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canto secondo. 399

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E che debbia correndo indi partirse,
E ben cerchi mirare attento e fiso
Se più dove diceva[* 1] il conte vede,
E poi ritorni e facciane lor fede.

39 Súbito il servo, senza altra risposta,
Ritornò in sala, ove ancor stava il conte;
A cui il servo assai vicin si accosta,
E fra sè dice: — Io pur ti miro in fronte;
Pur veggio quel che sei: ora a sua posta
Mi accusi la regina e facciami onte;
Ch’io dubito assai ch’essa e il suo figliuolo
Non sian traditi, e non ricevan duolo. —

40 E nulla dire allora a Milon volle,
E fra sè parla, e torna alla regina,
Ed a lei disse: — Chi ’l cervel mi tolle,
Peggio che non veggio io quello indivina.[1]
Tu sei troppo, regina, a creder molle,
E ne potría riuscir tua gran rovina:
Orlando è in sala; e questo è certo assai,
E a vederlo tu ancor venir potrai. —

41 Rispose la regina: — Io vô vedello;
Ch’io voglio, s’io nol trovo, castigarti:
E tu, conte, se tu però sei quello,
Prego che qui mi aspetti e non ti parti. —
Rispose Malagigi: — Io son pur ello;
E per meglio voler certificarti,
Qui dentro chiuso vóglioti aspettare:
Fa pur quanti usci vuoi di fuor serrare. —

42 Fu chiuso Malagigi, e Galliciana
Andò dove è Milone, e il conte in sala;
E visto il conte, assai li parve strana
Tal cosa, e come a uccel[2] le cascò l’ala.
Chiama in amore ogni sua opra vana;
L’ira in lei[* 2] cresce, e il desiderio cala;
Volsesi disperar, volse morire,
Poi che così si vide allor schernire.

43 Ma, come sempre, saggia e discreta,


  1. Cioè: chi dice ch’io non ho cervello, indovina peggio di quello che non veda io. — (A.-G.)
  2. MS.: occel.
    • detto ha.
    • Il sdegno.
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