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canto secondo. 391

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Se a Ferraguto quella ninfa apparve,
Qual si chiamava dell’altre primaja:[1]
O fusser corpi veri o finte larve,
Pur parea corpo quella ninfa gaja.
Se con[2] qualche ragion debbo parlarve:
Non so[3] come altro giudicar[4] si possa,
Chè un spirto non si tocca in carne e in ossa.

4 Toccavasi ella e ragionar s’udiva,
E porse a quel baron[* 1] lo illustre scuto;
A cui, da poi che ’l suo parlar finiva,
Rispose allor sagace Ferraguto:
— O sii donna mortale o eterna diva,
Eternamente ti sarò tenuto,
Che in dui perigli, fuor d’ogni speranza,
In l’un scuto mi desti, in l’altro stanza.

5 Ma qui[5] se fai ch’a Venere io sia grato,
Nè mi trovi in amor tanto infelice,
Ch’io non vi fui già mai avventurato,
Pur ch’io vi fussi un tratto almen felice,
Io mi reputarei sempre beato.
[6]
Chè tanto un sol piacere a un miser vale,
Che gli rimette[* 2] ogni passato male.

6 Ma non so, ninfa,[* 3] se ragione o errore
Sia che sperar mi fa di questo poco:[7]
Come esser può che a quella Dea d’amore,
Che altrui suole infiammar, piaccia tal loco?
Esser non può che in umile liquore
Produr si possa e conservarsi il fôco,
Il fôco che più al cor d’ogni altro preme,
Chè mal pôn stare dui contrari insieme. —


  1. Il Baruffaldi legge: d’altre la primaia.
  2. Lo stesso: Se per.
  3. Sciò, qui ed altrove nel Codice; sciai, scià, scianno, per sai, sa e sanno. Il Bojardo cantò: «Ben sciò certo che pria... Ben sciò ch’io sosterrei» (Sonetti e Canzoni; Milano 1845, pag. 32). — (A.-G.)
  4. Male, alcerto, il Baruffaldi: tollerar.
  5. Lo stesso: Ma pur.
  6. Stanza mancante del sesto verso. — (A.-G.) Ne manca ancora la stampa del Baruffaldi, il quale avverte non essersi lasciato nel Manoscritto lo spazio che dovrebbe contenerlo.
  7. Il Codice: puoco, luoco e simili.
    • Ferraù.
    • fa scordarli.
    • dama.
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