menzione nel carme Ad Petrum Bembum. — (Baruffaldi.)
  3. Il Baruffaldi dubitò che potesse leggersi menses, ma fu propenso a ritenere l’altra lezione messes, spiegando quest’ultima per due stagioni estive o due anni (1501 e 1502) che l’Ariosto passò «sul Reggiano per istarsene presso l’amica;» e intendendo, nell’altro caso, «che andò a Reggio e ne ritornò più volte nei predetti anni, e ivi si fermò ora per più mesi, ora per meno.» Op. cit., pag. 103.
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